Stars Of The Lid

Stars Of The Lid

Evanescenze stellari

Con le loro partiture indefinite e sterminate, Adam Wiltzie e Brian McBride hanno traghettato la scena neo-ambient degli anni Novanta oltre la barriera, spesso limitante, dell'isolazionismo, alla ricerca di un non-luogo sonoro sospeso tra "la forza di gravità", "il desiderio di una vita acquatica" e quel "perfezionamento del declino" datato 2007. Musica per i cunicoli più bui dell'inconscio, alla ricerca del punto-zero del suono

di Francesco Nunziata

Musica oceanica, letargica, dipinta nel vuoto. Ambient-music per i paesaggi immaginari più reconditi e “sedimentati” dell’animo umano. Gavin Bryars, Brian Eno, Zbignew Preisner, Arvo Part, Labradford e Henryk Gorecki: un mix inizialmente imparentato anche con l’isolazionismo, ma che, in realtà, è sempre andato oltre la semplice trasfigurazione del silenzio, aprendosi su territori sonori in cui l’evanescenza del suono scopre, stupefatta, l’estasi di una ninnananna sotterranea, smarrita, inconscia. Musica impalpabile, solitaria, erratica. La perfetta colonna sonora per lo sguardo perso nel vuoto, alla ricerca di un eden davvero ultraterreno. Musica in cui il silenzio è, insieme, argine e letto di un fiume in piena, placidamente rivolto verso il mare magnum della stasi e dell’abbandono di sé. Musica che ci reclama da un oltre lontanissimo, dove il linguaggio è ancora una semplice, poetica sequenza di suoni in continua, impercettibile evoluzione.

Brian McBride e Adam Wiltzie si incontrano ad Austin, in Texas, nel 1990. Passioni musicali comuni li spingono a dare vita, due anni dopo, al progetto Stars Of The Lid, moniker indicante il tuo ”cinema personale, collocato tra l’occhio e la palpebra”, come lo stesso McBride affermò in un’intervista. Una scelta felice, insomma, che dimostra come la loro musica sia, essenzialmente, un simbolo sotto la cui superficie si nasconde la parvenza di una “soglia”, il significato latente di un non-luogo che mette in contatto ciò che è reale con ciò che di questo reale è solo simulacro, immagine indefinita, astrazione psicologica. In questa soglia, si consuma “l’omaggio alla bellezza del suono che ci circonda”, un omaggio che ha origine, quindi, anzitutto in un ascolto attento e sincero del nostro spazio vitale.

Così, quasi come una reazione alla nutrita scena rock di Austin, Adam e Brian iniziano a buttar giù materiale servendosi di un 4-tracce. Alcune di queste registrazioni lo-fi troveranno, di lì a poco, un primo, notevole sbocco nella musica ambientale in chiave cosmica di Music For Nitrous Oxide, pubblicato nel 1995 dalla Sedimental, etichetta che, nel presentare il disco, lo inserì nel solco delle produzioni di Eno, Main e Spacemen 3. A dominare è il suono delle due chitarre: sfibrate, dilatate, irriconoscibili. Texture fumose, eteree, al servizio di una musica che sembra imprigionata da un’alterità invalicabile, stagliata oltre il tempo e lo spazio. E’ il rumore di fondo che testimonia di una remotissima fonte inesplorata (“Before Top Dead Center”), punto lontano che emana vibrazioni e sostiene galassie parallele, come l’oscurità che acuisce lo smarrimento al cospetto dell’immensità del cosmo.
In questi deserti astrali, fatti di crepitanti solitudini (“Adamord”), ci si abbandona a derive senza fine (“Madison”), fluttuando tra droni sfrangiati, curvilinei e voci derelitte e fragili (“Down”), che si trascinano verso fondali vibranti di terror panico (“Lagging”). E’ un pittoricismo inquieto, nonostante le premesse. Ed è sempre più chiaro che, in questo viaggio “mentale”, si oltrepassano orizzonti su orizzonti, implodendo, man mano, su se stessi (“(Live) Lid”).
Il poema dello spazio cosmico è il poema, innanzitutto, dello sterminato spazio interiore, perché, è bene ribadirlo, le distanze fisiche sono niente al cospetto delle distanze spirituali. “Tape Hiss Makes Me Happy” erige una cattedrale sonica sulla cui facciata scorrono meraviglie in trance, piccole perturbazioni stridenti che dicono di una psichedelica pulviscolare, annegata nel baratro del dissolvimento.
Si indaga, così, la “soglia”, se ne analizza il valore mistico, scoprendo il significato incommensurabile dell’estasi e dell’abbandono assoluto. Per questo, Stars Of The Lid è sinonimo di liberazione emotiva. L’invisibile stratificazione sonora accende in noi un gioco subliminale di distacco e trasfigurazione. Ecco, quindi, la nitida, gelida “perfezione” di secche psicologiche in cui i dettagli si caricano di mistero dentro il buio che rumoreggia stranito. Dal silenzio, un’isola di metafisico, tenebroso stupore. Presenze sepolte dentro un gorgo ancestrale (“The Swell Song”). Non ci stupisce, allora, che sia la pioggia ad accogliere l’ultimo scorcio d’universo di “Goodnight”. Pioggia come lavacro ultimo, sommesso alleluia della terra che si ridesta, puttana della disperazione.

