Robert Hampson - Loop - Main

Robert Hampson - Loop - Main

Musiche per l'isolamento

Dal noise-pop psichedelico dei Loop, passando per la musica isolazionista dei Main, fino alle ultime uscite a proprio nome, una panoramica su Robert Hampson, uno dei personaggi più importanti dell'avant-rock inglese a cavallo tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90

di Antonio Ciarletta

Una spruzzata d'isolamento

Il 1985 in ambito rock si caratterizza per il fallout di un'illusione, scrive con altra termologia Simon Reynolds in "Post Punk 1978-1984". L'illusione che la cultura indipendente potesse misurarsi alla pari con il mainstream e addirittura soppiantarlo. Una visione incoraggiata da un portato ideologico viziato da pulsioni ovviamente antagoniste ma anche fatalmente utopiche, tuttavia prefigurata con entusiasmo e convinzione, e per un periodo nemmeno tanto breve, da musicisti e giornalisti del movimento post ‘77. La frase di John Peel "non mi piacciono nemmeno i dischi che mi piacciono" suonava come l'epitaffio di quella stagione gravida di fermenti ma anche di tentativi, spesso riusciti, di riflessione a 360 gradi su tutto ciò che atteneva al discorso musicale, dalla critica di genere ai processi di business.
E' negli anni del punk e della new wave che si assiste all'esplosione del fenomeno dell'autoproduzione e delle etichette indipendenti, intese in origine come strumenti di assoluta libertà creativa (...), ed è in quegli anni che la critica rinnova i suoi linguaggi e le sue modalità di interazione con il pubblico.
Quando Reynolds addebita al giornalismo musicale post-1985 lo spostamento semantico verso un'eccessiva settorializzazione, in realtà prende involontariamente (?) atto di una situazione determinata dai postumi di ogni grande rivoluzione culturale. La deriva da una parte, i rivoli creativi e le spinte in avanti dall'altra, con varie e non sempre identificabili zone di confine nel mezzo.
Accadde negli Stati Uniti, dove l'hardcore avrebbe da un lato germinato (in parte) il post-rock di Slint, Tortoise e compagnia cantando, e dall'altro ispirato centinaia di gruppi che ne ricalcarono pedissequamente i codici. E si verificò ovviamente in Inghilterra. A metà anni 80 il post-punk aveva certo esaurito la sua traiettoria di innovazione, ma laddove si assisteva al riflusso del rock dei 60 e dei 70, con i ghirigori byrdsiani degli Smiths, delle band del C-86 e della Sarah Records, e laddove gruppi tardo-dark presero a scimmiottare Killing Joke e Joy Division, sottoterra iniziava e per certi aspetti continuava a muoversi qualcosa di immediatamente relazionabile a quel periodo aureo.
Nel Regno Unito e sottotraccia, un nugolo di intellettuali, band, musicisti, iniziarono ad assorbire i lasciti della new wave, inaugurando su piani diversi, tuttavia apparentabili, nuove stagioni di suono. La storia di Robert Hampson parte in questo lasso temporale, precisamente nel 1986 con i Loop, e va strettamente a braccetto con una di quelle nuove stagioni sonore che dal post-punk presero abbrivio: l'isolazionismo.
Parlare di isolazionismo significa tirare in ballo un coacervo di musiche eterogenee, ma significa altresì approntare una metariflessione sul discorso della critica musicale, e sulle sua derive mitopoietiche. Sui meccanismi non sempre intelligibili che stanno alla base dell'osservazione di tendenze e orientamenti, ma anche del lancio di scene e, non di rado, di fenomeni di cartapesta, di tempeste in un bicchier d'acqua.

Il termine "isolazionismo" fu utilizzato da Kevin Martin (e praticamente in contemporanea da Simon Reynolds e Chris Bohn) nel numero di settembre '93 di Wire Magazine, per descrivere un genere, ma forse meglio, un approccio che poneva al centro di quel discorso musicale caratteri come l'alienazione e il solipsismo.
Il genere che meglio sapeva farsi interprete di questa nuova temperie era certamente l'ambient, anche se nell'ormai storica compilation Ambient 4: Isolationism edita dalla Virgin con le note di Kevin Martin, trovavano spazio linguaggi multiformi e soprattutto formazioni parecchio diverse. Dai Labradford, ad Aphex Twin, passando per Techno Animal, Disco Inferno, Paul Shutze, Jim O'Rourke, i Main chiaramente. Ed è proprio quest'ampio ventaglio di situazioni a dimostrare come l'isolazionismo più che un genere fosse un modo di sentire, di relazionarsi ai suono, che prescindeva da un'inequivocabile inquadramento temporale.   
D'altro canto non erano già isolazioniste certe musiche di Stockhausen, Cage o Xenakis? Indubbiamente. Come sicuramente lo era l'ambient di Brian Eno e parte del kraut e della musica cosmica tedesca. E ancora, le improvvisazioni degli Amm - che infatti furono inclusi nella compilation - il post-punk sperimentale dei Dome, la no wave dei primi Swans, alcune propaggini della scuola post-industriale, sia inglese che americana, di fine anni 70 inizio/metà anni 80: formazioni come Illusion Of Safety, Coil, Nurse With Wound, Nocturnal Emissions, Hafler Trio, :zoviet*france: (anch'essi nella compilation). E nel novero dei progenitori rientravano a pieno titolo gli universi Broken Flag e Come Org, messi a confronto con l'isolazionismo propriamente detto da Matthew Bower, straordinaria cinghia di trasmissione tra la scena post-industriale e le rinnovate tendenze del post-metal, nel noise e della psichedelica inglese della seconda metà degli anni 80. Slullflower e Total (si, pure loro nella compilazione) furono indubbiamente isolazionisti ante litteram. E i Talk Talk? Be' loro c'entravano eccome, ed ebbero il riconoscimento dovuto con la partecipazione degli .O.Rang ad Ambient 4: Isolationism.

Nei tardi anni Novanta l'approccio isolazionista arrivò a consunzione in una deriva che trovò i suoi eccessi più esecrabili nell'esagerata produzione di ambient, post-rock ed elettronica più o meno minimale, a volte glaciale a volte consolatoria. Al contempo seppe fare da sponda alle musiche di personaggi talentuosi come Richard Youngs, Neil Campbell (Vibracathedral Orchestra), e seppur di striscio a certe espressioni della Bristol alternativa, Flying Saucer Attack, Amp e primi Crescent soprattutto. Ovviamente le discendenze non appaiono dirette ed è possibile che quelle formazioni si siano limitate a ricontestuaiizzare le medesime influenze, certo è però che suddetti suoni, tra trance e musica cosmica tedesca, risentivano del retrogusto solipsistico di quella stagione. E ancora, ottimi esempi di post isolazionismo saranno alcune emanazioni del giro norvegese della Rune Grammofon e dell'N-Collective, Supersilent su tutti. Per non parlare della miriade di etichette, focalizzate sull'elettronica minimale, nate nella seconda metà degli anni 90
Fuor di ogni pretesa revisionista, la riflessione sull'isolazionismo ebbe però il merito di fornire alla critica stessa un strumento - un denominatore comune - per decodificare una pluralità di suoni non facili da inquadrare, e soprattutto fotografare un momento irripetibile della musica inglese.

