Oltre la realtà tangibile, al di là dello sguardo razionale sulla quotidianità, sull’orlo del precipizio che spalanca all’uomo altre dimensioni. Qui, anzi là, si intravede l’ombra sfuggente dei Pearls Before Swine che, come Giano bifronte, ride del pianto dell’altra sua faccia.
Gruppo che vero e proprio gruppo non fu mai, essendo primariamente incarnazione del solo Tom Rapp, supportato da mutevoli sessionmen. Progetto usualmente catalogato alla voce folk psichedelico ma che, in verità, non è ascrivibile né allo sguardo puro e ingenuo della tradizione popolare né, tantomeno, alle esperienze di alterazione della coscienza derivanti dall'uso di droghe (lo stesso leader ebbe a definire le sue composizioni come allucinazioni indotte dalle sigarette Winston, le uniche “droghe” di cui abbia mai fatto uso…).
Tutto questo per dire che, per capire in profondità il significato della musica di chi, fin dal nome (quel “Perle ai porci” di biblica memoria - dal discorso della montagna di Gesù), rivendica con orgoglio la propria diversità con l'invito a non sprecare le cose di valore dandole metaforicamente in pasto a chi non è in grado di apprezzarle, bisogna sforzarsi di superare le mere apparenze, sospendendo temporaneamente il proprio giudizio.
Melbourne (Florida), 1965: assemblati da un eccentrico folksinger diciottenne originario del North Dakota (trasferitosi con i genitori, entrambi insegnanti, prima in Minnesota e poi in Pennsylvania) i policromi strumentisti di questo ensemble da camera (tra cui gli amici della high school Wayne Harley, Lane Lederer e Roger Crissinger) riesumano, da un passato più o meno remoto, i suoni nostalgici ed eterei di arpa, corno inglese, vibrafono, celeste, sitar, che assurgono alla gloria del rock grazie al grande talento di arrangiatore del leader. Talento che si esplica fin dal sorprendente esordio del 1967, “One Nation Underground”, pubblicato dalla ESP-Disk di New York, capace di vendere oltre 200.000 copie nonostante la singolarità della proposta musicale.
Malgrado un primo distratto ascolto possa relegare i Pearls Before Swine a meri epigoni dylaniani in quanto a stile interpretativo, sulla scia dell’influente “Blonde On Blonde” (a proposito, il nostro Tom Rapp qualche anno prima si era tolto la soddisfazione di precedere (3°) un certo Bobby Zimmerman (5°) in un talent contest a Rochester…) oppure accostarli alla intimistica poetica di Leonard Cohen per i testi e, per quanto le dissonanze contenute di certe sonorità possano condurre erroneamente sulla strada psichedelica, l’atmosfera onirica che si respira nei solchi dell’album è qualcosa di fondamentalmente diverso.
Siamo nel 1968, in piena epoca di contestazione hippie, ma a differenza dell’acid-rock dei Jefferson Airplane, delle lunghe jam lisergiche dei Grateful Dead, dei raga etnici dei Kaleidoscope e, in generale, rispetto al consistente impatto sonoro di altri eroi del flower power, la ribellione di Rapp ci porta in un altrove indefinito, attraverso una storpiatura della realtà basata su suoni delicati che non appartengono a uno specifico momento storico bensì all’inconscio collettivo.
È il titolo dell’ultimo brano (“The Surrealist Waltz”) di questo primo album a fornirci le coordinate corrette per interpretare la ricerca artistica di un gruppo unico nel panorama musicale dei tardi Sixties. Trattasi, infatti, di vera e propria arte surrealista. L’inconscio si libera dalle catene della ragione ed emerge, attraverso l’associazione di suoni e parole, a rappresentare ipotetiche alternative, trasformazioni del conosciuto, potenzialità inespresse. Una rivoluzione nei confronti delle convenzioni socio-culturali, allo status quo, che sfrutta la libertà del pensiero per andare oltre i limiti del cosciente.