L’amore per la classica contemporanea e lo slittamento verso un suono più impalpabile e impressionista trova nel successivo Gravitational Pull Vs The Desire For An Acquatic Life (inizialmente stampato nel 1996 dalla Sedimental in sole 709 copie viniliche) il primo decisivo passo verso la definizione di un suono più marcatamente personale. “The Better Angels Of Our Nation” è la miglior ouverture possibile per un disco che dichiara di volersi posizionare tra “la forza di gravità e il desiderio di una vita acquatica”. E’ lo smerigliarsi dell’infinito.
“Cantus II: In Memory Of Warren Wiltzie” è uno dei loro capolavori, con il suo ineluttabile inabissarsi, procedendo pellegrino verso il remoto santuario del silenzio. In questa scissione/fissione continua di rumori, suoni levitanti e sedimentazioni subconscie, si gioca il destino di un’odissea “minima”, fatta di perdizione, desiderio del ritorno e tensione prometeica. Poi, lontanissimo, il rumoreggiare dell’acqua, lo spazio che si dilata, svanendo adagio. E’ il misterioso “canto” della dissipazione: lenta ed inesorabile.
“Jan 69” (presente solo nella ristampa Kranky) è l’incantevole moto ondulatorio di una nebbia celestiale. Una languida aura esotica percorre, invece, “Lactate’s Moment”, con i droni che scivolano, spesso sovrapponendosi, uno accanto all’altro. Bisbigli, feedback diluiti e cellule melodiche assumono i connotati di una sinfonia vagabonda, in cerca di redenzione. Quella redenzione che sembra offrire, senza troppi sacrifici, “Be Little With Me”, quasi un’anticipazione della “messa” Chatham-iana di “A Crimson Grail”.