In questo contesto muoveva Hampson, uno degli intellettuali più fervidi di quella generazione. Approfittiamo dell'uscita di Vectors, a nome Robert Hampson, e della ristampa dell'intero catalogo dei Loop per tracciarne un profilo e per sottolineare l'importanza di un personaggio forse "troppo dimenticato".

Rumore in "retroazione negativa"

LoopLa prima volta che ascoltai i Loop ebbi un rigetto deciso, nonostante me ne fossero chiare le coordinate. Ascoltarli rappresentava un'esperienza che rasentava la sofferenza. Costringevano il cervello a fermarsi e a ripartire continuamente. Ecco, la musica dei Loop (mai nome fu più azzeccato) era sfiancante come l'effetto di un orgasmo lì lì da venire e improvvisamente abortito. E poi di nuovo stimolato.
Il suono di Hampson e compagni pareva un sistema a retroazione negativa, un circolo chiuso in cui gli stati del sistema erano direttamente influenzati dai suoi effetti. I continui reset ritmici creavano strutture ricorsive in cui la percezione del suono non si dava come funzione esclusiva dal suo svolgimento lineare, ma risultava dall'accumulo progressivo di segni reiterati in itinere, fossero essi rumori o melodie. Gli elementi strutturali, ovvero stratificazione e ripetizione ossessiva, trovavano le proprie radici - metabolizzate e riproposte in un linguaggio ipnotico e allucinante - nel rumore dei Velvet Undergound, dei Neu, degli Stooges, dei Suicide, e nelle irregolarità ritmiche dei Can.

Le parti di basso, minimali, di una roboticità teutonica e dai sapori vagamente dark, conferivano linearità al suono, mentre la chitarra si ergeva acida in feedback massacranti e in divagazioni psichedeliche ardite. Hampson dimostrava inoltre di essere un discreto songwriter, disegnando dove necessario melodie e ritornelli di una certa presa. Per cui a tratti risultava alquanto straniante ascoltare costruzioni pop affogare in un abisso di rumorismi selvaggi. Il suono era comunque pesante, a tratti claustrofobico e pareva l'ideale punto di contatto tra le varie correnti e la diverse formazioni che in quegli anni, in Gran Bretagna, si misuravano con la musica psichedelica. Limitrofo, ad esempio, al metal contaminato dei Godflesh (con cui Hampson collaborò), alla trance cupissima e poderosa dei Terminal Cheescake e di altre band della Wiiija Records. Era prossimo inoltre allo shoegaze dei My Bloody Valentine, ma anche ai raga in salsa krauta di Spacemen 3, e al noise-pop dei Jesus And Mary Chain.

Nati a metà anni 80 su iniziativa di Robert Hampson, i Loop s'inscrivevano in quella corrente di rinnovamento della psichedelia inglese inaugurata proprio dai Jesus And Mary Chain, e che in forme diverse interessò formazioni come My Bloody Valentine, Spacemen 3, A. R. Kane, Breathless, Pale Saints tra le tante.

Il nucleo iniziale, oltre allo stesso Hampson, constava della consorte Bex alla batteria e di Glen Ray al basso, poi sostituiti da Jonh Willis nel 1987 (batteria) e da Neil Mackay (basso) nel 1988. Ai tre si  aggiunse nel 1989 un altro chitarrista, Scott Dawson, che accompagnerà Hampson nell'avventura Main fino al 1996.

Le prime uscite dei Loop videro luce sull'etichetta personale Head. Nello specifico, il primo Ep 16 Dreams, il singolo Spinning - raccolti entrambi in The World In Your Eyes - e il primo album Heaven's End dell'87.

La band firmò successivamente per la Chapter 23, che ne licenziò il singolo "Collision" e il secondo album Fade Out, mentre A Gilded Eternity si fregiò dell'imprint della Beggars Banquet. I Loop si sciolsero nel 1991. Postumi vennero pubblicati il live Dual e la raccolta delle John Peel Sessions intitolata Wolf Flow.  

Robert Hampson e Scott Dawson, come detto, formarono i Main, mentre John Wills e Neil Mackay misero su i discreti Hair And Skin Trading Co. con il chitarrista Nigel Webb.

Diciamolo subito, al contrario dei Main, i Loop non produssero capolavori, nonostante si facessero portatori un'idea di suono parecchio originale. Ed è quella che va evidenziata, più della consistenza complessiva degli album, comunque molti buoni se non ottimi. Anche se la debolezza relativa dei full length probabilmente precluse loro una considerazione quantomeno pari a quella di altre formazioni consimili. Hampson era conscio di percorrere strade certamente impervie, tuttavia nella sua parabola di musicista ebbe a dimostrare un'integrità ammirevole, come palesano queste parole tratte da un'intervista rilasciata in occasione dell'uscita della compilation "Ghafran" del 1994, e che si può trovare per intero all'interno della stessa: "...In the aftermath of punk, there were so many interesting things happening, groups like Wire, early Cabs, Skidoo, etc., however, most contemporary music I find incredibly dull and bland, you know the so-called fucking "Indie-scene". I would like to think Main is challenging that without wanting to sound too antagonistic or arrogant. To me, there are too many soundalikes in the music world. With Main and earlier with Loop we always felt removed from all that, existing in our own little world."

Hampson dichiarò in più di un'occasione di aver sciolto i Loop quando capì di avere poco altro da dare in quella veste.

Ristampata quest'anno in versione expanded triplo cd, The World In Your Eyes uscì nel 1987. La raccolta conteneva originariamente il primo Ep 16 Dreams e il singolo Spinning, prime testimonianze del pop stordente dei Loop, all'insegna di un suono ipnotico e melodico al contempo. Il modello è quello dei Velvet Undergound, aggiornato alla trance in formato canzone dei Jesus And Mary Chain.

Pezzi come "16 Dream", "Head On" e "Burning World" ne svelano chiaramente le potenzialità, tuttavia ancora inespresse, rispetto alla complessità armonica che andrà a caratterizzare le cose successive. Riff su riff snervanti, strutture ritmiche ripetitive, ronzii e distrurbi rumoristici in sottofondo tracciano i contorni di un minimalismo pop robotico eppure dal volto umano. Le ritmiche svelte, sbarazzine e la spiccata sensibilità melodica rendono il suono piacevole pur all'interno di un contesto alienante.

Il trattamento riservato a "Rocket Usa" dei Suicide, sventolata quasi come una dichiarazione di appartenenza, vale da sola il prezzo dell'acquisto. Qui Hampson lavora per accumulo. Strati di feedback vengono sovrapposti e sfasati tra loro, dando l'impressione di uno svolgimento circolare, come di una spirale che si allontana e si avvicina al suo asse a intervalli regolari.

Il prodotto più compiuto dell'ibridazione tra le jam dei Velvet Underground e la sensibilità pop dei Jesus And Mary Chain è però "Deep Hit", uno shoegaze krauto in cui c'è molto del suono che sarà dei Flying Saucer Attack e degli Amp, che ne espanderanno a dismisura la componente cosmica.

Dovessi consigliare un disco con cui approcciare i Loop, quello sarebbe proprio The World In Your Eyes, con il suo mix di rumore e melodia, soprattutto se si conoscono e si apprezzano quel tipo di sonorità, magari attraverso la mediazione del primo disco dei Jesus And Mary Chain.

