Questo nuovo rapporto con la psiche (per il tramite dello spiritualismo di matrice indiana) esorta Fahey a spingersi ancora più oltre nella sua visionaria rivisitazione del folk(-lore) americano. La scelta dei versi di Eliot, infatti, evidenzia come il Nostro avesse ormai intenzione di affidare le sue peregrinazioni all'ignoto, stabilendo un rapporto con la sua chitarra acustica che fa capo a una dizione irrazionale, profondamente intaccata da fantasmi interiori, tutti risolti, però, in puro scintillio sonoro, in pura evocazione di forme mutanti ma protese verso l'assoluto. Ma questo viaggio dentro se stessi - e dentro la coscienza stessa del mondo - ha una progressione inversa: Fahey parte, infatti, dalla già acquisita consapevolezza dell'unione trascendente tra il fuoco (simbolo dell'amore divino) e la rosa (immagine della bellezza e del desiderio). In questa unione, Eliot - e, di riflesso, lo stesso Fahey - intravedono il momento supremo della tensione verso l'alto dell'uomo-viaggiatore (l'"uomo-tartaruga", elevato dal chitarrista di Takoma Park a riflesso speculare dell'umano genere).
Così, in "When The Fire And The Rose Are One" (13'54"), dopo un solenne caleidoscopio di accordi, riverberati da una profondità glaciale (straordinario il lavoro del produttore Jim Hobson), la perfezione di quell'unione viene resa dal contrasto vertiginoso tra attimi di soliloquio quasi ascetico e improvvise accelerazioni, dense ora di timor panico, ora di estatica calma. Dopodiché, a 3'55", il suono si distende in un delicato acquerello onirico. La dita di Fahey scivolano sulla tastiera, e quel rumore entra a far parte della sua musica, così come una pennellata violenta riesce a immobilizzare sulla tela, e nel tempo, l'atto del pittore. Seguite l'imperioso gioco di linee trasversali (narrazione e digressione; meditazione e contrappunto) che da 7'42" inizia a spingere verso il finale, anch'esso in equilibrio tra quiete e tempesta, scale impavide e note abbandonate al loro destino.
"Thus Krishna On The Battlefield" (6'36") - sul tema della necessità dell'azione disinteressata come antidoto alla colpevolezza innata di ogni azione umana - ha un andamento meno convulso: quattro minuti circa di accordi liberi, ma incanalati verso un tema di base, che finisce, poi, per svanire in una sofferta ascesa armonico-melodica: da un lato, scintille nitidissime; dall'altro, la cupa austerità delle note basse. Entrambe venate di furia. I 23 minuti e oltre della incredibile title-track rappresentano l'ultimo invito ad "andare" verso la nostra "vera destinazione". Insieme con "Voice Of The Turtle" (su "America"), questo è certamente il punto più alto del "primitivismo" di Fahey. Ovvero, della sua fondamentale lezione (soprattutto per la new-age a venire) su come, da un semplice tema, si possano travalicare confini su confini, anche con una semplice chitarra.
Se il fanatismo di Fahey per le origini della musica popolare americana e per i "raga" indiani è la matrice da cui scaturiscono le sue visioni, allora con "Fare Forward Voyagers" (il brano) la sua ricerca può dirsi compiuta. Fin dai primissimi secondi si capisce che siamo di fronte a una meditazione assoluta, definitiva (così come lo era "Voice Of The Turtle", ma da un punto di vista più pacato, più "narrativo"): vibrare sconsolato delle corde più basse, stratificazioni diamantine, reminiscenze "astratte" del vecchio caro blues, armonici luminosissimi, divagazioni sottilissime. Questo per circa sette minuti. Poi, rifrazioni di scale indiane e frammenti di old-America in festa frullano un girotondo d'altri tempi. Intorno al tredicesimo minuto, la chitarra si alza in un volo spaventoso. E' come se Fahey fosse ormai in balia della sua stessa musica. Sembra, insomma, sperimentare su se stesso, e in maniera spaventosamente "concreta", il "rasa", il piacere estetico che, sempre secondo la tradizione indiana, scaturisce dalla perfetta esecuzione (e da un corretto ascolto) del "raga". Seguendo i dettami della stessa tradizione, inoltre, Fahey dispone le note per sequenze melodiche, che, a loro volta, si succedono in maniera ascendente o discendente. E, ancora, cercando di mantenere una "gerarchia modale", di tanto in tanto, accentua determinate note. Ecco, quindi, spiegati gli improvvisi turbamenti del tessuto sonoro mediante sbalzi vigorosi, che sembrano voler far precipitare la linea (già di per sé "pericolante") dell'improvvisazione. Ma, tuttavia, il suo non è un chitarrismo virtuoso, al pari, per esempio, di quello di un Leo Kottke. E', invece, come dire?, più impressionista, meno strutturato, anche se magari si ha l'impressione opposta in certi momenti. Verso il diciannovesimo minuto, la tensione si placa nuovamente. I soliti accordi riflessivi si dilatano nello spazio e nel tempo. Piccole schegge armoniche vibrano solitarie. Fahey ritorna, come già nei due brani precedenti, sui suoi passi, ma questa volta citando, di sfuggita, anche alcuni accenti della sua "Dalhart, Texas, 1967" (su "America"). Mantenendo fede ai versi di Eliot, egli sa, insomma, che "principio" e "fine" sono pur sempre la stessa cosa.
(29/10/2006)