Più matura da un punto di vista compositivo ma, forse, non così coinvolgente come la precedente, “Gravitational…” è, comunque, un’opera fondamentale per comprendere l’evoluzione interna del loro suono, finalmente “definito”, in tutti i minimi dettagli, nell’eccellente exploit di The Ballasted Orchestra (1997), primo disco davvero fondamentale della loro carriera.
Il tempo si dilata, la durata del disco sfiora gli ottanta minuti. Le idee del duo possono, così, essere sviluppate e rifinite con cura. Le interferenze rumoriste vengono dissolte in favore di una coltre dischiusa di droni, mentre la palette emozionale copre l’intero arco che congiunge la disperazione alla contemplazione più beata. Il sommesso, lontano risuonare di “Central Texas” delimita, in apertura, uno spazio profondissimo, poco dopo, sovrastato dai precipizi di “Sun Drugs”, il cui incanto immateriale è appena appena scalfito da impercettibili crepe rumoriste. E’ il viaggio senza meta di note che s’allungano fino al limite estremo; un miraggio vivido e toccante, stagliato contro un vuoto inintelligibile.
Tranquillità sovrannaturale, immensità astratte, vuoto pneumatico: il flusso pacificato, ma inesorabile dimostra che questa ambient-music raccoglie, ovviamente, anche la sfida “psicologica” del Brian Eno di “Apollo”. Brandelli di ciò che è umano resistono ancora, ma percepiti a malapena, quasi fossero crittogrammi distorti (“Down II”), prima di essere completamente polverizzati dal vortice siderale di “Taphead”, che spalanca la “vista” su di un palcoscenico nudo, carico di vertigini “tragiche”, simboli non ancora del tutto annichiliti di un precipitare senza fine.
Nonostante l’effetto di staticità, la carica “drammatica” di questi quadri metafisici è spaventosa, e le sensazioni che si sprigionano, invece di essere riversate verso l’esterno, lavorano subdolamente sotto la superficie, convogliando la loro potenza immaginifica direttamente verso la fonte segreta del suono. E’, dunque, un circolo vizioso di produzione e fruizione, in cui l’ascoltatore assume un ruolo essenziale, ovvero quello di tingere le onde sonore con i colori, abbaglianti e indelebili, della sua più “temibile” immaginazione. Il viaggio, quindi, è oltre le colonne d’ercole della psiche. Attanagliato il corpo, fissato al suolo da una forza gravitazionale smisurata, i paesaggi sonori liberano la mente, facendola levitare in un dormiveglia inebriato di mistero (“Fucked Up (3:57 AM)”). 
A suggellare la loro passione per "Twin Peaks" e per la relativa colonna sonora di Angelo Badalamenti, arrivano, poi, le due parti di “Music For Twin Peaks Episode #30”: la prima, un saliscendi minimalista di micro-melodie; la seconda, una ragnatela di scintille sparse che accompagnano, come in una veglia millenaria, l’impietoso annebbiarsi della coscienza.  E’ il fuoco sublime di una fiamma che va spegnendosi; il tremore crepuscolare del silenzio che blatera insensatezze per scardinare la sua essenza; il thrilling dell’annientamento infinitesimale; il deragliamento del tempo in qualcosa di pericolosamente prossimo al respiro dell’Eterno (“The Artificial Pine Arch Song”).

Viscerale, minimalista, eterea, The Ballasted Orchestra è la prima grande prova di maturità del duo, finalmente capace di bilanciare, con eleganza e maestria, il tocco manipolatorio e “terreno” di McBride con l’onirismo trascendentale di Wilztie.

A conferma dello stato di grazia, arriva, poco dopo, la pubblicazione (per la Trance Syndicate) del 12” (condiviso con i Labradford) The Kahanek Incident, Vol. 3 (1997). In “Texas”, la band della Virginia combina tre diverse composizioni degli Stars Of The Lid, stendendo un tappeto di inquieta, rarefatta ambient. Wiltzie e McBride, invece, assemblano in “Virginia” diverse sonorità provenienti dalla costellazione Labradford, allungando, per oltre ventuno minuti, una nebbia di invisibili peripezie eteree.
Si tratta di un lavoro certamente interessante per seguire “in diretta” il dialogo artistico tra due band che sono state spesso avvicinate; tuttavia, se non siete degli spietati completisti, vi consiglio, piuttosto, di soffermarvi sull’Ep Maneuvering The Nocturnal Hum, uscito l’anno successivo per la Earworm (750 copie in vinile) e comprendente due altre lunghe e intriganti escursioni. Il lato A condensa due vecchie composizioni del duo: i primi cinque minuti (“Jetebel (Music From The Short Film”) appartengono, infatti, a una sorta di colonna sonora che Brian aveva allestito per un film progettato da tale Dan Kern ai tempi dell’università; invece, i restanti quindici minuti ("Porch") erano stati originariamente composti (e poi scartati) per Music For Nitrous Oxide. Il risultato è un’ipnotica nebulosa di droni spaesati, in un vortice di cinematico splendore. Solo qualche rumore campionato rimarca, periodicamente, il lato, comunque, “terreno” dell’operazione.
E’ un esperimento che s’avvicina alla musica cosmica dei Tangerine Dream e che, nel suo crescendo impercettibile, posiziona altrove il nostro baricentro emotivo. Sul lato B, trova spazio, invece, un resoconto live, tratto da un concerto tenuto a Calgary nel 1996: per oltre ventitré minuti, una coltre di droni liquefatti e timidamente celestiali si culla a mezz’aria sopra le teste degli astanti.
“Tutto a Calgary era così caldo e accogliente e il rumore della folla sembrava ronzare insieme con la nostra musica…”.