Questo intento critico si manifesta compiutamente in quello che è considerato il capolavoro della band, vale a dire “Balaklava” (Esp, 1968), opera seconda fieramente antimilitarista (dedicata nelle note di copertina a Edward Slovik, l'unico soldato statunitense giustiziato per diserzione nel corso della Seconda guerra mondiale) che prende il nome dalla famosa battaglia (episodio chiave della guerra di Crimea) combattuta il 25 ottobre 1854, che vide le forze alleate del Regno Unito, della Francia e dell'Impero Ottomano contrastare l'Impero russo. Fu il primo dei due tentativi della Russia di rompere l'assedio di Sebastopoli, attaccando il campo britannico di Balaklava.
La sanguinosa vicenda, esempio della futilità della guerra, diviene qui spunto per uno sguardo fatalista di biasimo e di censura verso la natura umana e le malvagità di cui si dimostra capace, in opposizione alla purezza primordiale di un incontaminato paradiso bucolico. Atrocità, miserie e orrori fotografati nella copertina dell’album dal pennello metafisico di Pieter Bruegel il Vecchio (precursore del surrealismo pittorico) nell’opera “Il Trionfo della Morte” (un dipinto olio su tavola databile al 1562 e conservato al Museo del Prado di Madrid).
Al centro del dipinto la morte a cavallo falcia esseri umani di ogni ceto sociale come spighe di grano, nei modi più disparati, in un’allegoria della guerra e delle sciagure umane avvolta da un'atmosfera arida e infernale.
Tutti i soggetti rappresentati sono terrificanti variazioni sul tema impersonati da inquietanti scheletri. Uno scheletro mostra una clessidra a un imperatore, simbolo della fine del suo tempo, un altro strimpella una viola a manovella sul carro della morte, altri ancora, vestiti di bianco, suonano le trombe dell'Apocalisse. Anche la natura è destinata a soccombere: gli scheletri abbattono gli alberi, affondano le navi mentre carcasse di animali affiorano dalla terra.
La rappresentazione visiva è parte fondamentale dell’arte di Tom Rapp. A confermarlo, nel retrocopertina, l’immagine di una ragazza impegnata in un corteo di protesta contro la guerra accompagnata dalla citazione del filosofo George Santayana "Only the dead have seen the end of war".
Non bastassero suoni e immagini (già la copertina del primo album riprendeva dettagli del “Giardino delle Delizie” di un altro maestro fiammingo come Hieronymus Bosch, influenza basilare di Bruegel e con questi padre putativo del movimento surrealista), a evocare un alone oscuro e misterioso intorno al gruppo, si aggiungono la quasi assoluta mancanza di fotografie dei componenti e la strategica assenza dai palchi fino al 1971.
In “Balaklava”, oltre al leader (cantante e chitarrista) troviamo i membri originali Wayne Harley al banjo, Lane Lederer al basso e chitarra, affiancati da Jim Bohannon all’organo, piano, clavinet, marimba, mentre Roger Crissinger ha già lasciato per i One di San Francisco. Bill Salter integra con il suo basso una manciata di composizioni e si annoverano sporadici interventi di altri ottimi musicisti che vedremo in dettaglio.
Tornando allo stile musicale, se prima di affondare la puntina sul primo solco dell’ album l’atmosfera surrealista è solamente un lontano richiamo, già dall’introduzione gracchiante a 78 giri da vecchio grammofono di “Trumpeter Landfrey”, ci si rende conto che l’ascolto sarà tutt’altro che un’esperienza comune. L’intro, infatti, altro non è che un frammento audio della carica della battaglia in oggetto suonata da uno dei trombettieri originali (Martin Lanfried il cognome corretto), inciso su fonografo a cilindro nel 1890. Da brividi questo fantasma di un passato tanto lontano quanto attuale, a ricordare in eterno il cupo, gelido suono della morte.
