Figlio di un attore televisivo e nipote del rinomato Friml, mattatore dei music-hall di Broadway nella prima metà del Novecento, Kim Vincent Fowley, classe ’39, è il grande, eccentrico, scombussolato importatore delle novelty nella musica rock. Durante la sua gavetta, verso la fine degli anni 50, fa comunella con un certo Phil Spector (allora chitarrista) nella brevissima esistenza dei Sleepwalkers. Come per Spector, poi totalmente rapito dalla sua matrice di produzione diventata infine koinè internazionale, anche Fowley raggiunge lo status di produttore, o meglio di scopritore. Più che il metodo massimalista del collega, a Fowley interessano gli artisti con un alto potenziale d’intrattenimento, un intrattenimento che si nutra di gag non-sense, anche di pure onomatopee a caso, di buffonaggine e finanche idiozia, di senso della macchietta. Sfilano così, dal 1960 al 62, gli Hollywood Argyles, i Rivingtons (progenitori della tartagliante “Surfin Bird” dei Trashmen), i Marmaids, gli Stingers, tutti patrocinati da lui, ma anche inventati dal nulla come puri nick del solo Fowley. La logica creativa e produttiva di Fowley era in aperta controtendenza, o in una spassosa critica, con i modi del beat e dei gruppi commerciali creati a tavolino. Già questa prima parte di vita e di carriera è in realtà una prima parte della sua delirante opera totale.
Dopo aver suonato e prodotto brani altrui (comparirà anche nel mitico “Freak Out” di Frank Zappa), Fowley rompe gli indugi e nel 1967 registra il suo primo album, “Love Is Alive and Well”, una piccola ma intensissima satira nei confronti del mondo psichedelico. Poco dopo esce anche un “Born to Be Wild” con cui fa ordine, ovviamente stravolgendone l’arrangiamento, tra i suoi vari singoli in 45 giri nel frattempo circolanti.
Ma Kim Fowley aveva in mente soprattutto una concezione di opera d’arte totalizzante, che appunto inglobasse anche la sua stessa esistenza. Da sempre affascinato dai rituali orgiastici, i baccanali e i congressi decadenti degli epicurei - uno spirito che ancora non era riuscito a esprimere appieno - l’imprendibile, non-catalogabile, proto-dandy Fowley realizza dunque il suo acuto irripetibile, “Outrageous”.
“Outrageous” non è solo una superba e repellente dimostrazione delle sue capacità, ma anche e soprattutto un campionario potente del suo mondo interiore e la sua visione degli stereotipi, anche i più alternativi e significativi, della civiltà artistica del suo tempo. Tre esempi, in questo senso, sono quanto di più immediato: “Animal Man”, incontro tra solenne acid-rock della baia di San Francisco, una combriccola scalmanata di improvvisatori, e uno showman disinvolto (e lascivo). “Inner Space Discovery”, dapprima favola horror balbuziente e claudicante, poi novelty dissonante e cacofonica con ritmo puntato e rada batteria anti-ritmica, poi persino allucinazione cosmica. “Barefoot Country Boy” è pura parodia rockabilly perfettamente Chuck Berry-iana, su cui impianta un flusso di coscienza intervallato da rutti e catarro. Altrettanto originale è la pomposa e sciamanica “Bubble Gum”, che si ricollega a “Animal Man” per aggredire il blues con un refrain curiosamente orecchiabile (appunto da tipico bubblegum), dapprima in sordina - dove comunque esprime il suo genio interpretativo - e poi con ritmo battente.
“Wild Fire”, uno dei picchi della cerimonia, è una pièce tanto oscura quanto accattivante, con accompagnamento lounge-blues e lecture vomitata, spezzata, sconnessa, che non sa bene cosa dire e insiste follemente sulle singole parole, ripetendole a mitraglia, incalzando gli accompagnatori nella velocità e soprattutto nella temperatura (lui stesso lo chiede esplicitamente agli strumenti nel corso del brano), fino ad affannarsi in una chiusa surreale.
