Techno Animal

Techno Animal

La carne, l'anima e le macchine

Il duo formato da Justin Broadrick e Kevin Martin si è trasformato nella continua ricerca di nuovi equilibri tra la potenza fisica, l'esplorazione della profondità dell'anima e la passione per l'immaginario futuristico, distopico e meccanico tipico di fine millennio

di Antonio Silvestri

L’inglese Justin Broadrick ha vissuto varie vite musicali, tra le quali è doveroso ricordare almeno l’esperienza di industrial-metal estremo Godflesh e quella, successiva e complementare, dei Jesu, che proiettano il metal in un mondo etereo e mistico, dove il drone conduce alla rivelazione. Nella sua lunga e articolata carriera, però, si ricorda anche una breve esperienza nei Napalm Death, per i quali ha contribuito all’epocale “Scum” (1987) e, tra le altre e assai diverse avventure musicali, un curioso esperimento in coppia con il produttore inglese Kevin Martin, già conosciuto come The Bug e anche lui attivissimo sotto vari nomi, intitolato Techno Animal.
La fusione tra suoni ambient, dub, metal, jazz e industrial, amalgamati attraverso una logica spesso allucinata e claustrofobica, ha trasformato il duo Techno Animal in una delle più creative esplorazioni avvenute nella musica elettronica tra gli anni Novanta e l’inizio del decennio successivo. Per loro è utilizzata anche l’etichetta illbient, a identificare una fusione di tecniche di sampling hip-hop con suoni ambient e dub definita per la prima volta da Dj Olive e Dj Spooky. Attraverso un gruppo di album sperimentali, orientati a composizioni lunghe, spesso visionari e ipnotici, si sono imposti come un esempio di composizione senza confini, orientata a esplorare le potenzialità sonore del campionamento e della composizione digitale.
 
Dio contro la carne: "Ghosts"

corpo1Prodotto dallo stesso Broadrick, che coltiva anche questa carriera parallela, l’esordio Ghosts (1991) si inserisce di diritto tra gli album più spaventosi del periodo. Nell’imponenza dei suoi 72 minuti totali, è dominato da tre brani colossali e due appena più contenuti nelle dimensioni, attorno ai quali si sviluppano alcuni episodi più brevi.
Il primo degli otto brani in scaletta, "Burn", è un principio del massacro che attende l’ascoltatore: neanche tre minuti di assalti industrial-metal martellanti, con pause di tensione e un grido ripetuto in loop. È una presentazione ideale per il primo pezzo colossale, "Walk Then Crawl", che si ferma poco prima del dodicesimo minuto e propone un ciclico, ossessivo, nausante ondeggiare di un beat metallico attorniato da suoni inquietanti, con un muro sonoro che si ispessisce nel finale fino a travolgere l’ascoltatore in una bolgia infernale, una distopia meccanica che lascia senza fiato e che si scioglie in un riflesso cosmico degno delle profondità siderali dei Tangerine Dream.
La più breve "White Dog" è un lavoro sui loop che concede qualche pausa ai timpani ma si chiude comunque con un sample di Hitler che prosegue in "Freak Fucker", meno di quattro minuti senza beat dove dominano riverberi ed echi elettronici. Dopo oltre 22 minuti di terrore sonoro, il jazz atmosferico e liminale di "The Dream Forger" è puro balsamo per la psiche, una flebile melodia che costruisce una danza senza peso dai toni onirici.
Segue una coppia di composizioni ciclopiche. La prima, "Tough Cop/Soft Cop", intreccia ritmi e chitarre distorte per oltre undici minuti, usando le voci riverberate in modo orrorifico e dei fiati deformati, simili al free-jazz di Albert Ayler, come a imitare la danza di flauti ultraterreni che Lovecraft immagina che sia suonata per non risvegliare Azathoth, “il dio cieco che gorgoglia e bestemmia al centro dell'Universo”. E proprio dalla figura divina riparte il carillon spettrale "God vs. Flesh", che supera i 23 minuti complessivi: una nuvola di suono, che fluttua tra rintocchi notturni e droni eterni, si scopre un gorgogliante magma dopo oltre un quarto d’ora, ed è come se si accedesse nel bel mezzo di una sessione di meditazione a un’altra dimensione, estranea e vertiginosa; alla lunga, predomina però una lugubre malinconia, spazzata via dall’esplosione riverberata all’infinito del finale, un’apparizione ectoplasmatica di travolgente intensità emotiva, una visione del divino che stordisce, abbaglia e disorienta nella sua incomprensibilità e che prosegue nella conclusiva "Spineless".