Si travalica dalla dura realtà al mondo del sogno, in un continuo alternarsi che caratterizza la scaletta dell’album. Sogni che spesso si tramutano in incubi, frutto della innata e incurabile follia dell’umanità. Non per nulla sogno e follia sono considerati dal movimento surrealista i mezzi per superare la razionalità e si fondono qui nell’incanto di voce e chitarra di “Translucent Carriages” (coverizzata dagli Psychic Tv nell’album “Pagan Day” del 1984)che trasporta l’ascoltatore in un universo parallelo.
Sono piccoli particolari come il flebile controcanto fantasmatico che intona “See You” e i sospiri affannosi dello stesso Rapp (con regolare accredito nelle note come “breathing”) che sputano fuori parole da un cavernoso oltretomba, a marcare le distanze dal semplice folk ed a spingere l’ascoltatore sulla soglia di un mistero taciuto, con fruscii di sottofondo a rievocare il passato che riemerge. Questa è una delle composizioni quasi sempre presenti nei live di Tom Rapp sia da solista sia in gruppo. Suoni e rumori si sovrappongono nell’intero disco a confondere reale e irreale, natura e metafisica, passato e presente, con il fil rouge dell’album evocato qui dalla citazione dello storico greco Erodoto: "In peace, sons bury their fathers; in war, fathers bury their sons".
Il cinguettio degli uccellini di “Images Of April” ci riporta al tempo della primavera e quindi al “primo” tempo, quello del paradiso terrestre e, a livello personale, dell’infanzia immacolata, con il flauto di Joe Farrellche prende le distanze dal folk-rock tradizionale per accennare una melodia incantata e in seguito marcare il climax in compagnia del basso, con voci lontane non identificate che si inseriscono a glorificazione della natura incontaminata, senza umanità.
E se “There Was a Man” è, nella sua costruzione, una classica ballata folk di protesta, colpisce la purezza dell’espressione artistica, la pulizia estrema della voce. Una voce che, ponendosi stilisticamente fuori dal coro di quei tempi, dona ancora maggior forza alle richieste del coro stesso. Stop alla guerra!
Ancora il sottofondo rumoristico diviene caratteristica preponderante in “I Saw the World”, ove la voce narrante sottolinea atmosfere cangianti. Tornano uccelli, campanelli, cascate d’acqua, onde e suoni vari da “Giardino delle Delizie” di Bosch. È musica visiva. Una sorta di sinfonia della natura con i delicati arrangiamenti d’archi di Warren Smith e i discreti tocchi di piano e organo di Lee Crabtree (ex-Fugs) a colorare di immagini la musica stessa.
“Guardian Angels” è un’elegia trasognata, triste, d’altri tempi. Si piomba all’improvviso negli anni 20-30. Gli archi, qui arrangiati da Selwart Clarke, impregnano di spleen la composizione, con l’inserimento dei soliti fruscii di fondo da disco rovinato con l’esplicita intenzione di creare un ascolto effettivamente intriso dell’atmosfera di 50 anni prima.
Poi, ecco il tributo a Cohen, che apre la seconda facciata dell’Lp originale; la cover di “Suzanne”, trasfigurata in una preghiera accorata, scandita come un rosario, recitata con enfasi sulle parole finali delle strofe e impreziosita dal corno inglese di Joe Farrell che rimane sospeso sui tintinnii della sei corde come una nuvola sospinta dal fresco vento autunnale.
L’ispirazione delle ballate medievali è evidente in “Lepers And Roses”, una delle composizioni più lunghe mai registrate dal gruppo con i suoi 5’23”, che alterna istanti di pathos marcati dalla voce stentata di Rapp alla soffusa delicatezza del flauto svolazzante di Lee Crabtree. L’organo spettrale dello stesso Crabtree e gli intarsi chitarristici in odor di jazz di Al Shackman donano al tutto un sapore unico; un piatto di nouvelle cousine con ingredienti di prima scelta cucinati magistralmente da uno chef stellato senza sbavature.
Il finale ci riconduce circolarmente all’inizio, prima con il vecchio grammofono gracchiante a restituirci la voce di “Florence Nightingale” (la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna che propose un'organizzazione degli ospedali da campo a partire dall’esperienza presso l’ospedale militare di Scutari durante la guerra di Crimea) e poi con la riverenza al fantastico mondo tolkeniano de “Il Signore degli Anelli” con “Ring Thing”.