L’affascinante prova di Maneuvering chiude, idealmente, la prima fase della loro vicenda. Wiltzie, stanco del Texas e desideroso di una boccata di aria fresca, si trasferisce in Belgio. Proseguendo solo via e-mail, la collaborazione tra i due finisce, così, per risentire oltremisura del traumatico distacco. Lo step successivo consiste nella collaborazione con il pittore Jon McCafferty, autore di una serie di tele ispirate alla musica di "Music For Nitrous Oxide". Per Aspera Ad Astra (1998) - questo il titolo del disco che scaturisce dalla cooperazione - si pone l’obiettivo di dare corpo a una “musica materica”, a una “pittura impalpabile”.
Chitarre, organo, cimbali, field recording e suoni/rumori catturati nello studio di McCafferty (mentre questi era intento a spennellare sulla tela) vengono filtrati, distorti, ricodificati in un flusso sonoro “inconscio”, incanalato in un tunnel che scende dentro le viscere della terra.
Suddiviso in due suite di tre movimenti ciascuna, l’opera si presta a un ascolto, insieme, “sibillino” e “meditativo”. Un senso di desolazione interiorizzata percorre, ad esempio, “Low Level Listening”, accarezzata da riverberi metallici. Lo svolgimento è, come al solito, panoramico, anche se l’emozione sembra ghiacciarsi poco alla volta, aggredita dal respiro corto dell’ispirazione. Quindi, più che tingere il vuoto di meravigliosi petali sonori, il minimalismo “deep” della musica finisce per raccogliere solo in parte la sfida “transcodificazionale” del progetto, tanto che, fatta eccezione per la musica da camera di “Anchor States Pt. 1”, Per Aspera Ad Astra resta un’opera in cui la variante intellettualistica finisce per snaturare le emozioni che pur la musica cerca, in tutti i modi, di portare a galla.

Questo periodo di transizione allunga la sua ombra (ma il buio va ormai diradandosi...) anche su Avec Laudenum uscito nel 1999 per la belga Sub Rosa. A differenza del precedente, in cui maggiore era stato il peso di McBride, questo nuovo lavoro denuncia il tocco più “trascendentale” di Wiltzie (cui si deve, in verità, gran parte del lavoro) e un impulso melodico più marcato.
In tre parti, “The Atomium” continua a spargere nello spazio aurore di timbri smorzati come candele lontane. Il suono ha riacquistato una densità e una forza espressiva (in Belgio, Wiltzie si è innamorato della pittura fiamminga ed in particolare di Rubens…) tale da permettere l’evocazione dell’”oltre” anche con pochi accenti, fossero pure indecifrabili nell’espandersi enigmatico dei brani. “Dust Breeding (1.316)+” è un’estasi privata, una sonda gettata nell’inconscio. Lo spazio vuoto ingoia tutto quello che si muove nei suoi paraggi, come un mostro sconosciuto. Dal canto suo, il requiem “minore” di “I Will Surround You” si riverbera in una profondità fatta di memorie sempre più fragili, sempre più in balia del tempo. 
Tuttavia, nonostante sia un lavoro piuttosto interessante, nonostante il corollario di paesaggi immaginari, Avec Laudenum mostra di essere soprattutto un lavoro di transizione. Un lavoro con cui la band riesce a lasciarsi alle spalle un biennio di incertezze e difficoltà, preparandosi al meglio per la realizzazione della sua opera più ispirata.