Ghosts tiene fede al suo titolo e sommerge l’ascoltatore di immagini mentali, spesso angoscianti, desolanti ed enigmatiche. La stazza imponente dell’album, nonché di alcune composizioni specifiche, conduce i più coraggiosi in uno stato di trance oscura e irrequieta, che porta assai lontano dai suoni industrial-metal su cui poggia buona parte dell’opera. Chiaramente destinato a un pubblico (auto-)selezionato, è un esordio coraggioso e sperimentale, senza compromessi e con poche concessioni comunicative: quasi niente è meno che criptico, a tratti ostile e a tratti immaginifico, alle volte anche entrambe queste cose contemporaneamente.

Macchinari onirici e palpebre pesanti: "Re-Entry"

corpo2Se Ghosts è ancora un lavoro di industrial-metal per metà della sua durata, Re-Entry (1995) è un album soprattutto dub, pur con quel twist sperimentale che il progetto ha messo in primo piano da subito. Ancora una volta, confluiscono in queste composizioni fonti d’ispirazione molto diverse. Le dimensioni complessive dell’album superano qualsiasi idea di formato standard: dodici brani per 148 minuti di musica, divisi in due dischi intitolati rispettivamente “Dream Machinery” e “Heavy Lids”.
Il mago dell’onirico in musica Jon Hassell collabora nella lunga “Flight Of The Hermaphrodite”, una danza esotica dal futuro remoto che evolve in un funk meccanico e quindi in un ballo allucinatorio. Se l’opener giustifica i suoi undici minuti di durata con un’evoluzione avvincente, che sviluppa in modo creativo le idee iniziali, questo non si può dire di altri brani, come "The Mighty Atom Smasher", dieci minuti che si affidano fin troppo al groove e limitano ai margini gli esperimenti sull’arrangiamento e gli effetti, soprattutto nella coda aliena e straniante, o la fin troppo prolissa “Demodex Invasion”, 19 minuti di cui i primi faticano a giusitifcarsi nella loro interezza e fungono soprattutto da preludio per un’assordante esplosione minimalista poi rimodulata in un lungo baccanale psichedelico, una specie di Sister Ray post-industrial con una coda prolissa.
Il funk a passo pesante di "Mastodon Americanus" imbastisce un motivetto ai limiti del grottesco e del clownesco, disturbato da fiammate elettroniche, che sfocia naturalmente nei dieci minuti di "City Heathen Dub", ridotta dopo un paio di minuti a un synth-bass lontano e un groove di piatti e quindi ricostituita come un funk galattico, progressivamente più distorto. Lo scenario da incubo dell’esordio, apparentemente abbandonato, ritorna prepotentemente nel 14 minuti di "Narco Agent Vs. The Medicine Man", un dub ossessivo disturbato da pulsazioni minacciose, bave elettroniche, droni lugubri.
Il secondo disco, “Heavy Lids”, è decisamente più ambient e oscuro: "Evil Spirits/Angel Dust", di ben dieci minuti, è una minacciosa trenodia cosmica per rintocchi sinistri; "Catatonia", che sfiora i 16 minuti, abbandona l’ascoltatore in un paesaggio senza vita, pieno di riverberi minacciosi, con un loop di batteria vagamente jazzy che si contrappone ai miasmi elettronici imperanti, almeno finché la composizione non collassa in una pulsazione galattica degna di Klaus Schulze; "Needle Park", altri 11 minuti, rallentata fino a deformarsi e sciolta in un fumoso funk-jazz dell’oltretomba, conduce alla più informe "Red Sea", 11 minuti di synth che rifrangono nello spazio, abusando un po’ della pazienza dell’ascoltatore.
L’attesa è stata lunga ma la ricompensa si chiama "Cape Canaveral" ed è il compimento del tuffo nell’abisso iniziato con il secondo disco, senza più un ritmo a fungere da guida. Le lunghe note che si alternano, in uno spazio senza confini e seguendo una curiosa concezione del tempo, instillando tensione e attesa nella mente dell’ascoltatore. È una sinfonia occulta, una liturgia sconfinata che ha pochi paragoni in termini di angosciante bellezza, tra cui i “fuochi fatui” del già citato Klaus Schulze.
Il compito della conclusiva "Resuscitator" è di far scorgere cosa si celi oltre l’inquietante paesaggio senza vita in cui l’ascoltatore è precipitato da quasi mezz’ora, suggerendo sul finale un qualche spiraglio, quantomeno l’opportunità di un cambiamento, una trasformazione e, in definitiva, la vita.

