E' già trascorsa la bellezza di quarantaquattro anni, da quando Malcolm John Rebennack, sotto le spoglie del fantomatico Dr. John, dava con “Gris-Gris”, suo disco di debutto, uno scossone irripetibile (e di fatti irripetuto) alla scena musicale della propria città, New Orleans. In quell'album si raggiunse un incrocio a tutti gli effetti incendiario di blues del Delta, soul, cajun e psichedelia che ha finito per far scuola ad una lunga serie di musicisti, e a ripercuotersi sulla stessa carriera del Dottore.
Se da allora ha continuato a celebrare e raccontare con intensità immutata, quando non addirittura superiore, la vita della sua città, nelle sue ascese e nelle sue ricadute (amarissima e sagace la critica all'allora presidente Bush per l'inefficacia nel gestire l'emergenza del dopo-Katrina in “City That Care Forgot”), ben pochi tra i suoi lavori successivi hanno saputo suscitare l'interesse e l'ammirazione di un pubblico che non fosse quello circoscritto al suo zoccolo duro di ascoltatori. “Locked Down”, sorprendentemente (ma nemmeno tanto) ha saputo invertire la tendenza, e restituire la figura del musicista alla contemporaneità, come più si addiceva alla caratura del suo personaggio.
A chi attribuire i meriti dell'operazione? Per quanto sia incontestabile l'esperienza e lo spessore umano di Rebennack, è stato l'affidarsi alle navigate mani di chi ne conoscesse il lunghissimo tragitto artistico, e nel frattempo tenesse entrambi i piedi nel 2012, il vero asso nella manica che ha consentito di vincere la sfida col tempo. Mani come quelle di Dan Auerbach, per esempio: l'uomo che col suo sodale Patrick Karney ha contribuito a rendere il blues nuovamente protagonista attivo dei discorsi rock del nuovo millennio, e che vanta una carriera parallela come stimato compositore e produttore per dischi altrui (Jessica Lea Mayfield, Hacienda), centra nel ventinovesimo atto della leggenda della Louisiana la sua collaborazione più riuscita, donando freschezza e vigore alle trame contorte del settantaduenne.
Trame immaginifiche, frenetiche, terribilmente irresistibili: l'anima di Dr. John è tutta qui, riversata in queste dieci canzoni, eppure c'è una freschezza del tutto inedita, profondamente viscerale, che ravviva uno spirito tenuto fin troppo a bada in tempi recenti. E' quella freschezza che consente al discepolo di parlare non soltanto da pari all'insegnante, ma di unire assieme a lui competenze e conoscenze e travalicare in compagnia il confine della propria arte. Tutto sommato, di incontri del genere, in cui l'intesa si faccia così solida, se ne contano sulle dita di una mano.
E di fatto, la produzione impeccabile del Black Keys (qui anche in veste di chitarrista e percussionista), che ha trascinato il Dottore fino a Nashville per la registrazione del disco, è quanto di più moderno a cui si potesse fare ricorso per rendere smaglianti e impetuose le febbrili riflessioni del vegliardo. Le canzoni parlano con ardore, con desiderio, di questo fortunato sposalizio: vi ritroviamo il classico Rebennack, fluttuante nel suo collaudato calderone blues, ma come colto da una pungente ironia, con una smorfia pronta a trasformarsi in una beffarda risata.
Ricchissime distese di organo, percussioni e ottoni a volontà, impertinenti linee di basso e chitarra sono quanto occorre ai due per ricreare un baccanale sensoriale in piena regola, punteggiato da una voce che non ha perso smalto e potenza. Tra danze voodoo in salsa afro (“Ice Age”), psichedelia sbilenca con tanto di cori soul (“Kingdom Of Izzness”), riff energici di elettrica a tratteggiare piccoli campioni di blues arrembante (da “Revolution” a “My Children, My Angels”, con le sue spumeggianti increspature country), ma soprattutto, un incredibile mordente nell'aggredire e rimestare la polpa più funk della sua poetica (a sceglierne una, “Eleggua” sarebbe la giusta candidata), il mito di Sua Maestà The Nite Tripper torna più splendente che mai.
Si è parlato tanto di questo 2012 oramai agli sgoccioli come dell'anno dei grandi ritorni: dai Dead Can Dance a Leonard Cohen, da Patti Smith a Bob Dylan, e chi più ne ha più ne metta, sono forse coloro che non hanno pubblicato un nuovo lavoro a fare notizia, piuttosto che gli altri. Tra tutti, il cantore di New Orleans è però quello col “comeback” (difficile definirlo tale, per un musicista che non ha mai smesso di registrare) più riuscito, quello con la visione artistica più lucida e ispirata, in un assembramento di autori senescenti che con qualche rara eccezione hanno smesso di raccontare e raccontarsi davvero tanto tempo fa.
Vivi e vigorosi, settantadue anni portati benissimo: lunga vita al Maestro di Cerimonie della Crescent City, che possa celebrare il suo Mardi Gras ancora a lungo.
25/12/2012