Disco austero e formalmente raffinato, The Tired Sound Of… (2001) è il punto di non ritorno nella tensione verso la sublimazione del drone in un tappeto indefinito di micro-variazioni melodiche. Pur vivendo ancora lontani, i due dimostrano, finalmente, di riuscire a comprendere ognuno i limiti e le potenzialità espressive dell’altro e il risultato è qualcosa di magico. Il suono si smeriglia fino all’inverosimile. Le cose (quelle reali e quelle immaginarie) perdono consistenza, diventando simboli sonori, fiamme spaurite nel buio; buio che è, a sua volta, allegoria del silenzio in cui galleggiano (ma, forse, sarebbe più appropriato dire “navigano”) queste stasi allucinate di divino torpore, queste estasi imperiture di brandelli di inconscio che, ricomponendosi e dissolvendosi, rilasciano strane tracce di alterità invisibili.
E’, molto semplicemente, musica concreta che proviene dai cunicoli più bui dell’inconscio. Quando parte “Requiem For Dying Mothers” è chiaro, inoltre, che, la fusione di musica per film (Preisner), ambient-cosmica (Eno e Schulze) e classica contemporanea (Messiaen, Gorecki e Part) ha ormai raggiunto l’apice in termini di comunicatività e tensione espressiva. C’è il fremito di una melodia lontana dietro il volteggiare incantato dei violini e dei droni ("Pt. 1"). Si discendono cunicoli spazio-temporali, il vuoto mutante dipanato innanzi, una meraviglia che atterrisce ("Pt. 2"). Poi, un pianoforte e una stanza in disparte. Voci fantasma: tracce di presenze che hanno perso ogni sembianza umana, per diventare simulacri, pitture astratte sospese, gorghi di collisioni analogico-digitali. E’ la raffigurazione di un’interiorità incapace, ormai, di gestire il contatto con la realtà, preferendo inabissarsi, invece, nei suoi fitti fondali di inquietudini impenetrabili ("Pt. 3").

La prima parte di “Austin Texas Mental Hospital” materializza l’immagine di una fiamma che lentamente ghiaccia, costretta in un movimento stanco e rallentato. Nella seconda, invece, onde di luce producono un abbaglio nella coscienza, sussurrandoci che, dietro queste mareggiate ora imperiose, ora delicate come il battito d’ali di una farfalla, continua a prolungarsi l’eco di un lamento, la disperazione di un linguaggio che, pur vagheggiando l’assoluto, deve necessariamente limitarsi a costeggiarne la riva. Ed è per questo, dunque, che la musica degli Stars Of The Lid è intimamente, profondamente nostalgica: il suo è un “nostos” perennemente incompiuto, un viaggio sommamente erratico, che, oltrepassato ogni baluardo geografico, invoca la definitiva liberazione, la rottura irreparabile dell’ultimo argine umano, per lasciare spazio a un respiro sommesso, a prospettive moltiplicate (si veda, ad esempio, la diafana terza parte della stessa “Austin Texas Mental Hospital”).
Sembra quasi un dolce naufragio, allora, il primo vagito di “Broken Harbors”, morbida ipnosi “marina” che, prima trascolora in uno skyline notturno, dove il luminoso palpitare delle stelle scivola verticale dietro il paravento dell’orizzonte sonnacchioso ("Pt. 2"); e, poi, s’addentra in una radura fitta di nebbia, verso un fondale chiaroscurale dove i suoni diventano sempre più inconsistenti e astratti, fino a tramutarsi in risonanze smembrate, rifrazioni infinitesimali ("Pt. 3").

Fedeli a uno dei loro grandi amori, il secondo disco si apre nel solco di Badalamenti: “Mulholland” è, così, un’altra fluttuazione pittorica che evoca spazi immensi, luoghi inaccessibili, vette inesplorate. Dal profondo oblio delle quali, sembra si sprigionino accenti e tonalità di un sovrannaturale luccichio di nuances psicologiche. Un esempio di quello che potrebbe essere definita come “psichedelia inconscia”, delirio sommesso dell’anima universale. Un’anima che, dal torpore rapita, si specchia, per l’ultima volta, nel vento  (“The Lonely People Are Getting Lonlier”). In “Gasfarming”, il brivido dell’alba aggredisce il nostro risveglio, e se il pianoforte domina “Piano Aquieu” (dove eleva al cielo un’eterea ninna-nanna), e nella prima parte di “Ballad Of Distances” (dove, con la pazienza di un vecchio saggio, scandaglia il mistero - il mistero dell’emozione che precede la parola, per dirla con Céline), in “Fac 21” gli archi solleticano la stratosfera del cuore.
Ancora più superbi, se è possibile, i fotogrammi in reverse di “Ballad Of Distances (Pt. 2)”, ennesima pozzanghera di dolce mestizia. Chiude “A Lovesong (For Cubs)”, con la sua quasi totale vaporizzazione sonora, e con l’ombra del silenzio che s’allunga ormai sempre più misteriosa e minacciosa, anche se, dopo un viaggio così lungo e affascinante, non sembra più così sinistra e intimidatoria. Ciò che resta, è un respiro placido e beato, in un dormiveglia che si prepara all’incombenza dell’eterno così come ci si prepara per l’ultimo addio.