Re-Entry fa poco per accogliere l’ascoltatore. Il suo sound, più digeribile di quello proposto da Ghosts, è portato all’ascoltatore attraverso brani lunghi o lunghissimi, tutti strumentali e astratti, che totalizzano quasi due ore e mezzo di musica. Se alcune composizioni si attardano fin troppo, questo doppio album trionfa quando si lancia senza rete verso l’immaginifico, l’allucinatorio e l’ossessivo. Richiede all’ascoltatore la pazienza di un lungo film senza dialoghi e lo ripaga con alcune lunghe scene di indescrivibile magnetismo.

Buddha atomico: Ep, remix, split e vampiri d'oro

corpo3_01Segue un periodo di pubblicazioni eterogenee e complessivamente minori, ma non per questo immeritevoli di una panoramica.
Babylon Seeker (1996) è un Ep di cinque brani distribuiti in 47 minuti, quindi con un minutaggio che per altri sarebbe proprio del formato album. L’aggressiva “Nerve Agent Vs. The Back Breaker” riconfigura i Techno Animal come un progetto big-beat senza perdere del tutto l’aspetto industrialoide. Il dub inquietante di “Zealot”, tra mille riverberi, diventa immaginifico soprattutto nel finale senza beat. “Sugar Ray” opta per una più banale techno atmosferica poi ibridata con un ritmo più articolato e con bave di synth. L’ultima parte dell’Ep è occupata dalla plumbea “Heavy Water” e un suo remix più vivace e (fin troppo) lungo.

Unmanned (1996) è più aggressivo e caratterizzato da arrangiamenti più rumorosi e affollati. Di fatto, è un Ep di due brani, spezzati in due parti complementati: “Intercranial (Robosapien)” è un esercizio di distruzione di un semplice groove, tramite l’aggiunta di dosi esagerate di effetti che si contrappone alla più astratta avventura cosmico-cacofonica di “Intercranial (Anti-Matter)”, su un beat hip-hop rallentato; “Lost Transmission Of The Ill Saint (Ultrasonic)” conduce l’hardcore-hip-hop in un incubo paranoico mentre “Lost Transmission Of The Ill Saint (Anti-Body)” lascia che la componente dark-ambient e industrial prenda il sopravvento e, cosa abbastanza rara per i Techno Animal fino a questo momento, utilizza la voce, pur filtrata fino a rendersi quasi incomprensibile.

Demonoid (1997) è ancora più orientato all’hip-hop, come dimostra la title track e come confermano “Oil King”, la bombastica “Mindbender”, vicina anche al big-beat, e la conclusiva “Atomic Buddha”.

