A ripercorrere la storia della stagione psichedelica di San Francisco c'è da perdersi. E non perché una storia lunga, cronologicamente parlando. Semplificando la si potrebbe circoscrivere a un periodo lungo non più di cinque anni, quando nasce e attecchisce - si sa, fra il '65 e il '70 del secolo scorso - il cosiddetto San Francisco Sound. Semmai è un problema di quantità a rendere l'argomento degno di essere trattato su un libro a parte, magari arricchito con tanto di aneddoti su quanto ci fosse di esterno al semplice fatto musicale, in particolare attività (contro)culturali artistiche politiche non proprio prescindibili dalla musica, dal rock, e il contrario, e poi tutte quelle band venute fuori come funghi e dimenticate altrettanto velocemente nel giro di pochi anni. Tutto accadeva in fretta, quasi come oggi, con la differenza che allora c'era l'innovazione, oggi la retromania: stessa differenza che passa - con la dovuta traslazione - fra rock e post-rock. (Viene pure da pensare, fuori tempo massimo, all'America di quegli anni, a quanto fosse diversa da quella di oggi, capace sì, questa, di sfornare sorprese di ogni tipo in ambito musicale, ma di sicuro non più eroica come quella).
Dunque, per non rischiare di andare troppo lontano, e soprattutto per non raccontare ancora una storia vecchia sbiadita sentita risentita ecc., basterebbe cominciare a fare dei nomi (sentiti e risentiti): Grateful Dead, per esempio. Ovvero: la band-cardine della psichedelia di San Francisco/americana/mondiale. Fra le band di Haight-Ashbury, al secondo posto in ordine di importanza, metterei i Quicksilver Messenger Service. È vero, i Jefferson Airplane ebbero molto più successo di loro, più di tutti, ma per qualche motivo - non tanto strano, poi - i QMS, e in particolare il loro "Happy Trails", sembrano sopravvissuti meglio alla tirannia del tempo, anzi: quell'album risulta essere ancora oggi una delle esperienze più stimolanti della storia del rock, secondo molti il più grande album di sempre. E se è difficile affermare questo con certezza - per ovvi motivi - mi sbilancio e dico che "Happy Trails" sembra di gran lunga più riuscito di qualsiasi album dei Grateful Dead, fermo restando che si parla qui di live band a cui la dimensione studio non ha forse giovato sempre e comunque (N.B.: dire questo non significa che i QMS fossero "migliori" dei GD), e infatti i loro due più grandi album - "Happy Trails" e "Live/Dead" - sono stati registrati prevalentemente dal vivo.
Punto primo: la band di Jerry Garcia e Bob Weir aveva portato nel rock quello che nel jazz c'era da sempre - aveva creato un analogo della jam session jazzistica - facendo dell'improvvisazione una nuova arte per Lsd e delineando così nuovi modelli contemporaneamente a quanto stavano facendo i Velvet Underground - pur in altri modi - a New York. Punto secondo: la band di John Cipollina e Gary Duncan raccolse quell'insegnamento e da lì concepì la propria idea di acid-rock, qualcosa assolutamente sui generis - ancorché risentendo dell'influenza di quelli.
Ma ora veniamo alla storia. È il 1964 quando il cantautore Dino Valenti (vero nome Chet Powers) raduna attorno a sé dei musicisti a formare un quintetto costituente il primo nucleo stabile della band: John Cipollina (chitarra) e Gary Duncan (chitarra, voce) più David Freiberg (basso, voce) e Greg Elmore (batteria). L'arresto di Valenti per possesso di marijuana arriva però alla vigilia del contratto discografico, fatto, questo, che sarà decisivo per le sorti del gruppo, e in particolar modo per il ritardo nella pubblicazione dell'esordio. Rientrerà - Valenti - nella band solo dopo il disco della "svolta" country-rock, "Shady Grove". Ma l'impulso iniziale del leader basta a tenere insieme i compagni, che decidono di continuare cominciando quindi a farsi conoscere soprattutto per le evoluzioni strumentali dei due chitarristi nonché partecipando alla tre giorni del 4-6 febbraio del 1966 al Fillmore e al Monterey Pop Festival del 1967.
Il primo album, omonimo, arriva nel 1968 (dopo il contratto con la Capitol), e come per altri esordi di rock psichedelico si rivela troppo educato per il potenziale che il gruppo sapeva invece esprimere sul palco. Per questo si dovrà attendere - appunto – "Happy Trails" (Capitol, 1969).
Si accennava al fatto che il materiale dell'album fosse stato ricavato soprattutto da performance live, due in particolare: dai Fillmore East e West, anche se è difficile dire quali parti del disco dall'una e quali dall'altra. La prima sorpresa vera e propria arriva però da una scelta strategica: la decisione di dedicare tutto il primo lato a una sola canzone: "Who Do You Love?" di Bo Diddley. Trattasi della famosa "Who Do You Love Suite", di ben venticinque minuti e rotti. L'apertura è affidata quindi alla versione blues-rock caracollante del medesimo brano per poi proseguire con la prima variazione sul tema, "When You Love", in realtà caratterizzata dal lungo assolo di Duncan: e quando qui si parla di "assolo", sarebbe giusto dimenticare una volta per tutte i Van Halen o addirittura gli Allan Holdsworth di turno, quelli non erano certamente tempi e luoghi - la California nei Sixties - perché una sola nota andasse sprecata, tutto era al servizio dell'espressione o del viaggio in tal caso. Con "Where You Love" siamo infatti al primo vero capolavoro: un'improvvisazione per chitarre striscianti, in pratica la fase più introspettiva del trip, seppure magicamente accompagnata dall'interazione magnetica col pubblico. Difficile da definire: arte contemporanea? La realizzazione dell'happening definitivo? Lo si può immaginare il pubblico lì, a incitare la band e trasmetterle il pathos necessario alla risalita (naturalmente non c'era bisogno di parlare, tutto avveniva a un livello extralinguistico). E infatti "How You Love" non è nient'altro che un'esplosione estatica, stavolta segnata da John Cipollina. Con "Which Do You Love" e il basso di Freiberg torna un po' di calma seguita dal reprise del motivo portante, "Who Do You Love, Pt. 2", questa volta però suonata con maggiore "consapevolezza".
Ma i QMS hanno deciso di attingere da Bo Diddley ancora una volta, e quindi la seconda parte comincia con una versione stonata di "Mona", delle chitarre acide che più di così c'è solo "Dark Star". Fa capolino "Maiden Of The Cancer Moon", un grande pezzo di rock psichedelico che però ha la "sfortuna" di fare da ponte a un altro capolavoro dell'acid-rock: "Calvary". Dove siamo finiti improvvisamente? In un western? Sì, ma in uno spaghetti western, e cioè con tanto di orchestra morriconiana (timpani, gong, campane, strani strumenti a percussione ecc.) ad accompagnare le evoluzioni di Duncan che poi finisce - raggiunto l'apice - in uno stato mentale al confine con la catalessi - apparentemente, in realtà ricco di motivi subliminali che hanno a che fare semmai con la fine di qualcosa. "Happy Trails", quindi, la sigla finale del programma televisivo di Ray Rogers (e dell'album), i cowboy sono finiti davanti al bancone di un saloon - e finalmente bevono spensierati - oppure sono di ritorno da un altro viaggio, a cavallo del clip-clop percussivo: un lieto fine, dunque, e se non proprio lieto almeno conscio della realtà rinnovata, lasciati alle spalle gli anni Sessanta si torna tutti a casa, il passaggio obbligato, finiti i voli pindarici l'era del folk reprise è alle porte.
18/08/2012