Non serve a nulla ingannarsi: i Real Estate senza Matt Mondanile non sono, e non saranno mai più, la stessa band. Restano l'estetica, gli accordi di settima, quella tendenza a farsi immalinconire dalla stagione calda, ma la vera essenza della band del New Jersey sembra essersi dissolta per sempre con l'allontanamento nel 2016 del suo chitarrista storico. E non parliamo di una guitar band qualsiasi, perché nel primo lustro dello scorso decennio Martin Courtney e soci sono stati davvero qualcosa, una realtà molto più che una sensazione; una band indie-rock di prima linea, poeti dei sobborghi nel loro saper dipingere trame di chitarra tanto soffici quanto tragiche. Una magia, la loro, che si è preservata fino ad "Atlas" (2014), il quale portava con sé anche gli ultimi piccoli classici incisi dal gruppo.
"In Mind", il primo disco con Julian Lynch alla chitarra solista, faceva già capire come fossimo di fronte a una band diversa, impressione che trova conferma definitiva con questo nuovo, quinto, album. A differenza del predecessore, però, "The Main Thing" non è un passo falso, ma un passo di lato. Subentra la consapevolezza di come la ricetta vincente degli esordi sia ormai orfana del suo ingrediente segreto - la chitarra di Mondanile - accompagnata dalla necessità di esprimersi in nuovi modi: non più con le melodie, ma con l'atmosfera. Le voci, le linee di chitarra, gli accordi di synth sfocano e si armonizzano in un nebuloso impasto sonoro, un tepore languido e sfrigolante che pervade tutte le canzoni del disco e compensa per la perdita di smalto pop. Magistrale, da questo punto di vista, la conclusiva "Brother", una strumentale sospesa sugli acquosi accordi di un'acustica e che suggerisce un indefinibile senso di abbandono.
Si percepisce un respiro strano, sottile, e nuovo. Non sono più le sole chitarre a duettare, ma spesso si ritrovano inseguite da una tastiera, quando non rifinite da una sezione di archi, come nel singolo "Paper Cup". Questa nuova ricchezza di suono, inspiegabilmente, tende a dare i suoi frutti migliori nella seconda parte del disco, tra rimandi ai War On Drugs più artigianali (l'accoppiata "Sting"-"Silent World") e aperture armoniche radiose e desolate ("Shallow Sun", "Procession"). Sono i brani iniziali, invece, a convincere meno, forse perché troppo fermi sui vecchi schemi, anche se "You" (con tanto di assolo sincopato) e "Falling Down" non avrebbero sfigurato troppo nei dischi di inizio decennio.
Al netto di tutto, lode a Martin Courtney per aver saputo reinventare il cuore della sua band senza sporcarne l'identità, ma semplicemente voltando pagina. I primi tre album restano su un livello superiore, certo, ma appartengono ormai a una vecchia storia. "The Main Thing" è un buon disco e i Real Estate sono qui, pronti per ripartire.
09/03/2020