Se Babylon Seeker è ancora in continuità con il secondo album, Unmanned e Demonoid, più brevi e immediati, per i loro standard, sono manifestazioni di un cambiamento sostanziale nel sound dei Techno Animal. Dall’esordio asfissiante Ghosts si è passati a una musica che, pur nella sua rumorosità e aggressività, ha integrato sempre maggiori dosi di groove.
Il brano che apre Phobic, un ulteriore Ep del 1997, è quanto di più vicino a una canzone abbiano mai proposto: “The Myth/Illogical” potrebbe essere un brano trip-hop se non avesse un beat distorto e non fosse cantata con l’entusiasmo di un moribondo. “Fistfunk” è praticamente solo un groove. “Toxicity” non è troppo diversa, semplicemente è distorta fino a risultare mostruosa. Solo la conclusiva “Needle” ritorna verso la sperimentazione, giocando con la puntina del giradischi per deformare il suono e distorcere il tempo.

Buona parte di questo materiale è raccolto sulla compilation Techno Animal Versus Reality (1998), contenente anche alcuni remix e inediti. Il dub thriller “Deceleration” e la furiosa “Baka”, un industrial-hip-hop irrequieto, sono i momenti salienti prima della doppia versione di “Atomic Buddha”, qua anche remixata da Alec Empire nel suo tipico stile ipercinetico.
Sempre nel 1998 arriva anche la compilation di rarità Radio Hades, quasi settanta minuti che riassumono la tendenza a sperimentare su ritmi tra dub e hip-hop emersa dopo Re-Entry. Tra i vari brani, il tribalismo distorto e assordante di “Phantom Tribe” risulta l’esperimento più azzardato.

Se i Techno Animal compaiono in molte compilation di autori vari, sulle quali sorvoleremo, ci pare doveroso citare tre collaborazioni. Iniziamo parlando dello split album col duo berlinese dub-techno Porter Ricks, Symbiotics (1999), che amalgama lo stile per ottenere un flusso sonoro alieno, meccanico e futuristico, non troppo distante dagli Autechre più gelidi, totalmente strumentale.
Sono brani spesso ossessivi, come “Bio Morphium” (dei Techno Animal), o lugubri, come l’informe “Phosporic” (dei Porter Ricks). L'episodio maggiore è probabilmente a firma del duo berlinese: i 13 minuti di “Ionic” sono un viaggio di techno minimale da togliere il fiato, costruito su ritmi frenetici e synth che si rincorrono incessantemente, minacciati dal rumore.

Sempre nel 1999 il duo Broadrick e Martin pubblica anche un breve Ep con il nome White Viper, Crawler/ Into The Light, due brani di techno futuristica e incalzante.
Nel 2000 arriva anche Megaton/ Classical Homicide in coppia con i Dälek: un brano a testa, presente anche in una versione remix curata dai contitolari.

Chiudiamo questa sezione su pubblicazioni brevi e collaterali con l’esperienza Curse Of The Golden Vampire, un progetto che vede i due Techno Animal insieme al già citato Alec Empire in The Curse Of The Golden Vampire (1998), un album che unisce il dub-industrial-hip-hop con qualcosa dell’energia del digital hardcore, senza in realtà spingere mai fino in fondo sull’acceleratore.
Il beat assordante di "Caucasian Deathmask”, con fiati jazz spaccatimpani, è un modo efficace per presentare un progetto che anche nella successiva "Escape The Earth" esagera nei volumi, deformando i loop fino a renderli irriconoscibili e glitchy.
Il più canonico industrial-hip-hop di "Substance X", che deflagra in un disturbo sonoro finale, e "Low-Tech Predator", con minacciosi interventi di chitarra metal, conducono al groove disturbato da fischi e riverberi di "Anti-Matter": sono brani che intrattengono senza stupire, un po’ troppo prolissi, se si considera quello che offrono in termini di creatività. "Kamikaze Space Programme" potrebbe riassumere, nei suoi otto minuti, buona parte dell’album con un beat hip-hop che viene risucchiato da rumori apocalittici.
Il più caotico esempio di digital-hardcore misto dub di "Temple Of The Yellow Snake" è quello in cui la mano di Alec Empire sembra più forte, mentre la conclusiva "Ultrasonic Meltdown" utilizza nove minuti e mezzo per stordire con un ritmo meccanico e assordante, circondato da suoni minacciosi e lasciato degradare in una sinfonia di fischi spaccatimpani.