Con la sua sintesi maestosa di ambient, cosmica e neoclassica, The Tired Sound Of Stars Of The Lid resta una delle opere più importanti degli ultimi venti anni, collocando il duo texano nell’olimpo dei grandi inventori di forme sfuggenti e mercuriali. Il “suono stanco” degli Stars Of The Lid è un suono che persegue il riposo definitivo, la beata rassegnazione delle forze interiori, per poter definire un raggio d’azione in cui tutti i suoni/rumori (anche quelli “impossibili”) abbiano finalmente la capacità di sostituire le parole e di nominare le cose come se fosse la prima e ultima volta. Il percorso, quindi, è discendente: si debilita progressivamente il suono, alla ricerca del silenzio, punto-zero sonoro. Noi seguiamo il cammino, lungo il quale si affastellano miraggi, si susseguono sublimi incanti.

Dopo il capolavoro, il duo sembra scomparire dalle scene. Quando ormai si erano perse le speranze, ecco che, giusto quest’anno, i Nostri si ridestano dall’oblio con un altro parto colossale, per dimensioni e ambizioni. Nelle sue due ore esatte di musica (appena tre minuti in meno rispetto al suo predecessore) Their Refinement Of The Decline (numero 100 del catalogo Kranky, così come il precedente ne era stato il numero 50) mette sul piatto un altro gioiello di descrittivismo impressionista. Il coinvolgimento emozionale è, così, ancora una volta, totale e profondissimo, così come è evidente lo slittamento verso un melodismo più pronunciato, a cominciare dalla fanfara al ralenti di "Dungtitled (in A Major)", aperta da un dejà vù kubrickiano (la sequenza iniziale di "Shining"...) e galleggiante in un vuoto pneumatico, con richiami e proiezioni di solennità disperse. Potrebbe essere, chissà, una nuova liturgia dell'illimitato ("Articulate Silences Part 1"), con gli archi vibranti e malinconici che scivolano sotto pelle come lame Black Tape For A Blue Girl ("Articulate Silences Part 2").
Tutto scorre rapito dall'insostenibile lentezza del farsi e disfarsi musicale ("The Evil That Never Arrived") - qualche brivido di inquietudine, giusto perché si sappia: niente è del tutto come sembra ("Apreludes (in C Sharp Major)".
In bilico sull'immateriale divenire del suono, profondissima quiete, quiete leopardiana ("Don't Bother They're Here"); si seguono, così, da lontano, vette e avvallamenti, la natura brulicante di riflessi metallici, come una bestia stanca e fradicia di pioggia ("Dopamine Clouds Over Craven Cottage"). Una veglia rivelatrice, in cui il ruolo subliminale della musica ("Even If You're Never Awake (Deuxième)") ci attira in un viaggio dentro e oltre noi stessi, verso uno strano simulacro, verso il titanismo dell'abbandono ("Even (Out) +)". Cos'altro è, poi, "A Meaningful Moment Through A Meaning(less) Process" se non un acquerello per la più indescrivibile e subdola delle nostalgie? Quella nostalgia, insomma, che chiama in causa niente di definito e di reale, ma solo il significato ultimo di noi stessi, la nostra radice ultima.