Il drone circolare, la pesantezza delle ritmiche e il retrogusto spiccatamente melodico, fanno di "Fix To Fall" un approdo interessante dei discorsi iniziati con "Deep Hit". Ma soprattutto è uno dei pezzi che meglio mostra il potenziale di ibridazione del Loop-sound rispetto alle musiche limitrofe di cui parlavamo poc'anzi.

Ed è questa la sensazione ascoltando Heaven's End, primo full length del gruppo, che ebbe il merito di consegnarli all'attenzione della critica del periodo. Qui i Loop iniziano un processo di irrobustimento del suono che passa per ritmiche meno frenetiche se non marziali, come nella già citata "Fix To Fall" o in "Too Real To Feel", e per un feedback di chitarra maggiormente denso e avvolgente. Se ne coglie il portato più estremo in "Forever", marcia funerea avvolta in un drone strisciante, che rimanda per dissonanze e impatto ai traumi metallurgici dei primi Swans. I riff circolari e ripetitivi e i pattern percussivi e metronomici di "Heaven's End" definiscono al meglio il suono per in quale i Loop andranno ‘famosi', mentre nel mantra imbevuto di radiazioni kraute di "Straight To Your Heart" viene a galla la somiglianza con un gruppo coevo che muoveva in territori attigui, ovvero gli Spacemen 3.

La rivalità tra Loop e Spaceman 3 ebbe un certo risalto sulla stampa inglese alla fine degli anni 80. In un'intervista rilasciata a Lime Lizard Magazine nel 1989, Peter "Sonic Boom" Kember sottolineò con forza il primato temporale e qualitativo degli Spacemen 3. Sonic Boom: "Yeah, they really ripped us off!! Their first record sleeves, their sound, their live shows, just about everything. Their first few gigs were supporting us. The first time they had acid was when we gave it to them. Then they started calling themselves Loop. The first album was alright but it wasn't anything we hadn't done already."

In un'intervista al New Musical Express un giornalista, avvertito da più parti di evitare discorsi sugli Spacemen 3, decide incautamente di fare la fatidica domanda a cui Hampson risponde stizzito: "We find the whole scenario quite hilarious actually"; nella medesima intervista, invece il bassista Neil MacKay ammetterà le similitudini. Questione delicata e non priva di un certo interesse storicistico, il primato degli uni sugli altri, come accade spesso in questi casi, resta difficile da stabilire. Certo è che agli Spacemen 3 fu riservato un trattamento migliore dalla critica del periodo, anche in virtù di una qualità complessiva superiore della loro musica.

A un anno da Heaven's End, preceduto dagli Ep Collision e Black Sun, uscì Fade Out, che arrivò al numero cinquantuno delle classifiche in Uk, e che rappresenta senza ombra di dubbio l'album migliore della formazione londinese. A distinguere Fade Out dai dischi precedenti e successivi è l'intervento massiccio della seconda chitarra che - sottesa dall'immancabile drone a spirale - divaga in assolo acidi memori di Hendrix e dei Grateful Dead. Il suono si fa maggiormente massimalista, richiamando, nei pezzi più frenetici ("Got To get It Over", "There Is Where You End", "Torched" soprattutto) l'impeto punk degli Stooges, sotteso da quella strisciante paranoia urbana tipica dei Suicide.

Altro punto di forza di Fade Out è la scrittura. La già citata "Got To get It Over", "Fever Knife", "Black Sun" rappresentano alcune tra le canzoni migliori dei Loop, che qui riescono a trovare la quadra della loro attitudine pop. Appena più curate, avrebbero tranquillamente potuto competere con quelle degli shoegazer più trendy di quegli anni.


Uscito nel 1990 per i tipi della Beggars Banquet in pieno periodo di revival psichedelico e di esplosione dello shoegaze A Gilded Eternity è l'ultimo album dei Loop, il loro migliore secondo Julian Cope. E per certi versi possiamo concordare con "Flawed Genius". A Gilded Eternity si discosta da tutto ciò i Loop avevano prodotto fino ad allora, eppure ne costituisce la summa. Il suono è asciutto (meno dronante) e monocorde, le chitarre diventano ruvide e angolari, quasi mathematiche, ma soprattutto il concetto di ripetizione viene portato al parossismo. Il basso pulsa di giri monotoni come nelle migliori esperienze del post-punk britannico, mentre la batteria picchia in modo ossessivo. L'impasto possiede nel complesso una grana "metallica" e psichedelica al contempo. Confrontate A Gilded Eternity con "Organ Fan" dei Silverfish, ad esempio, e noterete come il suono dei Loop tenda verso quel tipo di impatto e di pesantezza. Pezzi come "Vapour", "Afterglow, "The Nail Will Burn" sono treni in corsa che deragliano di continuo, aborti di suite che ripiegano su se stesse senza nemmeno abbozzare tentativi di svolgimento lineare. Qui più che altrove emerge l'influenza dei Can e delle loro texture frammentate e ipnotiche.

Fino al 2013, il nome Loop sparisce dagli annali e dalle copertine delle riviste specializzate.
Il ritorno è segnato da un paio di reunion tour (con la stessa formazione di A Gilded Eternity), che rimettono in moto anche la voglia di produrre nuovo materiale. 
Array 1 è un Ep interessante (si veda la suite finale "Radial", con i suoi diciassette minuti di vagabondaggio interstellare), perfettamente in linea con il suono di chitarre dal quale per anni Hampson ha cercato di affrancarsi, e che esce quasi in sordina nonostante l'evidenza di un suono ancora integro nelle intenzioni. 
Differenze di vedute e avvicendamenti vari portano poi Hampson a restare l'unico superstite della lineup originale e a decidere, qualche anno più tardi, di tornare al formato album.
Nel 2022, sull'onda delle sensazioni legate ai due anni di pandemia da Coronavirus e relativo lockdown, esce Sonancy, ed è ancora una volta chiaro che l'ossessività kraut ("Interference"), le cavalcate space ("Eolian") e la foschia psichedelica ("Supra") che avevano reso famosa la band sono ancora tutte lì, più che mai intenzionate a dare prova di un percorso che esula dal mero opportunismo. È però anche evidente il tentativo di rendere più fruibile la proposta, soprattutto in termini di parti vocali, qui più asciutte, che spostano il focus sull'influenza post-punk. Oltre a due interessanti capitoli strumentali ("Penumbra I" e "Penumbra II), la tracklist insiste su riusciti episodi di intensità ipnotica ("Isochrone", "Halo", "Fermion"), mostrando forse una leggera prevedibilità nei risultati ma anche una sincerità di fondo non sempre scontata quando si tratta di recuperare un glorioso marchio di fabbrica del passato.


La "cosa principale"

Chiuso il discorso Loop, e dopo un breve intermezzo come chitarrista nei Godflesh - in un tour in Uk nei primi anni 90, nel 12" "Cold World" del '91 e nel full length "Pure" del '92 - Robert Hampson vara la creatura Main insieme al fido Scott Dawson.

Con i Main, Hampson cambia decisamente modo di relazionarsi ai processi compositivi, anzi, parlare di processi di composizione pare addirittura fuori luogo. L'approccio strutturalista dei Loop viene abbandonato. Hampson recepisce e reinterpreta metodologie molto vicine all'improvvisazione pura, che partono dalla registrazione di parti di chitarra e drum machine, poi riversate su nastro e sottoposte a procedimenti di post-produzione.