Il progetto sarà riesumato di fatto dai soli due Techno Animal per un secondo album, Mass Destruction (2003), con tendenze più spiccatamente metal e grindcore, paradossalmente assai più vicino a quanto ascoltato negli Atari Teenage Riot. La miscela infernale che è proposta all’ascoltatore è la cosa più spaventosa che i Techno Animal hanno composto dai tempi di Ghosts, un assalto sonoro scomposto, feroce e capace di unire urla e ritmi meccanici, sangue ed elettronica impazzita. Potrebbe essere un progetto totalmente diverso dall’album precedente, visto che contiene brani assai più brevi e strutturati in modo completamente diverso: infuocate, assordanti, caotiche mattanze che colpiscono all’impazzata usando gli strumenti del terrorismo sonoro e descrivendo un quadro psichico disastroso.
“Total Annihilation Of Self” apre con un assalto spaventoso, fra harsh-noise, breakcore, digital-hardcore e grindcore, ma anche le successive “Parasite” e “Iron Ghetto Man Crusher” non sono da meno, con quest’ultima che sfiora momenti d’intensità estrema, un punto di non ritorno che conduce al cyber-grind più violento e annichilente. Si lanciano anche in alcuni brani miniaturizzati, tra cui spiccano gli appena 17 secondi di “The Myth Of Democracy”, i Napalm Death in un’allucinazione industrial-noise.
Che al centro dell’Apocalisse possa farsi spazio una danza scatenata per urla come “Mind Vs. Body”, da mosh sfrenato, o un free-jazz fuori controllo come in “Vermin” sono dimostrazioni che c’è del raziocinio in questa catastrofe sonora.
Quando “Oil Money” inizia con solo un beat compresso e distorto su cui vengono vomitate poche parole, è quasi come se, per contrasto, la musica sembrasse pacata, nonostante fosse compatibile con un album dei Godflesh. Poco dopo, ovviamente, riparte il massacro. Chiudono i 42 secondi di “Random Act Of Senseless Violence”, un ultimo conato che culmina in un muro harsh-noise lasciato riverberare nel vuoto: il titolo è un'ideale one line review per un album eccezionale nel suo estremismo, una versione impazzita dei due Techno Animal, che rinuncia a ogni moderazione.

