Quando si dice il destino: pur avendo fondato una delle band più importanti di tutta l’epopea psichedelica (quei Quicksilver Messenger Service il cui "Happy Trails" appartiene di diritto all’Olimpo dei dischi cruciali di quell’irripetibile fermento creativo che caratterizzò gli anni Sessanta), Dino Valenti non riuscì a godere del momento di massimo successo della sua creatura, causa un’accusa di possesso di marijuana che lo costrinse a fare un’inaspettata visita alle patrie galere. Quando tornò a essere un uomo libero, ebbe modo, comunque, di registrare in solitaria un piccolo gioiello di folk psichedelico che è doveroso non lasciar sprofondare nel dimenticatoio. Ma andiamo per ordine.
Innanzitutto, Dino Valenti (diventerà Valente per colpa di un refuso, come vedremo più avanti), non era il suo vero nome. Si chiamava, infatti, Chester (per gli amici, semplicemente "Chet") William Powers, Jr. ed era nato il 7 ottobre del 1937 a Danbury, una cittadina del Connecticut che, qualche anno fa (nel 2015, per la precisione), si guadagnò la seconda piazza nella classifica, messa a punto dal quotidiano Usa Today, delle città più vivibili degli Stati Uniti. Anche a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, Danbury pare fosse un posto piacevole in cui vivere, eppure per il giovane Chester, spirito libero e avventuroso, era altrove che bisognava andare. Non gliene fregava niente del “sogno americano” e della corsa al successo che i suoi genitori sponsorizzavano un giorno sì e l’altro pure: voleva diventare un cantautore e lo voleva anche subito.
Messo da parte il suo vero nome per un più efficace Dino Valenti, a diciassette anni raggiunse, quindi, il Greenwich Village di New York, all’epoca (siamo intorno al 1954) già piccolo mondo di folksinger che si scambiavano sigarette, opinioni e canzoni in quegli “hootenanny” che erano vere e proprie feste sonore in cui musicisti e pubblico si mescolavano gioiosamente tra di loro, annullando distanze e ruoli.
All’alba dei Sessanta, Valenti riuscì a trovare il suo spazio tra le varie coffee house della zona, diventando amico, tra gli altri, di Fred Neil e Bob Dylan. A un certo punto, fu addirittura additato come il “Dylan dell’undergound”, ma questo non gli fu molto d’aiuto, dato che il mondo della discografia continuava tranquillamente a ignorarlo. Nel 1963, avendo saputo che anche sulla West Coast il folk era in piena fase revival, Valenti volò in quel di Los Angeles, scrivendo, di lì a poco, “Let’s Get Together”, un inno di pace e amore. Affidato in un primo momento a un demo inviato alla Autumn Records, il brano finì per qualche tempo nel dimenticatoio, salvo, infine, raggiungere le orecchie di milioni di ascoltatori grazie alle versioni di altri artisti, tra cui quelle del Kingston Trio, dei Jefferson Airplane e degli Youngbloods.
Come on people now, smile on each other
Everybody get together
Try to love one another, right now
Qualche tempo dopo, la Elektra intuì che quel ragazzo aveva talento e lo mise sotto contratto. Nel 1964 arrivò, così, il singolo “Birdses”, un bozzetto folk-pop dominato dal suono del clavicembalo che faceva coppia con lo svelto garage-soul di “Don’t Let It Down”. Durante quello stesso periodo, Valenti visse insieme a David Crosby in una casa sull’acqua nei pressi di San Francisco. A detta di Gene Clark, fu proprio l’ammirazione che provava per Valenti e, in particolare, per la sua “Birdses”, a spingere Crosby a ribattezzare la sua band con il nome di The Byrds.