In questa fase Hampson opera per sottrazione, sgrezzando la materia in eccesso fino a ottenere un suono minimale e ricorsivo.

Almeno inizialmente i Main si servono esclusivamente di chitarre e drum machine. Ed è il suono di chitarra, la ricerca di soluzioni ritmiche e timbriche originali, l'obiettivo di Hampson. Pollice verso, invece, per l'utilizzo di sample, considerati una soluzione di comodo: "I find the use of samplers to be very lazy." In altre parole, Hampson intendeva allontanarsi dal noise-pop psichedelico dei Loop, ma al contempo sperimentare utilizzando la chitarra come un banco elettronico.

Il rifiuto di adoperare sampler derivava da una visione complessa che vedeva Hampson schierarsi contro l'utilizzo spropositato delle macchine, a cui si sommava una spiccata diffidenza verso il mondo del club e della dance music. "...That's what I hate about samplers. I sort of like the DIY aspect of it, but it annoys me that someone with no musical talent or ideas can make a record. But Dance music, House music, I absolutely fucking hate...". E ancora: "Why thousands of people would want to cram into a small building and take a lot of drugs I simply can't understand. I mean I have taken drugs, but never in that contenxt. I think I would get intensely claustrophobic".

I propositi di sperimentazione di Hampson sono nell'obiettivo dichiarato di creare una musica per quanto possibile originale, contemperando un'evoluzione verticale in termini di qualità del suono. Il musicista londinese dichiara in più di un'occasione di ignorare intenzionalmente soluzioni anche interessanti, qualora a suo parere suonino già sentite.
La prima fase - che dura fino a Motion Pool - definisce i Main come un combo di avant-rock evoluto, capace di introiettare e riproporre in chiave isolazionista il rumore krauto e deragliante di formazioni come Faust, Can, Cluster e le turbolenze elettroniche della musica post-industriale. Insomma, un gruppo rock che cerca di misurarsi con decenni di musica sperimentale.

Hampson si dice grande ammiratore dei Wire - e dei Dome forse anche di più - e non fa mistero di esserne stato influenzato.

Ecco, a discuterne in retrospettiva e non senza un pizzico di rammarico, non si può non considerare come i dischi dei Main risultino in definitiva importanti, ma forse non del tutto riusciti. Un tassello fondamentale nella definizione di una modalità ben caratterizzata di approccio al suono, alla trance e alla psichedelia, ma forse privi di quella varietà che il buon Hamspon ha sempre dichiarato essere suo obiettivo. Il problema della musica dei Main sta proprio nella limitatezza armonica e nella scarsa ricerca timbrica sulle parti di chitarra.  

Dopo Hz Hampson s'infognerà nelle derive del suono che aveva contribuito a definire, con album di musica prossima al silenzio, imbevuta di micro-eventi, improvvisazioni siderali e soluzioni minimali, ma davvero troppo ripetitiva (nel senso peggiore del termine). Il ricorso man mano più marcato a tecniche improvvisative diverrà forse una necessità più che una risorsa. A corto di soluzioni, i Main si lasceranno irretire dalle astrazioni random di gente come Keith Rowe - e mi vengono in mente persino i Voice Crack - senza tuttavia possedere la medesima capacità di giocare con le dissonanze, di instaurare una dialettica d'interscambio efficace tra rumore e silenzio e tra suono e spazialità - cosa che pure sembrano tentare in più di un disco nella fase successiva a Hz.

I Main abuseranno del silenzio utilizzandolo in maniera piuttosto convenzionale, come cuscinetto tra un evento e l'altro, senza mai riuscire ad abitarlo/penetrarlo con il suono, a modellarlo in maniera osmotica sublimandone la forza prorompente, la contrazione o l'annullamento percettivo delle coordinate temporali.

L'isolazionismo dei Main diverrà concetto più che musica, quasi un saggio di teoria del suono.

Licenziati inizialmente come 12" separati, Hydra e Calm furono raccolti in un solo album nel 1992 dalla Situation Two. A supporto della prima uscita dei Main, Hampson dichiara di volersi deliberatamente allontanare dal rock. La scelta di una drum machine al posto di un batterista stabile va nella direzione di una musica dai ritmi squadrati e roboticamente regolari. Il suono passa per strutture minimali e statiche, ricorsive fine allo sfinimento. Tuttavia il rock è ancora presente sullo sfondo, come una statua di ghiaccio che sciogliendosi va progressivamente perdendo le sue sembianze originarie. Ciò si estrinseca nella scomparsa di un focus - la forma-canzone dei Loop - nella sua decomposizione e dissoluzione in strutture altrettanto minimali, ma scrostate fino all'osso da ciò che Hampson ritiene ridondante, ovvero le melodie, la componente pop.

Il feedback allucinato dei Loop si scioglie e si ricombina in distese di suono liquido, dilatato, eppure dotato di una corporeità tracimante. Si trasfigura in eventi rumoristici prossimi al silenzio, che si avviluppano e si sviluppano su strutture ritmiche costanti e ossessive. L'ibridazione tra i residui della trance-pop dei Loop e le turbolenze kraute di Neu e Can soprattutto viene qui resa al suo meglio. La percezione che ne deriva è qualcosa di prossimo all'allucinazione e allo sfinimento delle musiche minimaliste. Pezzi come "There Is Only Light" e "Flametracer", testimoniandone le contaminazioni, si danno come cartina tornasole del percorso di sperimentazione intrapreso da Hampson.

L'album successivo, l'Ep Dry Stone Feed, non apporta novità significative, ciononostante mostra l'assoluta maestria di Hampson nel "giocare" con la ripetizione e la trance psichedelica, pur all'interno di un recinto di codici e referenze ben delimitato.
Sotteso da un basso pulsante e cupo, il suono dei Main si fa ancor più pesante e desolato, davvero vicino a certe cose dei coevi Godflesh. Nel pezzo finale che dà il titolo alla raccolta, s'iniziano a scorgere segni di una disintegrazione più avanzata, che preparerà allo stacco netto di Firmament I e II e di Motion Pool.

Ecco, nonostante si fregino di una certa originalità, Hampson considerava Hydra & Calm e Dry Stone Feed non tanto delle tappe di preparazione al suono definitivo dei Main, piuttosto come la resa concreta di idee che avrebbe voluto sviluppare con i Loop.

A partire dall'Ep Firmament II musicista londinese inizia ad attuare le proprie visioni, puntando sulla complessità delle textures anziché sulle ripetizioni ossessive dei pattern chitarristici e percussivi. Il rumore di fondo viene portato in primo piano e sottoposto a processi che ne mostrano le stratificazioni. Hampson lavora sul suono cercando di evidenziarne le potenzialità sinestesiche. Lo sviluppo temporale in stretta successione degli eventi viene abbandonato a favore di strutture concentriche, avvolgenti, avvicinando questa musica alla pura sound art.

Il suono divine ancora più astratto in Firmament II, uno degli album meglio riusciti dei Main nonché uno dei sancta sanctorum della musica isolazionista.
Firmament II si compone di due tracce sui 25 minuti di lunghezza ognuna, dove netta è la cesura con i Main del primo periodo, e dove invece paiono emergere riferimenti piuttosto espliciti all'elettronica sperimentale della scuola di Darmstadt e all'isolazionismo post-industriale della scena di Newcastle. Al contempo l'insieme di microeventi improvvisativi - disturbi rumoristici, accenni di distorsione chitarristica, sfrigolii elettronici - dirigono e per certi schiudono le porte alla nascente "scena" glitch di formazioni come Oval, Disc, Matmos, e di etichette come la Mille Plateaux.