Aperto dall'inquieta "Another Ballad For Heavy Lids", il secondo disco mostra un dinamismo più scoperto e si avvale, inoltre, di un suono leggermente più “denso”, nonostante sia pur sempre la dilatazione “sospesa”, austera e cinematica il cardine dei loro affreschi metafisici, come ben dimostrano i tredici minuti di "The Daughters Of Quiet Minds". La brevissima, quanto dolente, elegia di "Hiberner Toujours" possiede un’austerità atemporale e “utopica”, a differenza di "That Finger On Your Temple Is The Barrel Of My Raygun" che sprigiona, invece, un’indolenza radiosa, anemicamente enfatica. E’ un percorso che si fa man mano più introspettivo, arabescando sensazioni e brandelli di sogno, fino a scivolare verso il baratro della memoria, sulle note di un pianoforte trasognato (“Humectez La Mouture”). Questo decentramento "tragico" tocca l’apice nel requiem classicheggiante di "Tippy's Demise", mistero intenso e sconfinato, come "resti di una purezza più profonda", brandelli di un sinfonismo mentale ("The Mouthchew").
La musica possiede un segreto che solo i nostri sentimenti potrebbero rintracciare. Succede, allora, che mentre ci perdiamo dentro questi oceani di paradisiaco splendore, in cui anche il ricordo dell'inferno (l'inferno "terreno" e Strindberg-iano...) viene filtrato e ridestato a nuova vita, ci sorprendano proiezioni di memorie che scavano a ritroso nel tempo, perfezionando il declino del corpo con l'elevazione dell'anima a luogo immaginifico per l'eternità dei ricordi ("December Hunting For Vegetarian Fuckface", diciassette minuti di deriva ascetica, diciassette minuti di delirio inintellegibile).

Insomma, con le loro partiture indefinite e sterminate, Adam Wiltzie e Brian McBride sembrano volerci ricordare che la musica è un simbolo dietro cui si nasconde una luce che, nel reclamarci, si impossessa man mano del nostro corpo e della nostra mente. Magari dovremo aspettare altri sei anni, o forse più, per poter percorrere da cima a fondo un altro loro microcosmo sonoro. Tuttavia, sappiamo già da adesso che ne varrà la pena.

PROGETTI SOLISTI

Aix Em Klemm:
 "s/t" (2000)

Registrato l’interlocutorio Avec Laudenum, Adam Wiltzie imbastisce con Bobby Donne (bassista dei Labradford) il progetto Aix Em Klemm, il cui omonimo disco è un’erma bifronte dove la combinazione tra i droni celestiali degli Stars Of The Lid e le fluide atmosfere dei Labradford, anche se non sempre a fuoco e matura, produce risultati apprezzabilissimi. Accanto ai droni di chitarra e alle texture elettroniche, troviamo occasionali interventi vocali, a dimostrazione del fatto che l’intento del duo era quello di lavorare maggiormente intorno alla forma-canzone (anche se sempre di una canzone stracarica di trascendenza si tratta).
Alle metamorfosi “orchestrali” di “The Girl With The Flesh Colored Crayon” e di “Prue Lewarne”, e all’introversa e notturna “3x2 (exit)”, seguono la rassegnata visione, con coda di frequenze ipnotiche, di “Sophteonal”, la quiete digitale di “The Luxury Of Dirt” e la new age diamantina di “Sparkwood and Twentyone”, che chiude in maniera estremamente rilassata un disco da ascoltare a occhi chiusi, senza pretese e senza il benché minimo dubbio sulla bontà pacificatrice di certa musica.

Dead Texan: "s/t" (2004)