Nel 1965, Valenti capì che, se voleva davvero raggiungere un pubblico più ampio, doveva fare di necessità virtù, amplificando il suo cantautorato folk con il megafono di quel rock che, proprio in quegli anni, stava iniziando a dare i suoi primi, succulenti frutti. Chiamati, dunque, a raccolta i chitarristi John Cipollina e Alexander "Skip" Spence, il bassista David Freiberg, l’armonicista Jim Murray e il batterista Casey Sonoban, battezzò la sua nuova creatura con il nome di Quicksilver Messenger Service. Spence e Sonoban, però, non durarono molto alla corte di quell’eccentrico personaggio con cui era davvero difficile andare d’accordo e la cui sfavillante fantasia era acuita da un uso non proprio misurato delle droghe. Poco male: il batterista Greg Elmore e il chitarrista Gary Duncan (vero nome: Gary Grubb) presero il loro posto, pronti a conquistare la Bay Area sotto la guida di Valenti. Non avevano, però, fatto i conti con i capricci del destino. Beccato dalla polizia con della marijuana addosso e, qualche giorno dopo, mentre aspettava di essere processato, anche con delle anfetamine, il leader della neonata formazione fu costretto, per racimolare i soldi necessari per pagarsi un avvocato, a vendere i diritti di “Let’s Get Together” al manager del Kingston Trio. Non riuscì, comunque, a sfangarla, finendo nel penitenziario di Folsom con una condanna di due anni circa. Così, mentre la band che aveva formato prendeva lentamente il volo, diventando una delle maggiori attrazioni della psichedelia americana, il povero Valenti mordeva il freno dietro le sbarre.
Eppure, una volta scontata la pena, non volle assolutamente tornare a reclamare ciò che era suo, perché, a suo dire, i Quicksilver Messenger Service si erano ormai, con le loro epiche cavalcate lisergiche, fin troppo allontanati dal sound che egli si era ripromesso di perseguire quando aveva deciso di dare inizio a quell’avventura. Tuttavia, il desiderio di fare musica non si era per niente spento dentro di lui. Firmato un contratto con la Epic (una sussidiaria della Cbs), entrò quindi in sala di registrazione per realizzare il suo primo (e ultimo – ma, allora, nessuno poteva saperlo) disco solista. Con l’aiuto del produttore Jack Nitzsche, fu approntato un lavoro chiaramente influenzato dalla ricerca sul pop che Phil Spector (con cui Nitzsche aveva a più riprese lavorato) andava già da qualche anno conducendo nel solco del cosiddetto “wall of sound”, un muro sonoro dal respiro sinfonico che, nelle intenzioni dell’eccentrico produttore, doveva sintetizzare la magniloquenza della musica di Wagner con la spicciola e accattivante energia del rock’n’roll. Appena ascoltò il mix finale, Valenti espresse tuttavia più di una riserva sulla produzione, trovandola, tra le altre cose, troppo commerciale. Non ne discusse, comunque, in modo pacifico con Clive Davis, l’allora presidente della Cbs: non era nel suo stile. No. Quello gli imponeva, invece, cose come svegliarlo nel bel mezzo della notte e prenderlo a male parole, nel tentativo di farsi pagare un nuovo produttore. Davis lo accontentò ma, come vedremo, gliel’avrebbe fatta pagare. Fu, così, organizzata una seconda seduta di registrazione, coordinata dal produttore Bruce Johnston, che nel suo curriculum, oltre a quelle con Johnny Cash e Simon & Garfunkel, poteva vantare anche la collaborazione con il Dylan della definitiva “svolta elettrica” di "Highway 61 Revisited" e dell’assestamento della stessa in qualcosa di assolutamente prodigioso ed essenziale per le sorti dell’allora ancora “immatura” musica rock (cercare alla voce: "Blonde On Blonde"). Tra il novembre del 1967 e l’aprile del 1968, vennero incisi ex-novo molti dei brani già presenti sul mix approntato da Nitzsche (fatta eccezione per “Let’s Get Together”, che fu stranamente messa da parte) più alcuni precedentemente accantonati.
Il risultato fu Dino Valente (10 tracce; 46:20), un disco in cui il cognome del nostro veniva maldestramente modificato da un refuso di stampa, anche se i maligni sospettano fosse stato proprio Davis a volerlo, per vendicarsi di quella notte in cui era dovuto balzare giù dal letto per discutere con l’infuriato cantautore. Davis pare avesse anche ordinato di non pubblicizzare più di tanto il disco, il che, ovviamente, non giovò a un’opera che, lontana parente di quella prodotta da Nitzsche (che, a sentire quelli che c’erano, poteva tranquillamente aspirare a diventare un successo commerciale), si era infine trasformata in uno scrigno, certo prezioso, ma poco appetibile per la massa, di acid-folk.