“Hide And Seek” (strumentale) e “Chinese Water Torture” (vocale, con Fowley che imita a modo suo un grottesco parlato orientale con appena qualche effetto di sfondo), insieme, sono un doppio preludio alla sceneggiata garage di “Nightrider”, con il performer che si contorce in latrati, gemiti, scatarrate, urla strozzate, un delirio di frontman da far disgustare i vari Mick Jagger, Van Morrison, Ray Davies.
Per quanto già eccessivo, Fowley sciorina poi l’incubo del “Medley”, il brano-monstre (“mostro” in tutti i sensi) che impazza per 15 minuti nella seconda facciata, uno dei grandi tour de force del rock arcano - e parossistico - di ogni era. Dapprima (“Up”) è un reading da tossico di LSD, su sottofondo di effetti allucinogeni che si addentra in un vuoto misterioso, quasi testando gli strumenti, e dirigendo poi la sarabanda eccitandosi come un indemoniato. Ormai pieno show del cantante, nel secondo movimento “Caught In The Middle” gli strumenti stanno guardinghi in sordina, quasi impauriti, in attesa di un suo ordine; quindi si fanno tonanti per un istante ma subito frantumandosi nelle dissonanze e negli echi elettronici, finché lo showman rimane solo in un’altra dimensione, che lui chiama senza problemi “hell”.
Ma la sua preoccupazione è quella di continuare lo show: la sua forza (“louder”!) fa richiamare gli strumenti, finchè questo smarrito Jim Morrison conduce la sua “The End” a risultati esplosivi di nuove trasfigurazioni, ancora una volta polverizzando il tutto, collassando, ansimando. Quando alla fine chiede alla sua banda una “funeral march” tenta addirittura di divorarsela letteralmente. Alla fine (“Down”) la rivitalizza in abissi psichedelici sempre più fondi e infernali, in un orgasmo a decrescere di schiume di distorsioni, organo piroettante e rifrazioni caotiche di echi ed elettronica. Uno dei momenti più avventurosi e pirotecnici della psichedelia.
Come la “Her Majesty” dei Beatles chiude la suite della seconda facciata di “Abbey Road”, allo stesso modo a questo prodigioso “Medley” segue una piccola traccia, “California Hayride” in cui Fowley dà un’ultima dimostrazione della sua tecnica sfrenata: la sua sola voce, sdoppiata nel suo sé stesso più free e dadaista, di nuovo annientata dai riverberi psichedelici.
Disco che attira e intimorisce come potrebbe attirare e intimorire un intrattenitore invadente, ipercarismatico, una fotografia perfetta - e iperrealistica - del suo spirito apocalittico ma sfinente, tonante ma petulante, imbonitore ma arrogante, spassoso ma ripugnante. Dall’egida di Lenny Bruce e come i grandi showman, i grandi predicatori cialtroni, che si vorrebbe non smettessero e allo stesso tempo non si vede l’ora di toglierseli di torno: appiccicoso e repellente, mette in scena il senso irresistibile dell’orrido e dell’osceno di massa. L’arrangiamento si avvale di aiuti inestimabili (Marty Cerf, lo scrittore del caso, ma anche la chitarra di Mars Bonfire), ma le influenze future sono strabilianti: i grandi frontman creativi, Captain Beefheart su tutti, ma anche l’allievo Jonathan Richman (gli estemporanei Modern Lovers), le Runaways, altra sua creazione diretta; e poi indirettamente Malcom McLaren, il nuovo grande furbone, dio della band estemporanea per eccellenza (Sex Pistols). Un sentore di apocalissi semiseria anche tra le note di copertina (di pugno dello stesso Fowley): “Let's be born again. Let's go out of our minds to get back in. We have all died, haven't we?”. Rimasterizzato e ristampato su vinile 180 grammi nel 2012 (due “hilarious” spot radio come bonus), e compilato nel doppio antologico "Wildfire" (2013), assieme al successivo "Good Clean Fun" (1969).
23/06/2013