Insieme con la cineasta Christina Vantzos, nel 2004 lo stesso Wiltzie dà vita ai Dead Texan, autori, fino a questo momento, di un solo, omonimo lavoro, in cui, se da un lato si palesa un taglio cinematico, dall’altro appare più che netta una certa filiazione da The Tired Sound Of…, evidente già nell’iniziale “The Six Million Dollar Sandwich”, ma anche nella celestiale armonia di “Girth Rides A (Horse)” e nelle onde sommesse di “Beatrice Part. 2”, tutte possibili varianti dell’ambient neo-classica della band madre. Tuttavia, in queste undici composizioni, il suono è più denso, più manifestamente inquieto, anche quando, come nel caso di “Glen’s Goo”, la vocalizzazione trasfigura l’affresco in una sorta di canzone post-ambientale.
In questo equilibrio precario tra l’evanescenza irrimediabile e “terminale” del recente The Tired Sound Of… e la grandeur cinematografica, scopertamente imparentata con i lavori di Zbigniew Preisner (si vedano, al riguardo, rispettivamente, la prima e la seconda parte di “A Chronicle Of Early Failures”), i Dead Texan si muovono al confine tra condensazione e diluizione. Ecco, allora, il pianoforte tratteggiare i contorni di eremi desolati aggrediti dalla pioggia (“Taco De Macque”), luoghi irreali in cui bisbigli e rumori arginano l’onda devastante dei ricordi (“Aegina Airlines”), inquietudini sotterranee (“When I See Scissors I Can’t Help But Think Of You”) e meraviglie emozionali in cerchio minimalista (“La Ballade d’Alain Georges”). Un lavoro estremamente godibile e ricco di sfumature nascoste, splendidamente incorniciato dai Tortoise versione slow-core di “The Struggle”.

Brian McBride: "When The Detail Lost Its Freedom" (2005)

Il primo e, finora, unico exploit solista di McBride arriva solo nel 2005 e si pone nel solco dei lavori più rilassati e impalpabili degli Stars Of The Lid. When The Detail Lost Its Freedom conquista lentamente il terreno delle emozioni, pur restando, tutto sommato, opera interlocutoria e non del tutto calibrata. E’ l’” Overture (for Other Halfs)” a rappresentare, nell’immediato, l’essenza di un lavoro basato soprattutto sulle lente evoluzioni dei droni di chitarra, accompagnati dall’uso, sempre trasfigurato e levigato, del pianoforte, del violino e della tromba. E’ una sorta di scenografia acquatica ad accogliere nel suo grembo il farsi e il disfarsi delle sonorità. Peccato solo, però, che, a lungo andare, l’opera dimostri una certa inconsistenza, un’incompiutezza dettata, forse, dal carattere abbastanza occasionale dell’operazione (si ricordi che il disco nacque in seguito al provvisorio “allontanamento” di Wiltzie, impegnato nella realizzazione di "Giving Up The Ghost" dei Windsor For The Derby).
Così, i toni delicatissimi di “Piano Abg”, lo slow-core etereo della “canzone” “Our Last Moment In Song”, la tenera “I Will”, la fanfara mortuaria (con leggiadre pennellate di chitarra) di “The Guilt Of Uncomplicated Thoughts" e le sollecitazioni inconsce di “For Those Who Hesitate”, pur disegnando uno spettro emotivo intenso, non riescono ad andare al di là della semplice riproposizione di schemi consolidati e, ormai, poco originali. Così, i “Silent Motels” svaniscono inghiottiti dalla notte, ma dietro di loro lasciano un mistero facilmente penetrabile, poco avvezzo alle profondità emotive e agli abissi esistenziali dei lavori più importanti degli Stars Of The Lid. Stesso discorso, inoltre, per la musica da camera di “Latent Sonatas”, di certo avvolgente, ma senza guizzi di personalità, senza il tocco “magico” che, altrove, McBride aveva saputo infondere nella sua musica.

(14/06/2007)

Stars Of The Lid

Discografia

STARS OF THE LID

Music For Nitrous Oxide (Sedimental, 1995)

7

Gravitational Pull Vs The Desire For An Acquatic Life (Sedimental, 1996/ Kranky, 1997)

7

The Ballasted Orchestra (Kranky, 1997)

7,5

The Kahanek Incident, vol. 3 (split 12" con i Labradford, Trance Syndicate, 1997)

6

Maneuvering The Nocturnal Hum (Ep, Earworm, 1998)

6,5

Per Aspera Ad Astra (Kranky, 1998)

6

Avec Laudenum (Sub Rosa, 1999/ Kranky, 2002)

6,5

The Tired Sound Of Stars Of The Lid (Kranky, 2001)

8

Their Refinement Of The Decline (Kranky, 2007)

7,5

AIX EM KLEMM

Aix Em Klemm (Kranky, 2000)

6,5

DEAD TEXAN
Dead Texan (Kranky, 2004)

7

BRIAN MCBRIDE
When The Detail Lost Its Freedom (Kranky, 2005)

6

Pietra miliare
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