A ciascuno il proprio Independence Day. Quello del punk arrivò il 4 luglio del 1976, a duecento anni esatti dall'andata in vigore della dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America. La sede non era il solenne Congresso di Philadelphia, bensì un locale di Camden dove il Quarto Stato dei ribelli, dei bastardi e dei randagi londinesi si riunì per assistere all'epifania dei Ramones in terra britannica. Tra il pubblico del Roundhouse quella sera figuravano di sicuro Gaye Advert e Glen Matlock, arrivati lì - come tanti altri ragazzi - per assistere alla performance incendiaria di quei deliziosi teppisti che facevano da spalla ai Flamin' Groovies. Dei quali, nonostante fossero i titolari dell'evento, a nessuno fregava un cazzo. Ecco, se c'è una caratteristica che rende i Groovies ancor più leggendari e adorabili di quanto già non faccia la loro trascinante musica, è la fottuta capacità di essere la band sbagliata al momento e nel posto giusti.
Nella San Francisco psichedelica - dove Paul Kantner, Jerry Garcia e John Cipollina forzavano i fondamentali del rock dilatandoli, inacidendoli e contaminandoli con influssi esotici - Cyril Jordan e sodali persistevano in un formulario rock'n'roll asciutto e diretto, fedele al rockabilly e al boogie-woogie. Nel 1969 mentre i Grateful Dead si inerpicavano lungo i ventitré minuti di "Dark Star", i Groovies esordivano con un disco - "Supersnazz" - che complessivamente ne durava soltanto dodici in più. Non soddisfatti di aver recitato la parte degli sfigati rimasti al palo quando tutti intorno a loro esploravano le dimensioni ignote della percezione musicale, nel 1971 - malgrado il sound ruspante dell'ottimo "Teenage Head" - si trovarono di nuovo superati a sinistra. Stavolta avrebbero potuto almeno guadagnarsi qualche estimatore dalle parti di Detroit, se non fosse che in quei paraggi il loro blues-rock casinista appariva ormai un vetusto palliativo in confronto alle "cure" belliche di Mc5 e Stooges.
Evidentemente i Flamin' Groovies sono stati la band delle occasioni mancate. Ma anche del chi se ne fotte, in fondo noi facciamo quello che ci diverte. Che, a dirla tutta, è pura filosofia punk. Perciò sul palco del Roundhouse, quel 4 luglio del 1976, per una volta arrivarono perfettamente puntuali nel loro essere clamorosamente fuori moda. Sulla copertina di "Shake Some Action" - pubblicato appena un mese prima - comparivano in stilosi abiti neri e stivaletti cubani omaggiando l'estetica mod del decennio precedente. I modelli, nel look e non solo, erano i primi Stones, gli Who, i gruppi merseybeat e quelli northen soul. Niente di più distante dall'immaginario hippy californiano, al quale stilisticamente restavano comunque molto legati nelle armonie sunshine pop e nelle chitarre jangle in modalità Byrds. Tutto il resto, però, trasudava britannicità fin nel buco del culo. Anche perché la band, a seguito dell'abbandono del vocalist Roy Loney avvenuto nel 1972, si era trasferita in Galles alla corte di Dave Edmunds, sotto la cui egida incise quattordici canzoni epiche e palpitanti. La penna di Cyril Jordan e Chris Wilson non aveva mai conosciuto prima - né conoscerà dopo - un simile stato di grazia. A cominciare dalla stentorea title track che cita un dialogo da "None But The Brave" (film di guerra diretto da Frank Sinatra nel 1965, uscito in Italia col titolo "La tua pelle o la mia"), quando il sergente della Marina chiede a un suo sottoposto: "Are you ready to shake some action?".
Il rock'n'roll è fatto così. Non ammette indugi. Esige risposte decise e immediate. E "Shake Some Action" è la sintesi che risponde al dilemma che affligge da sempre gli appassionati di ogni età: Beatles o Stones? Di Jagger e soci ci sono il furore delle chitarre e il sudore dei ritmi, dei Fab Four la grazia armonica e le dinamiche melodiche. La vibrante cover di "Misery" da un lato, quella sfrenata di "She Said Yeah" - canzone di Larry Williams di cui non a caso anche gli Stones incisero una versione - dall'altro. Lo sfrontato repertorio dei neri (il classico "St. Louis Blues", "Don't Lie To Me" di Chuck Berry) mescolato al canzoniere del pop-rock bianco più gioviale.
La supplica liberatoria di "Please Please Girl" e la marcetta di "Yes It's True", infatti, mettono gioia sulla pelle. È musica che potrebbe essere uscita da "Help" o da una qualunque giornata di sole del 1965. La stessa, magari, in cui i Lovin' Spoonful stavano incidendo "Let The Boy Rock'n'Roll", qui magistralmente ripresa. Un altro modello di riferimento sono i Kinks, le cui sfumature agrodolci battezzano i refoli semiacustici di "I Saw Her", "Teenage Confidential" e soprattutto di quell'incantevole sospensione spazio-temporale chiamata "You Tore Me Down". A svettare su cotanta meraviglia è il brano d'apertura. Una delle più grandi canzoni power-pop. Un invito sentimentale all'azione sul crinale di intrecci chitarristici che aggrediscono almeno quanto accarezzano.
A metà degli Ottanta, dopo la sbronza ribelle del punk e quella artistoide della new wave, il terreno del rock avrebbe riscoperto la vecchia agricoltura musicale degli anni Sessanta. Il sixties revival apparecchiò le condizioni propizie affinché i Groovies potessero finalmente uscire da quella dimensione cultuale e carbonara in cui si erano relegati per abbracciare, se non il successo, almeno un più diffuso seguito. Invece, fedeli al loro ruolo di outsider, decisero proprio in quel momento di fare un passo indietro, non riuscendo a capitalizzare quel poco di appeal che il contesto favorevole avrebbe potuto fornire alla loro inossidabile formula. Poco male, Cyril Jordan oggi si consola ricordando aneddoti improbabili, tipo quando si ritrovò a condividere una canna con Ted Kennedy al termine di un'esibizione.
Noialtri che li amiamo, invece, possiamo appellarci a Kurt Vonnegut, che una volta dichiarò che il compito dell'artista è far piacere di più la vita alle persone. Al che gli domandarono se avesse mai visto qualcuno riuscirci davvero. Lui rispose: "i Beatles". Aveva ragione da vendere, ma avrebbe potuto dire i "Flamin' Groovies" e il senso, bellissimo, di quella risposta non sarebbe cambiato di un grammo.
13/03/2016