Quando raggiungo la location che di lì a qualche ora ospiterà la terza edizione del Contronatura Festival, i Real Estate sono sul palco per il soundcheck. Sono arrivato con largo anticipo e nella radura che accoglierà il pubblico ci sono poche persone, prevalentemente del personale, indaffarate a sistemare gli ultimi dettagli. Mi avvicino al palco. Matthew Mondanile (chitarrista) scherza coi compagni e con l’addetto al missaggio, mentre Martin Courtney (cantante) conserva la sua solita sobrietà, a metà strada tra Stephen Malkmus e Ben Gibbard, un po’ indie un po’ nerd. Provano l’interplay tra gli strumenti e, dopo qualche minuto, quando il suono desiderato è ottenuto, lasciano il palco per andare a cenare. Nel clima di assoluta libertà di movimento che si respira, mi addentro nei meandri del Sudestudio di Guagnano (Le), un posto sperduto tra i vigneti; una porta dà sul giardino dove i cinque membri del gruppo provano la qualità della cucina salentina, accompagnata da larghi sorsi di Negroamaro. E’ bello vederli (senza che loro mi vedano), sorridenti e perfettamente a loro agio. E realizzo che ciò che più mi piace della loro musica è questo intimismo amicale che dà calore e vibrazioni familiari alle loro belle composizioni. Chiedo agli organizzatori se sia possibile concederci un’intervista. Prontamente si mettono in moto e dopo poco tempo mi viene presentato Matthew Mondanile, un gigante magro coi capelli scompigliati e con un paio di occhialoni usciti dai Settanta. Il suo agente mi chiede di cosa si tratta. “Ondarock, kind of italian Pitchfork” rispondo io. Matthew ride: “Alright, let’s start then!”.
Unica data in Italia. Perché il Salento?
Ci hanno chiesto di suonare e visto che l’anno scorso, venendo coi Ducktails, sono rimasto incantato da questo posto strano e surreale, nel bel mezzo del nulla, abbiamo pensato che sarebbe stato bello ritornarci con la band al completo.
Ai tempi del vostro debutto, nel 2009, potevate essere facilmente inseriti nel trend delle band indie-pop che quell’estate spopolarono, insieme con l’hypnagogic-pop. Molte di quelle band sono però scomparse, invece voi dopo 5 anni siete qui e avete tutta l’aria di continuare. Cosa è cambiato da allora?
Credo principalmente che abbiamo acquisito una certa pratica col comporre musica, scrivere testi e con tutte quelle attività che stanno a dietro a un disco. Nel 2009 suonavamo molto home-recording, e ciò che prevaleva del nostro sound era appunto quel feeling; ma col tempo siamo pervenuti a composizioni in un certo senso più universali e che non fossero circoscritte alla nostra cameretta. Anche il songwriting è diventato meno ingenuo, ma più maturo e riflessivo.
Il vostro nome qui in Italia spesso non dice nulla ai non appassionati, ma basta fischiettare “It’s Real” perché capiscano chi siete. Credete sia possibile portare stabilmente il vostro sound a un pubblico più vasto?
Certo, con una buona diffusione anche pezzi indie possono essere apprezzati da un vasto pubblico. Noi suoniamo per passione, senza fissarci su rigide classificazioni. La nostra musica può essere tranquillamente apprezzata da molti.
“Days” ci ha messo molto tempo a conquistarmi, ma ora è certamente uno dei miei dischi indie-pop preferiti in tempi recenti. Credete che la vostra musica sia un po’ come il vino, che migliora col tempo?
Sì, concordo in pieno! Trovo sia una metafora particolarmente azzeccata.
Il vostro nuovo album, “Atlas”, è percorso da una vena più intimistica e malinconica. Cosa ha determinato questa direzione?
La nostra attitudine compositiva ci porta naturalmente a suonare nostalgici e malinconici, anche se non è certo il nostro unico tratto distintivo. Semplicemente stiamo crescendo e questo a volte si può tradurre in un mood più riflessivo e introspettivo.
State diventando una band più consapevole dei propri mezzi, e anche la produzione pian piano diventa più nitida e curata. Credete che l’indie-pop possa suonare “big” senza snaturarsi?
In dischi caratterizzati da una produzione home-made prevale la spontaneità del suono, ma c’è il rischio che i brani non vengano pienamente valorizzati. D’altra parte quando entri in uno studio e vai per l’alta fedeltà, corri il rischio di suonare troppo piatto o artificioso. Credo che un buon compromesso tra il rendere tutta la naturalezza del suono, ma anche valorizzarlo con una produzione sapiente sia la strada ideale. L’indie-pop può essere “big” o “small”, eppure veicolare le stesse sensazioni.
I vostri video vi riprendono spesso nell’atto di comporre, provare in studio, quasi a voler rendere l’idea della professionalità che c’è dietro ai vostri lavori, tutto ciò con uno spirito molto vintage. Auspicate forse un ritorno ai vecchi modi di concepire ma anche di fruire la musica, ad esempio negli anni Settanta?
Amiamo moltissimo gli anni Settanta e la maggior parte della nostra musica preferita ricade in quel periodo; trovo che l’idea stessa di musica che si aveva a quel tempo era molto bella; oggi abbiamo molti più mezzi per ascoltarla e condividerla, ma non mi dispiacerebbe se si conservasse un po’ di quel vecchio spirito.
Progetti per il futuro?
Finire questa tournée, riposarci e poi ritrovarci, perché no?, già l’anno prossimo.
Il mio tempo a disposizione finisce, facciamo qualche foto insieme, poi ci salutiamo. Nella mia testa si rafforza la convinzione che questa band abbia musicisti con un amore per la musica sconfinato; e penso anche quanto a volte sia limitante catalogare ogni artista come indie/non indie, quando molto spesso i sentimenti e le intenzioni che spingono a fare musica sono i più universali che esistano.
(3 settembre 2014)
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