Esplosione finale: The Brotherhood Of The Bomb, la fine e Zonal

corpo4L’esperienza Techno Animal si conclude con un quarto e ultimo album, The Brotherhood Of The Bomb (pubblicato il fatidico 11 settembre 2001), che risulta al contempo diverso dai precedenti e relativamente più accessibile. Il formato è quello di 12 brani per 61 minuti, sei dei quali contengono interventi di vari rapper del panorama alternative. Gli ospiti sono: Rubberoom, gli Antipop Consortium, i Sonic Sum, Toastie Taylor, El-P (Company Flow, Run The Jewels), Vast (Cannibal Ox) e Will “Dälek” Brooks.
L’impatto frontale con "Cruise Mode 101" è una questione di rap senza respiro e un sound che trasporta i Public Enemy nel mezzo di un bombardamento industrial. La dub tensiva di "Glass Prism Enclosure", rappata ma puntando su un flow più rilassato, evolve naturalmente nel groove circolare della strumentale "Hypertension", dominata dalle frequenze basse, e conduce al beat rallentato e allucinato di "DC-10", rappato da una voce deformata, riverberata o assalita da rumori assordanti. Questo quartetto iniziale ben restituisce la natura multiforme di un album che può lanciarsi in ritmi tutto sommato ballabili per poi farli esplodere in roventi colate di rumore e bassi distorti ("Robosapien"), può sommergere un motivetto sotto una coltre di suoni assordanti ("Freefall") ed esercitarsi in groove squadrati e aggressivi ("Monoscopic") senza rinunciare a un proprio gusto per l’atmosfera asfissiante, il loop come centro compositivo e l'elettronica come strumento contundente da usare per ballare, terrorizzare e assordare a seconda del momento.
Alla luce dei wobble bass e delle decostruzioni sul ballabile emerse nel decennio successivo, The Brotherhood Of The Bomb ha un qualcosa di visionario e sembra anticipare alcune delle coordinate di una musica che nel 2001 era ancora da definire e che, forse, ha contribuito a delineare. Persino il ruolo dei rapper, da affiancare al duo di produttori esperti, appartiene più agli anni Dieci che all'inizio del secolo.
La sirena inquietante che apre "Piranha", con un rap frenetico con richiami caraibici e un assalto ritmico tra distorsioni feroci e synth angoscianti, è un vertice che comunque si amalgama bene con l’ultimo terzo dell'album, devastante anche nel rap spaccatimpani a due voci "We Can Build You" e nel gorgo di funk ciclopico e infernale "Blood Money".
Chiuso da una "Hell" che lascia senza fiato, forte di un’intensità estrema, The Brotherhood Of The Bomb conclude la storia dei Techno Animal suggerendo in realtà una direzione che altri percorreranno fino in fondo, come i Death Grips o i clipping.

Quando Broadrick e Martin ritornano a collaborare, lo fanno con il nome di Zonal, pubblicando a questo nome l’introvabile The Quatermass Project Vol.1 (2000, in edizione limitata) e il curioso Wrecked (2019), insieme a Moor Mother. Il collegamenti tra ques’ultima pubblicazione e gli ultimi Techno Animal è evidente, con Moor Mother che funge da voce narrante di un mondo distopico, industrial-futuristico. I primi brani sono però più lenti e allucinati, con la voce che rimbalza nello spazio (“In A Cage”; “Medulla”) e spesso è protagonista (“System Error”).
Non che i Techno Animal siano mai stati particolarmente digeribili, ma la prima parte della scaletta richiede molta pazienza e premia chi ha resistito con un cambio di passo nella seconda parte dell’album, più veloce e adrenalinica, nonché strumentale. Qui i due ritornano più efficacemente a un misto di dub e industrial-hip-hop che rappresenta un seguito coerente di The Brotherhood Of The Bomb, senza ovviamente replicarne l’originalità.
All’altezza di “S.O.S.” si è tornati ai clangori meccanici, alle bave di synth, ai suoni compressi e distorti di sempre. La pausa di tensione di “Alien Within”, dark-ambient desolante senza beat, e l’assordante drone di “Stargazer” suonano, poste in chiusura, come cartoline da dopo l’Apocalisse.

Techno Animal

Discografia

Ghosts (1991)

Re-Entry (1995)
Babylon Seeker (Ep, 1996)
Unmanned (Ep, 1996)
Demonoid (Ep, 1997)
Phobic (Ep, 1997)
Techno Animal Versus Reality (compilation, 1998)
Radio Hades (compilation, 1998)
The Curse Of The Golden Vampire (con Alec Empire e attribuito a Curse Of The Golden Vampire, 1998)
Symbiotics (split album con Porter Ricks, 1999)
Crawler/Into The Light (Ep, attribuito a White Viper, 1999)
Megaton / Classical Homicide (split Ep con Dälek, 2000)
The Quatermass Project Vol.1 (attribuito a Zonal, 2000)
The Brotherhood Of The Bomb (2001)
Mass Destruction (attribuito a Curse Of The Golden Vampire, 2003)
Wrecked (attribuito a Zonal, 2019)
Pietra miliare
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