Tensione fin dall’inizio, con il racconto mitologico che si districa sugli echi di cornamuse, trascinato su un tappeto di piatti e suoni appena accennati.
Si aspetta qualcosa o qualcuno. Poi la chitarra si scioglie e un colpo di piatti sembra svelare il mistero. Ma non è finita. Si ricomincia subito allo stesso modo. Una volta. Due.
Poi il finale. Un nastro impazzito che continua a girare anche se ormai spezzato per sempre e nel suo eterno e immutabile destino ci riconduce nuovamente all’iniziale "Trumpeter Landfrey", con le parole del vecchio trombettiere a confermarci, tristemente, che il ciclo della guerra è destinato a non aver mai fine.
Disco brevissimo, 31 minuti circa, ma di intensità incomparabile.
I Pearls Before Swine creano un mondo parallelo in cui porre problematiche quotidiane con una sensibilità più British che americana, una sorta di Fairport Convention impegnati e meno ligi alla tradizione, per certi versi affine alla proposta dei contemporanei scozzesi Incredible String Band, con questi ultimi più protesi alla ricerca di esuberanti sonorità etniche.
A differenza di tante altre, però, quelle del capolavoro qui analizzato sono canzoni senza tempo, senza luogo, che galleggiano liberamente in uno spazio vuoto da riempire con la propria personale sensibilità.
Tom Rapp diede alla luce altri quattro dischi di buona qualità tra il 1969 e il 1971 a nome PBS (in realtà lui, la moglie olandese e diversi sessionmen tra Nashville e New York poiché dopo “Balaklava” nessuno dei membri originali faceva più parte del gruppo): “These Things Too” (Reprise, 1969), “The Use Of Ashes” (Reprise, 1970), “City Of Gold” (Reprise, 1971), “Beautiful Lies You Could Live In” (Reprise, 1971), poi raccolti nel cofanetto “Jewels Were The Stars” (Warner, 2003).
“Familiar Songs” del 1972 è il primo album accreditato a suo nome (anche se si tratta in realtà di una collezione di demo raccolti dalla Reprise senza il suo consenso) cui seguiranno, dopo il passaggio alla Blue Thumb Records, “Stardancer” e “Sun Forest”, piuttosto deludenti.
A metà degli anni 70 Rapp abbandona il mondo della musica e nei primi anni 80 si laurea in legge alla University of Pennsylvania per poi diventare un avvocato di successo.
Lo ritroveremo nel 1997 al Terrastock Music Festival di Providence, Rhode Island (impegnato con gli Shy Camp, la band del figlio) organizzato dalla rivista di musica psichedelica Ptolemaic Terrascope di Bevis Frond, grande ammiratore di Rapp.
Diverse le esibizioni al Terrastock anche nel corso degli anni seguenti.
A sorpresa Rapp torna in studio nel 1999 con “A Journal Of The Plague Year” (Woronzow, 1998), un disco molto intenso sulla falsariga dei primi lavori e a oggi sua ultima incisione.
Attualmente vive in Florida.
Negli ultimi anni i Fleet Foxes con il loro freak-folk dai richiami medievali hanno tentato di catturare, tra le altre influenze, anche il lascito rappiano (vedi aspetti bucolici e filoni popolari britannici), comunque in maniera più formale (la copertina dell’omonimo esordio esibisce un altro famoso dipinto di Bruegel, “I Proverbi Fiamminghi”) che sostanziale.
La verità è che nessuno è ancora mai riuscito ad accostarsi con il necessario sacro rispetto alla musica dei Pearls Before Swine per carpirne la magia e cercare di riportarla in vita.
Non resta pertanto null’altro da fare se non procurarsi questo disco (esiste una versione rimasterizzata su cd del 2005 denominata “Complete Esp-Disk Recordings” che lo ripropone insieme all’esordio) e prepararsi, con euforia, a un inebriante volo onirico “sopra” la realtà.
03/03/2013