La prima traccia, "IX", si snoda secondo una concezione progressiva e spaziale dell'ambient. I 5 minuti iniziali sono saturi di rumorismi che vanno a sovrastare un sottile loop chitarristico. Dopo un breve intermezzo etereo, la seconda parte collassa in un buco nero di clangori metallici e minacciosi fascioni ambientali. La suite si chiude in uno stato di relativa quiete in un loop di scampanelli dalle timbriche quasi angeliche. 

Nonostante i cambi di registro, la seconda suite conserva un andamento piuttosto lineare, tanto che, seppur sottotraccia, se ne può apprezzare un aspetto gradevolmente melodico, pur in un contesto di eventi sonori volti all'alienazione.
Firmament II marca non solo l'inizio della fase migliore dei Main, ma la convergenza di quelle referenze che a vario titolo vanno a definire il suono isolazionista, all'interno di una stagione in cui diversi musicisti (O'Rourke, Total, Labradford, Techno Animal) cercano di darne un'interpretazione personale, e a volte sbilanciata verso una componente piuttosto che l'altra.

Motion Pool
esce pressappoco in contemporanea con Firmament II e più di Firmament II riferisce il passaggio graduale dalla prima fase legata al rock alla seconda fase caratterizzata da un suono ambientale. Le prime quattro o cinque tracce soprattutto rimandano all'avant-rock di Dry Stone Feed, mantenendone inalterati gli elementi strutturali, ovvero la ripetizione ossessiva di pattern chitarristici e percussivi.

I pezzi successivi - "Liquid Reflective", "Heat Realm", "VIII" - sono invece ectoplasmi rumoristici sventrati da una qualsivoglia parvenza di struttura, involuzioni cacofoniche e disordinate che emergono da chissà quale anfratto nascosto della civiltà post industriale. A tratti sembra di ascoltare dei Faust ancor più autistici.  

Hampson non nega di annusare ciò che è nell'aria in quel periodo e di lasciarsene deliberatamente influenzare. Afferma di volersi confrontare con certune situazioni che in quel momento incontravano il suo favore, in particolare Jim O'Rourke, la Table Of Elements e alcune formazioni post-rock della scena di Chicago. Non sfuggirà agli ascoltatori più attenti la somiglianza tra la seconda parte di Motion Pool e alcuni dischi dell' O'Rouke isolazionista, segnatamente Tamper e Disengage.
 

Loop

Licenziato nel 1996 da Beggars Banquet Hz raccoglie 6 Ep a tiratura limitata pubblicati nell'arco di 6 mesi.

Hz è un mostro, il vaso di pandora del suono isolazionista, senza ombra di dubbio uno dei dischi-cardine della musica inglese anni 90. E' sopratutto l'album che va a chiudere la stagione maggiore dell'isolazionismo, che da lì in avanti saprà regalare poche altre novità di rilievo.

Non senza un pizzico presunzione, evidentemente incoraggiata dal riscontro critico positivo, Hampson alza il tiro delle proprie ambizioni, e va ad agire ulteriormente sulle strutture e sui processi compositivi, modificando l'economia del rapporto silenzio/rumore. Il suono di chitarra in particolare si fa dilatato, tenue, così impalpabile da divenire irriconoscibile. Una sorta di corrispettivo post-industriale, nebuloso e pesante, dei synth in trascendenza dei corrieri cosmici. Le atmosfere restano infatti oscure, minacciose. Le evoluzioni seguono traiettorie variabili, a volte lineari, in levare, a tratti invece tese al recupero della ripetizione ossessiva. Nel secondo caso il suono si sviluppa e spesso s'avviluppa intorno a eventi microtonali lanciati a frequenze piuttosto elevate.

Nelle composizioni più rarefatte, le lunghe distese ambientali sono trafitte a scansioni random da clangori metallici martellanti. Come se queste nebulose in lentissimo divenire tendessero a ergersi verso le stelle, rimanendo invece piombate al suolo. Più che musica ambientale, quasi una sorta di sound art infossata per un viaggio al centro della terra.

In verità Hz risulta abbastanza eterogeneo, e riesce nell'intento di rappresentare le diverse anime dei Main. La suite in due movimenti di "Corona" recupera infatti le opprimenti reiterazioni chitarristiche di Dry Stone Feed, seppur con una resa timbrica maggiormente stratificata. Nella prima parte della suite, una filigrana trasparente di ambient in levare cosmico prepara l'entrata di bordate metalliche violente e ossessive, sfumando infine in dissolvenze che sanno di mantra indiani. Il basso riacquista una certa centralità, andando a conferire dinamicità allo straniante morphing rock-ambient che evidentemente, in "Corona", si dà come cartina di tornasole del nuovo percorso di Hampson.

Un basso cupo e roboante è ancora protagonista nella prima e nell'ultima sezione di "Maser", mentre nella parte centrale convivono stridori metallici e ondeggiamenti ambientali impalpabili. In "Haloform", "Kaon" e "Neper" il suono crea antinomie tra silenzi e dissonanze sottilissime, in un gioco di rifrazioni tra elementi che si compenetrano con frequenze diverse. Con un'attenzione certosina agli incastri, e sfruttando al meglio la tecnica dell'overdubbing, Hamspon riesce a creare, in una musica stratificata e "pesante", un monumento imperituro all'incomunicabilità.

Tra i solchi di Hz si celebrano al contempo le possibilità e i punti di debolezza atavici dell'ambient,  da un lato adatta a farsi materia liquida, basica, plasmabile e potenzialmente integrabile in qualunque situazione, ma dall'altro tesa all'afonia (e alla banalità) nelle sue interpretazioni esageratamente calligrafiche.

L'enfasi eccessiva sulla dilatazione, sulla sublimazione del silenzio - che diverrà spesso preponderante fino ad annullare in sé ogni segno/evento - renderà questi suoni stereotipici, dei modelli piuttosto semplici da riprodurre, a patto si disponga del software giusto. In molti, Main compresi, cadranno nell'equivoco.


Dopo Hz, Scott Dawson abbandona. Il cambio evidentemente inizia a dare i suoi frutti nei capitoli successivi della serie Firmament.  Di contro, pur rimanendo l'unico titolare della siglia, Hamspon lascia un certo spazio a Paul Shutze, che su Firmament III fornisce i sample per due dei cinque movimenti. Qui Hampson riduce al minimo le parti "suonate", anche se durante gli oltre quaranta minuti di durata, succede davvero poco. Il suono si fa deficitario di eventi, accentua nel complesso le sue caratteristiche descrittive, rasentando l'entropia nelle ultime tracce. Non è un bel sentire, nel senso che ci si annoia parecchio

Alcune parti di chitarra di Firmament III erano state registrate nelle medesime sessioni di Hydra e Calm, poi manipolati per l'occasione, a testimoniare l'estrema facilità di quel tipo di processi compositivi, come basti davvero poco per produrre dei simulacri di musica ambientale. Rivela Hampson: "With Firmament III the funny thing was that nearly all the guitars that are on that record, and there aren't many because we went completely against everything and hardly used any guitars on that piece of music, all the guitar sounds had been generated from pretty much our first recording sessions at the same time we were recording the Hydra and Calm EP's. We went right back to the start and used all the bits we never used in the first place and completely changed the context".