Aperto dalla ballata acustica di “Time” (in cui il suono del clavicembalo, le delicate percussioni e la voce appena filtrata danno vita a uno specchio finemente psichedelico), il disco - dominato dal risuonare estatico della voce e della chitarra a 12 corde di Valenti, entrambe cariche di eco - è un continuo susseguirsi di fantasmatiche incursioni in una psiche alterata dalle droghe e alle prese con il lento ma inesorabile trascorrere del tempo, dentro il cui vortice stavano precipitando tutte le utopie e le illusioni della “Summer of Love”. C’era, comunque, in quel moto di disillusione, una non trascurabile tensione al rinnovamento, da attuarsi innanzitutto attraverso un salutare superamento di ciò che era stato. È il tema di “Children Of The Sun”, brano che invita anche a guardarsi intorno, perché almeno qualcuno che ci ama davvero è lì da qualche parte ad aspettarci. Non è un caso, quindi, che in tutti i brani del disco Valenti si rivolga sempre a un “tu”, evidentemente adombrandovi l’immagine ideale di una donna che possa aiutarlo a superare la tempesta e a mettersi in "sintonia con la creazione", come recita l'ultimo verso di "Time".
Ma, intanto, la tempesta è, almeno musicalmente, messa a tacere, avvolta dal risuonare di un oceano di corde riverberate e di vocalizzazioni trasognate che, nelle trame dilatate di “Something New” (con chitarra elettrica in continuo deliquio jazzato), in quelle crepuscolari di “Listen To Me” ("ascoltami ragazza e vai a trovare la tua mente": l'invito di chi sa che l'unico viaggio che conta è quello che ci conduce lì dove già siamo...) e anche in quelle, leggermente più dimesse, di “New Wind Blowing” fanno pensare al Tim Buckley più onirico (quello di "Lorca", per intenderci), ma anche, perché no?, a una versione più luminosa dello Skip Spence di "Oar". In “My Friend”, la tavolozza dei colori è completata da flauto, tromba e pianoforte, a scolpire altre sofisticate vertigini jazz-folk, sempre indecise tra turbamento mondano e rapimento estatico. Quella di “Me And My Uncle” (scritta da John Phillips e poi ripresa, tra gli altri, anche dai Grateful Dead) è, invece, l’urgenza folk delle radici secondo il vangelo di Bob Dylan, laddove “Tomorrow” è romantica escursione cui gli archi donano raffinatezza d’altri tempi. In "Everything Is Gonna Be OK", infine, il folk prende per mano il blues, portandolo con sé in una fugace ricognizione alle soglie del sogno, prima che “Test”, con i suoi miraggi raga, lo riempia di mistero.
Del disco si accorsero davvero in pochi, ma Valenti fece buon viso a cattivo gioco, riappropriandosi, nel 1970, dei Quicksilver Messenger Service, per cui scriverà numerosi brani (in qualche caso utilizzando lo pseudonimo di Jesse Oris Farrow) destinati a una serie di dischi non esattamente imprescindibili. Nel 1974, poco prima che la band mettesse fine alla sua avventura, Valenti firmò un contratto con la Warner Bros, ma di nuovi dischi solisti non se ne videro. Ritiratosi a vita privata nella Marin County, nei pressi della baia di San Francisco, Valenti passò il resto dei suoi giorni a scrivere e a suonare canzoni insieme a molti dei musicisti della zona. La morte lo colse un giorno di novembre del 1994, quando aveva da poco compiuto 57 anni. La sua salma riposa, da allora, nel cimitero sito sul Monte Tamalpais, nei pressi di San Rafael.
