Clipping

Clipping - Orrore e rumore

L'imprevedibile carriera di un trio di alieni dell'hip-hop, divisi tra rumori assordanti, fantascienza e horror

di Antonio Silvestri

Il rapper Daveed Diggs e i produttori William Hutson e Jonathan Snipes si conoscono da giovani: i primi due a scuola, il terzo arriva ai tempi del college. Nel 2010 il trio, che proviene da Los Angeles, inizia a fare sul serio ma il primo mixtape arriverà solo nel 2013.
Come nome scelgono Clipping, ma decidono di scriverlo clipping., in minuscolo e con il punto: è un modo per distinguersi, ancor prima di ascoltare la musica. In questo testo si verrà meno a questa stilizzazione per mere esigenze di leggibilità, e quindi useremo Clipping. Il termine non è casuale, perché il clipping è una distorsione che deriva da un segnale audio d’uscita troppo elevato, tanto da tagliare le creste delle onde sonore, appiattendole e deformando il suono.
In sintesi, si presentano sin dal nome come qualcosa di diverso e di aggressivo, decisamente rumoroso. Rispetteranno, e supereranno, questo intento: nel corso di pochi anni diventeranno uno dei gruppi più originali nell’intera scena hip-hop statunitense, un punto di riferimento per chi ricerca in questo genere musicale potenza e intensità, fino all’assordante e fino al travolgente. In dialogo con le avanguardie, da John Cage a Annea Lockwood, ma anche con il gangsta-rap, l’industrial-hip-hop, la musica glitch e le colonne sonore dei film horror e slasher, con un pizzico di fantascienza (come per i Cannibal Ox).
Eredi dei Dalek, con cui condividono la passione per la cacofonia e il rifiuto dei cliché dell’hip-hop, i Clipping si distinguono per un approccio meno politicizzato e un più lasco legame il modello tradizionale del brano hip-hop. Per certi versi, possono essere accostati anche ai Death Grips, sebbene con differenze sostanziali: mentre questi ultimi hanno un’attitudine più punk, viscerale e nichilista, i Clipping prediligono un sound minaccioso piuttosto che rabbioso, oscuro anziché urlato, freddo più che impulsivo; se i Death Grips sono un pugno in faccia, la violenza dei Clipping è più psicologica. Ma, in sostanza, non esiste gruppo che possa dirsi davvero simile ai Clipping, per la peculiare commistione di elementi pienamente hip-hop e un universo di influenze altre, nonché una serie di curiose scelte estetiche, tra cui il fatto che i testi di Diggs evitino la narrazione in prima persona o che molti dei suoni utilizzati siano stati registrati sul campo, evitando le tipiche librerie dei producer. Spiazzanti e sperimentali, i Clipping vantano anche una progettualità più unica che rara nell’hip-hop, che ha trasformato alcuni loro album in concept coesi e coerenti, nonostante i presupposti eccentrici e gli sviluppi peculiari.

Gli anni del rumore: midcity, CLPPNG, Splendor & Misery

Il mixtape con cui esordiscono, midcity (2013), accoglie l’ignaro ascoltatore con un torrenziale assalto rumoroso sin dall’introduzione, senza che si intraveda un beat riconducibile all’hip-hop tradizionale: è tutto annunciato dalla frase “It's Clipping, bitch”.
I tonfi e i clangori arrivano solo nella seconda “loud”, aperta da un muro noise degno di Merzbow. In tutto questo Diggs rappa freneticamente, doppiato da voci mostruosamente deformate o moltiplicate dagli echi.
Il resto della scaletta continua ad affiancare elementi tradizionalmente hip-hop, compresi gli scratch, con un rumorismo feroce, innestato in scenari industrial o di elettronica glaciale. Il lavoro sui singoli suoni è già maniacale, a rifuggire ogni possibile banalità. L’impressione, a volte, è che dei brani industrial-noise-hip-hop siano stati destrutturati e riassemblati fino a suonare irriconoscibili, come “bullshit”.
Gli ultimi undici minuti scarsi ripetono ossessivamente “get money” in uno scenario sonoro di asfissiante e assordante tensione.
Questi Clipping stanno all’hip-hop come i Royal Trux di "Twin Infinitives" al rock.

Assoldati dalla storica etichetta Sub Pop, pubblicano l’esordio ufficiale CLPPNG nel 2014, che è più complesso ed eterogeneo e rinuncia in parte all’assalto sonoro del mixtape d’esordio. All’appello troviamo anche numerosi ospiti. Si sono aggiunte dosi industrial-noise (“Body & Blood”; “Or Die”), legate a un’estetica più apocalittica, ma anche esplorazioni allucinate (“Work Work”, con una specie di ritornello southern; “Tonight”, un Kanye West misto musique concrète) o rap astratti e destrutturati (“Summertime”; “Get Up” e la sua sveglia; la mutante “Story 2”; l’oscura synthwave di “Ends”). Percorrono anche la strada di un hip-hop cyborg in “Taking Off”, quella del sussurro di “Dream” e trovato spazio anche per un omaggio a John Cage finale.