Va addirittura peggio nel capitolo conclusivo della serie. Firmament IV rappresenta l'approdo estremo della fascinazione per le sculture di suono, per i paesaggi interiori, per le potenzialità del suono chitarristico come strumento di sound painting.  

In effetti, qui la chitarra, pur irriconoscibile, funge come un vero e proprio sintetizzatore, coadiuvata da pedali, filtri e poco altro.   

Il suono dei Main perde di complessità, abusa di silenzi, si fa greve ma scarsamente stratificato. Hampson cerca nuove direzioni integrando componenti aleatorie, giustapponendole però in modo semplicistico. Le distese ambientali si fanno imperscrutabili, eccessivamente diluite. Non bastano  microeventi frammentati come sfrigolii, lame improvvise di rumore, nebulose kosmische a  riscattarne la monoliticità.

Il basso pulsante e le sferragliate chitarristiche di "Outer Corona" - che riprende per l'appunto i temi della "Corona" contenuta in Hz - testimonia di un Hampson evidentemente cosciente dell'eccessiva rarefazione della serie Firmament, soprattutto degli ultimi due capitoli.

Registrato dal vivo  in occasione del 3eme Festival Musiques Ultimes di Nevers, in Francia, Deliquescence è un disco molto buono, l'ultimo in cui i Main abbiano effettivamente qualcosa da dire. Pare che per l'esibizione Hampson utilizzasse parti pre-registrate, e le riadattasse al nuovo contesto. Ne esce un suono potente, cupo, discretamente vario. Vengono recuperati i ritmi e i feedback di chitarra,  e anche le schegge di rumore random paiono avere in senso.
Oltre a rappresentare uno dei pezzi migliori dei Main, la bellissima "Valency" testimonia della rinnovata inclinazione di Hampson verso i "pieni", le stratificazioni, l'alternarsi di timbriche diverse.
Tuttavia è un episodio isolato. Accantonato il discorso sull'isolazionismo, e confuso tra una moltitudine dei cloni che facevano del suono minimale una bandiera più che una possibilità, le musiche di Hampson arrivano a ricoprire un ruolo marginale. 

Le due suite spezzate in segmenti di Tau fervono d'assenza. La rarefazioni di Firmament IV si diradano fino a trasformarsi in filigrane sottilissime, reminiscenze nemmeno troppo vive di una musicalità perduta. I silenzi sono preponderanti. Tuttavia si tratta di silenzi gratuiti, di tratti estesi e soprattutto isolati di suite che il contesto non riesce a trasformare in tessiture potenzialmente aperte ad accogliere sfumature tematiche o cambiamenti di registro. Anzi, dopo gli intervalli di silenzio questa (non) musica si ripresenta esattamente uguale a se stessa, ovvero sostanzialmente monca di quell'espressività che aveva caratterizzato l'opera dei Main anche nei dischi più minimalisti. 
Il manierismo raggiunge il suo massimo nell'Ep Transiency e in Exosphere (Mort Aux Vanches), dove, a fronte di una maggiore densitàdi suono, Hampson si mostra piuttosto confuso, continuando ad accatastare eventi sonori senza un minimo di fluidità.

Se queste ultime prove ne confermano il calo di creatività il disco conclusivo sotto la siglia Main è invece un canto del cigno più che degno. Le due lunghe suite di Surcease tendono verso l'elettronica "alta" di un Morton Subotnick, vista attraverso le lenti deformanti e cupe dei Nurse With Wound periodo "Thunder Perfect Mind". I 24 minuti di "Parallax" sono densi, intensi, a tratti persino crudi, se non violenti. Dopo 16 minuti la suite arriva al suo apice emozionale tra una selva di nebulose dark-ambient, per poi sfumare in una coda di rarefazioni granulari. Placida, diluita ma altrettanto oscura, "Moraine" ne ricalca lo svolgimento e i cambiamenti di ritmo.  Qui le rarefazioni ambientali connotano scenari malsani, spettrali, mentre gli occasionali rumorismi lanciati a frequenze altissime dimostrano la familiarità di Hampson con qualcosa di molto vicino ai power electronics. Viste le premesse e i risultati, osare di più in quella direzione avrebbe presumibilmente giovato alla longevità e alla varietà della proposta.

Sette anni dopo, Hampson riaffila le sue armi e resuscita il marchio Main, arruolando al suo fianco per la terza incarnazione dell'act niente meno che Stephan Mathieu, altro big del minimalismo elettronico da poco convertitosi con successo al mondo dell'ambient music. In Ablation, assieme alla formazione, a variare di nuovo è il soundworld: dopo l'isolazionismo post-psichedelico al fianco di Dowson e la successiva deriva avant, siamo qui di fronte ad un disco di puro ambient elettro-acustico, che mantiene le coordinate tanto care all'act inquadrate però da una nuova prospettiva. Il contatto con l'universo sonoro post-Hz è presente e tangibile nell'utilizzo di microstrutture, ora però decisamente più variopinte, intrecciate in un groviglio in continua evoluzione e legate da un fondale di flussi e dilatazioni. Quattro suite compongono il disco: “I” è di sicuro la meno riuscita fra rumori nel vuoto, samples da GRM ed echi lontane. In “II”, Mathieu entra in gioco donando i suoi microsound e Hampson recupera le tessiture di campioni delle sue migliori prove soliste: qui nascono i nuovi Main, dapprima mantenendosi freddi e desolati, per poi introdurre un lontano terpore dronico.
In "III" un autentico festival di nebulose rarefatte procede assorto, avvicinandosi, sfiorando e allontanandosi da fruscii delicati, spirali melodiche e field recordings, acquisendo a ogni contatto accennato una parte infinitesimale degli stessi. Questo processo è la ricetta caratteristica del loro sound, che trova il compimento definitivo nel manifesto-capolavoro di "IV", dove Mathieu distende pure la sua anima più atmosferica in 10 minuti di intensa desolazione ambientale. Grazie all'elevatissima qualità di tre brani su quattro, nonché alla bontà di una nuova formula che si dimostra decisamente più efficace, Ablation risulta essere il miglior disco dei Main dai tempi di Hz.

Robert Hampson + collaborazioni + altri progetti

Indicate (Jim O'Rourke + Robert Hampson) - Whelm

Robert HampsonIndicate è la collaborazione tra Jim O'Rourke e Robert Hampson, due dei maggiori teorici del suono isolazionista, nel periodo di massima esposizione.
Concepito al Thirst Studios di Londra, Whelm vede l'interazione avvenire secondo una metodologia che porta alla combinazione di sample analogici e field recordings. Più che un disco di Hampson o di O'Rourke, Whelm sembra partorito dalla mente di Dan Burke degli Illusion Of Safety (con i quali O'Rourke collaborò). Tre tracce di ambient pesantissima attraversate da onde radio e frequenze aliene, da variazioni tonali sottilissime, da crepacci oscuri che sembrano risucchiare ogni parvenza di musicalità. Più che isolazionismo, questo è puro autismo, assenza assoluta di volontà comunicativa.