Nel 2001, su etichetta It's About Music uscì Get Together: The Lost Recordings Pre 1970 (14 + 9 tracce; 68:32 / 40:56), una raccolta di suoi brani inediti registrati tra il 1964 e il 1970. Valenti li chiamava affettuosamente “i miei gioielli”, ma raramente li suonava in giro e mai si decise a pubblicarli ufficialmente, anche se li aveva comunque registrati. Agli amici aveva confidato che, dopo aver venduto i diritti di “Let’s Get Together” (perdendo, secondo le stime, intorno ai 20 mila dollari), si era ripromesso di non cantare più brani inediti in presenza di estranei, perché aveva paura che qualcuno potesse fregarglieli. Quando uscì di prigione, disse anche di essere lui l’autore di quella “Hey Joe” che, nel frattempo, Jimi Hendrix aveva reso famosa. Stava mentendo, perché i diritti di quel brano erano stati reclamati nel 1962 dal cantautore Billy Roberts… In ogni caso, sembra che il buon Jimi l’avesse comunque presa in prestito da Valenti, dopo aver con lui condiviso, una sera, il palco dell’Old Spaghetti Factory di San Francisco. In quell’occasione, come spesso aveva già fatto ai tempi del Greenwich Village, Valenti suonò “Hey Joe” seduto su uno sgabello, con la chitarra appoggiata su un ginocchio, l'altro piede impegnato a battere il ritmo, gli occhi chiusi e la testa rovesciata all'indietro. Nella sua versione, il buon Joe non regge in mano una pistola, ma un dollaro…
Hey Joe, where you goin’ with that dollar in your hand
Comunque sia, alla fine, i brani di cui stavamo parlando erano finiti in fondo a un cassetto e, dopo la sua morte, nessuno sapeva di preciso dove andare a ripescarli. Nel giro degli amici, correva voce si trovassero in qualche vecchio magazzino da qualche parte nel nord della California. Il che, ne converrete, equivaleva a dire che mettersi l’anima in pace non era di certo una scelta avventata. Eppure, alla fine, i nastri contenenti i “gioielli” tornarono a galla, restituiti al figlio Joli da una coppia di vecchi fan del padre che, per puro caso, li avevano trovati in un vecchio magazzino di Santa Rosa, una cittadina che, effettivamente, si trova nel nord della California.
Get Together: The Lost Recordings Pre 1970 contiene una musica che ha resistito all’urto del tempo, presentandosi intatta in tutto il suo cristallino fascino. Probabilmente, alcuni dei brani furono scritti da Valenti pensandoli come possibili candidati per i dischi di quei Quicksilver Messenger Service che, a partire dal 1970, tornerà a guidare. Lo suggeriscono, per esempio, alcune soluzioni musicali di più ampio respiro, così come lo lascia intendere il sound più robusto che caratterizza la chitarra elettrica in alcuni passaggi. Il sipario si alza sulle splendide pennellate di “Get Together”, che non è altro che quella “Let’s Get Together” che finalmente ascoltiamo dalla viva voce del suo creatore. A colpire, sono, poi, soprattutto le trame liquide e burrascose di "One Thousand Miles an Hour", il blues-rock virato soul di “Ain't That A Shame” (dilatato fino a toccare i nove minuti e mezzo di durata), il folk-rock accecato dal sole della West Coast di “Strange World” e il profumo di libertà, misto a un senso di nostalgico abbandono, che sprizza da tutti i pori di “Crossroads”, uno dei suoi brani più emozionanti.
Ma anche gli equilibrismi sonori di “Country Fair” (un robusto folk-jazz da camera che va avanti per oltre tredici minuti, senza però riuscire a giustificarli tutti) e il pathos romantico di “Everybody Knows” e “Star Rider” non sono da sottovalutare. Il folk diventa, invece, un affare di sola chitarra (a 12 corde) e voce in brani quali “Silver Dagger”, “I'll Try Something New” (dal catalogo di Smokey Robinson), “The Letter”, "That's How It Goes", “To The End Of The World” e la più bluesy “Midnight Rider”: ed è qui che il songwriting di Valenti risplende in tutta la sua nuda efficacia, grazie al tocco deciso ma dinamico della sua chitarra e a una voce che, pur se lontana dalle vertigini che avevano caratterizzato il suo unico album solista, riesce comunque a trasmettere sensazioni di profonda spiritualità.
Ad accompagnare il disco, c'era una cartolina che doveva essere spedita all’indirizzo dell’etichetta per ricevere ben nove bonus track, tra cui, oltre alle versioni alternative di “Star Rider”, “Country Fair” (più breve rispetto a quella apparsa sul primo cd) e “Get Together”, facevano capolino le inedite “If I Had Money”, “City Of Stone”, “Sadness Of My Mind”, “Play My Guitar” e “So Close To You”, tutte figlie di un visionario spirito folk.
Dino Valente(Epic, 1968) | ||
Get Together: The Lost Recordings Pre 1970 (antologia, It's About Music, 2011) |
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