Gilbert/Hampson/Kendall - Orr


Molto più commestibile la collaborazione tra Robert Hampson, Bruce Gilbert dei Wire e l'ingegnere del suono  Paul Kendall, noto per aver messo mano su alcuni dischi di Depeche Mode e Nitzer Ebb tra gli altri. Hampson si diceva fan dei Wire e dei Dome, e in Orr ha modo di mettere in pratica quei processi di decostruzione che caratterizzavano il suono della band di Graham Lewis e Bruce Gilbert.
Registrato in pochi giorni, Orr è un montaggio quasi collagistico di tape loop, feedback chitarristici, beat ossessivi e sample vocali, ideale continuazione del suono sperimentale di "Dome 3" e "4". Si dimostra importante nell'economia del suono il lavoro di Paul Kendall, che riesce a mixare efficacemente i landscape minaciosi di Hampson e le schegge noise di Gilbert in un impasto coerente. Orr è un monolite scuro, scostante, urticante a tratti, limitrofo per capacità di evocare paranoie alle cose migliori dei Godflesh. Al contempo riesce, però, a tenere lontana la noia, grazie all'alternanza di pezzi ambientali, (quasi) noise-industrial e ritmiche sostenute.

Chasm/Bannlust - Split Series #5

Nello split numero 5 della serie FatCat dedicata all'elettronica sperimentale e dintorni, Robert Hampson si presenta sotto il monicker Chasm, e divide il disco con Marco Fisher alias Bannlust. Uscita certamente minore, che però è interessante per comprendere come la cifra del suono di Hampson fosse potenzialmente molto più sfaccettata di quanto egli non riuscì a realizzare concretamente. I tre pezzi dello split sono esperimenti, tentativi non del tutto riusciti di confrontarsi con le ritmiche minimali, quasi come una sorta di Plastikman rallentato e bolso. Certo, su queste sonorità avrebbe potuto lavorare maggiormente, e tenersele come ulteriore asso nella manica, ma tant'è.

Antenna Farm/Main - AF_M

Questo split fa parte della "Brombron Series" della Staalplaat, in cui i musicisti furono invitati a passare una settimana insieme e a lavorare a stretto contatto all'Extrapool studio di Nijmegen. Hampson e gli Antenna Farm (David Howell e Alastair Leslie) utilizzano una discreta quantità di strumenti - dalle chitarre ai microfoni a contatto, passando per i field recordings catturati nelle vicinanze dello studio - registrando suoni direttamente sul Dat, editandoli una prima volta, senza sottoporli successivamente ad alcuna manipolazione.  Il risultato di questa metodologia è un'elettronica ostica, quasi per nulla ambientale, pregna di scricchiolii, short wave aliene, modulazioni a frequenze variabili in unità di tempo ristrette. In definitiva, però, nulla per cui strapparsi i capelli.

Comae (Robert Hampson + Janek Schaefer) - Comae


Il monicker Comae designa la collaborazione tra Robert Hampson e il sound designer Janek Schaefer, noto per le sue sperimentazioni sul rapporto suono e spazialità. Licenziato dall'etichetta viennese Rhiz, il disco si snoda in otto movimenti che riprendono l'ambient da internamento del progetto Indicate e della serie dei Firmament, allargandone la tavolozza espressiva in un suono certo pesante ma maggiormente arioso. Il focus si sposta dalla chitarra al laptop, e, merito probabilmente di Schaefer, il duo riesce a integrare i silenzi nelle strutture sonore in modo fluido.

Fennesz/Main - Split Series #15

Lo split tra i Main e Fennesz uscì nel 2002, a ridosso di Tau e del capolavoro del compositore austriaco, "Endless Summer". Va da sé che il disco risenta dei diversi momenti dei due musicisti. Mentre Hampson s'avviava al declino, Fennesz era nel suo momento di maggiore creatività ed esposizione. Allora i tre pezzi del musicista austriaco sono una meraviglia, epifanie eteree e sognanti, moment bienheureux di spiagge incantate. In verità, nonostante un Hamspon in disarmo, i suoi tre pezzi non sono nemmeno tanto male. "Rive Pt. 2" soprattutto, nella sua ariosa ricerca di uno squarcio di luce, sembra fare il verso proprio alle suite elegiache di Fennesz.

Robert Hampson + Steven Hess - St

Steven Hess è un percussionista che ha curato i ritmi e le textures per molte formazioni importanti, basti ricordare i Pan American, i Fessenden e gli On. Il frutto della collaborazione è un disco in cui i microbeat percussivi conferiscono una dinamicità insperata alle strutture statiche di Hampson. Oltre ciò, c'è poco altro da sottolineare, se non il consueto florilegio di ronzii, short wave radio, tappeti granulari e voragini ambiantali. Insomma, cose sentite e strasentite.

Robert Hampson - Maps

Pubblicato gratuitamente sul suo myspace, Maps è un disco assolutamente trascurabile. Le trenta tracce sono state pubblicate una alla volta sequenzialmente, tuttavia secondo Hampson si presterebbero a essere ascoltare in modo randomico...

Robert Hampson - Vectors

Approdo naturale per la musica di Hampson è la Touch, che sull'elettronica sperimentale ha costruito gran parte della propria immagine. Commissionato dall'importante Grm (Groupe De Recherches Musicales), creato nel 1958 da Pierre Schaeffer, e nel cui studio Hampson ha avuto modo di lavorare, Vectors (2009) è un'immersione a trecentosessanta gradi nell'elettroacustica.  
Ma soprattutto è il disco che non t'aspetti da un personaggio le cui quotazioni erano date nettamente al ribasso. Nello specifico, Hampson è stato capace di combinare in modo fruttuoso il suo background avant-rock con il rigore dell'elettoacustica e della prima tape music, generando suoni di grande suggestione e soprattutto di grande varietà. Il concept ispiratore di Vectors è l'astronomia, passione del musicista inglese sin ai tempi dei Main.
La seconda traccia, "Ahed - Only The Stars", dedicata infatti all'astronauta Chuck Yeager del progetto spaziale Mercury (risalente agli anni 60), è un'affascinante immersione nello spazio profondo, tra frequenze aliene, rumori improvvisi di asteroidi in collisione, nebulose radioattive. Inquietante l'ultima parte della suite, che sprofonda in un vuoto ambientale fesso dai lamenti digitali dei tanti Hal 9000 dispersi nell'eliosfera. Strettamente connessa  a tematiche sci-fi anche la conclusiva "Dans Le Lointain". Costruita a partire da registrazioni di short wave radio risalenti ai primi anni 80 - manipolate e "ingrassate" con effetti digitali - la suite brilla per la sua ricchezza texturale, e per i cambi di registro fluidi tra le diverse sezioni. Per non parlare di "Umbra", che tra suoni granulari, rarefazioni metalliche, e loop di campane in lontananza, racconta di mondi ostili e creature deformi
Davvero, Vectors è un disco magnetico, capace di estraniare dal mondo esterno, soprattutto se ascoltato di notte e con gli auricolari.

Robert Hampson - Répercussions

Il terzo disco di Hampson si colloca nell'iter (ormai usuale) di scambio d'organico tra la Touch e la Editions Mego di Peter Rehberg. L'antefatto è già importante al fine di inquadrare questo Répercussions: dai sentieri cosmici di Vectors, improntati perlopiù sulla ricerca di un'estetica, si passa alla pura improvvisazione d'avanguardia, entrambi trademark delle rispettive etichette.
L'album raccoglie è, in sostanza, un riassunto dell'opera avanguardistica di Hampson, che ha usato questi brani, prima ancora di inciderli, in altrettante performance live tra il 2008 e il 2012.
La title track è un'avvinghiante odissea concreta - composta non a caso su commissione del GRM per un esperimento dal vivo di diffusione sonora - e che si muove tra onde soniche à-la-Stockhausen, pianoforti in dodecafonia, metallofoni sinistri e occasionali sprazzi di atmosfera, il tutto modificato (ma neanche troppo) e remixato attraverso hardware analogici (moduli di synth, generatori di onde sonore, tape loop). "De la Terre à la Lune" è un assemblaggio di vecchi campioni sonori, alcuni risalenti addirittura alle session di "Vectors", mescolati, compattati e "digitalizzati" in venti minuti di incubi cosmici - sfuriate noise, ronzii, vuoti sonori, droni oscuri - al fine di fungere da colonna sonora per uno spettacolo multimediale del Planetario di Potiers. La conclusiva "Antartica Ends Here" - già apparsa in uno split con i Cindytalk - è l'unico vero lampo di genio del lavoro: una nota di pianoforte viene dilatata mediante una field recording di una foglia di Bamboo mossa dal vento, fino a rassimilare il suono di un violino, avvicinandosi con forza alle trame cameristiche di Soliman Gamil.
Répercussions non è il nuovo album di Robert Hampson, ma un documentario di difficile digestione sul versante meno noto della sua opera recente.

Robert Hampson - Signaux/Suspended Cadences

Due Lp distinti (benché musicalmente contigui), ciascuno con il proprio numero di serie e il proprio artwork, entrambi contenenti due suite da circa venti minuti ciascuna, compongono il nuovo progetto Signaux/Suspended Cadences (2012).
Il primo dei due dischi, Signaux, sviscera in tre quarti d'ora scarsi l'attuale proposta avant-garde di Hampson, mantenendosi su coordinate affini a quelle di Répercussions, con il caos organizzato pronto però a farsi da parte in favore delle più classiche (e scontatissime) odissee di bleep, sample e sinusoidi. Esplicativi in tal senso sono i diciotto minuti di “Signaux 1”, un'escursione minimale e sussurrata tra echi del GRM e loop spigolosi precedentemente composta per il Planetario di Poitiers (e dunque figlia delle stesse sessions di “De La Terre A La Lune”). Il medesimo clima viene riproposto in “Signaux 2”, attutito qua e là da occasionali ricorsi a droni fluttuanti e sospesi, in una formula che vorrebbe avvicinarsi al Mika Vainio di “Fe3O4” senza però possedere una tale forza attrattiva.
Più interessanti e peculiari risultano invece essere i due variegati serpentoni di Suspended Cadences, vere e proprie opere di fusione tra ambient e avanguardia, entrambe totalmente improvvisate e registrate in presa diretta senza l'ausilio di software audio. A caratterizzare la prima metà è un'atmosfera cupa e fredda, che mescola Philip Jeck e Seirom fra passaggi quieti, droni alienati e chitarra trattata. Nella seconda, che propone una variazione sul medesimo tema, Hampson si concentra esclusivamente sul guitar-processing, lasciando da parte modulazioni e campionamenti in venti minuti di riverberi e distorsioni à-la-Ben Frost.

Nonostante la tipologia della pubblicazione imponga tale convenzione, risulta pressoché impossibile considerare Signaux e Suspended Cadences come due lavori figli di uno stesso spirito creativo, data la notevole differenza di stile e, soprattutto, di qualità, in totale favore del secondo. Sembra quasi che Hampson abbia voluto raccogliere sotto un tetto unico le due facce di una stessa medaglia, che risultano però troppo squilibrate e diverse per riuscire a convivere come auspicato dall'operazione. Volendo tralasciare quest'ultimo aspetto, ci restano tra le mani un lavoro anonimo e uno notevole, impegnati rispettivamente nel riciclo di cliché da tempo statici e nell'ennesimo elogio all'improvvisazione d'avanguardia, nel complesso comunque sufficienti ad appagare dello stretto indispensabile anche i palati più esigenti.
Apprezzabile quanto discutibile.

Ecco, giusto due parole a conclusione del discorso. La musica di Hampson è parte importante di un periodo precisamente caratterizzato, inquadrabile all'interno di tendenze ben delimitabili. E con esse si relaziona in un legame inscindibile. Sprovvisto della cultura enciclopedica di un personaggio come Jim O'Rourke o della poliedricità di un Kevin Martin, il musicista inglese non è riuscito a "riciclarsi" in altre vesti. Anzi, anche gli ultimi lavori, poco significativi (Vectors escluso), dimostrano la testardaggine di un uomo pervicacemente abbarbicato su un'idea precisa e immutabile di suono. Certo è però che i dischi-capolavoro, ma soprattutto il percorso coerente e per certi versi esemplare che ha tenuto, nessuno potrà mai disconoscerglieli.

Contributi di Matteo Meda ("Ablation", "Répercussions", "Signaux/Suspended Cadences") e Paolo Ciro ("Array 1", "Sonancy")

Robert Hampson - Loop - Main

Discografia

LOOP
The World In Your Eyes (Head, 1987)

7

Heaven's End (Head, 1987)

7

Fade Out (Chapter 22, 1988)

8

A Gilded Eternity (Situation Two/Beggars Banquet, 1990)

7,5

Wolf Flow (Peel Sessions 1987-1990) (Reactor, 1992)

Dual (Reactor, 1992)

Array 1 (Ep, Reactor, 2015)

6,5

Sonancy(Cooking Vinyl, 2022)

7

MAIN
Hydra-Calm (Situation Two, 1992)

7,5

Dry Stone Feed (Beggars Banquet, 1993)

7

Firmament (Beggars Banquet, 1993)

7

Firmament II (Beggars Banquet, 1994)

8

Motion Pool (Beggars Banquet, 1994)

8

Hz (Beggars Banquet, 1996)
9
Firmament III (Beggars Banquet, 1996)

5,5

Deliquescence (Beggars Banquet, 1997)

7

Firmament IV (Beggars Banquet, 1998)
5
Tau ((K-RAA-K)3, 2002)

4

Transiency (Tigerbeat6, 2003)

4

Exosphere (Mort Aux Vanches) (Mort Aux Vanches, 2004)

5

Surcease (N-REC, 2006)

7

Ablation (Editions Mego, 2013)

7,5

ROBERT HAMPSON

Robert Hampson + Steven Hess (Crouton, 2006)

5

Maps (No Label, 2007)

4

Vectors (Touch, 2009)

7

Répercussions (Editions Mego, 2012)

6

Signaux/Suspended Cadences(Editions Mego, 2012)

6,5

COLLABORAZIONI
Indicate - Whelm (Touch, 1995)

6,5

Gilbert/Hampson/Kendall - Orr (Mute, 1996)

7

Chasm/Bannlust - Split Series #5 (FatCat, 1999)

5,5

Antenna Farm/Main - AF_M (Staalplaat, 2000)

5,5

Flying Saucer Attack/Main/White Winged Moth - (Mort Aux Vanches) (Mort Aux Vanches, 2000)

Comae - Comae (Rhiz, 2001)

6,5

Fennesz/Main - Series #15 (FatCat, 2002)

6

Pietra miliare
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