Nonostante CLPPNG sia un album creativo ed eterogeneo, serpeggia il timore che si sia già persa quella feroce volontà di tramortire l’ascoltatore. L’Ep Wriggle non dissipa questi dubbi, nonostante la title track e il suo beat frenetico siano una delle creazioni più divertenti dell’intera carriera, un brano follemente ballabile. Se si è abituati alle banalità dell’hip-hop statunitense mainstream, comunque, “Hot Fuck No Love” è oro colato. Nel 2021 arriverà una versione estesa, con cinque remix, buona soprattutto per i completisti.

Il secondo album di studio, per fortuna, dimostra tutt’altra ambizione. È un concept fantascientifico, intriso di afrofuturismo e viaggi spaziali. Splendor & Misery (2016) racconta la storia di Cargo #2331, uno schiavo sopravvissuto in un’astronave in compagnia di un computer di bordo intelligente. Si sviluppa una stravagante storia d’amore con elementi thriller. Il flusso sonoro è unico, scomposto, irreale. Il brano centrale è, probabilmente, “All Black”, un Aesop Rock nell’astronave di “Alien”, ma a corredo ce ne sono altri 14 eterogenei e creativi, pezzi di un puzzle che distrugge e rimonta l’hip-hop sperimentale, concedendosi anche rimandi spiritual (“Long Way Away”; “True Believer”) oltre a nuovi assalti rumorosi (“Baby Don’t Sleep”).
Le canzoni, per quanto si possano individuare delle canzoni in quest’album, contano meno dell’insieme: “Air ‘Em Out” trasporta gli OutKast in orbita; “A Better Place” è un comico balletto robotico con suoni settantiani chiuso da un muro di rumore assordante.
L’assalto, più che fisico, è sempre più psicologico: l’ascoltatore è condotto in un un racconto disorientante, con suoni che lo cullano e lo tramortiscono.

Il nome Clipping inizia a circolare presso un pubblico più ampio, sia per alcuni riconoscimenti più accademici, come le due nomination ai famosi premi Hugo, assegnati alle migliori opere di fantascienza e fantasy, sia per contatti con la cultura più pop, come l’inserimento di un loro brano nella serie animata di Adult Swim “Rick And Morty”. Un loro brano del 2017, “The Deep”, diventa un visionario Ep omonimo nel 2019 e persino un romanzo di Rivers Solomon che vince il premio Lambda, di cui sono insignite opere che affrontano argomenti della galassia LGBT, e ottiene altre candidature importanti.
Musicalmente, The Deep sono tre brani che uniscono rimandi alla fantascienza settantiana al sound design cinematografico dei blockbuster.

The Face (2018) è un altro terzetto di composizioni brevi, questa volta meno legate a un’idea tradizionale di canzone, diluito in numerosi remix. I due minuti scarsi di “Face” sono forse il momento in cui somigliano di più ai Death Grips e al loro stile ossessivo, mentre la tensione allucinata di “Block” anticipa i futuri capolavori horror: un synth rintocca, il rumore striscia nell’arrangiamento come veleno, esplodendo in suoni alieni di puro terrore, degni delle visioni angoscianti di “Eraserhead” di David Lynch.

Gli anni dell’orrore: "There Existed An Addiction To Blood" e "Visions Of Bodies Being Burned"

Loro la descrivono come una trasmutazione dell’horrorcore, il sottogenere dell’hip-hop a tema orrorifico, l’occulto e il sovrannaturale, quella operata in There Existed An Addiction To Blood (2019). Se i lavori precedenti erano decisamente ambiziosi, questa volta i tre decidono di includere persino una rilettura del "Piano Burning" di Annea Lockwood: 18 minuti che sembrano voler consacrare un distacco dal resto dell'hip-hop verso la ricerca intellettuale, senza per questo risultare cervellotici, asettici, frigidi.
Il lungo finale incendiario, dunque, suona come una definitiva consacrazione della ricerca estetica della formazione, che nei precedenti 50 minuti dà tutto quello che si può chiedere in termini di creatività, miscelando industrial e hip-hop con colate di rumore assordante, deviando dai modelli fino a stravolgerli e nel contempo delineando una precisa, ricercata dimensione immaginifica fra il film dell'orrore, il thriller e la performance poetica.
Permettetemi quindi, dopo essere partiti dalla conclusione piromane dell'album, di ripercorrere il viaggio dall'inizio.
Il battito ossessivo del pianoforte in "Nothing Is Safe" introduce l'approccio ritmico dell'opera, che sfrutta ogni soluzione per evitare i beat ritriti preferendo soluzioni ben più originali, spesso arrivando ad annullare la dimensione ciclica o la riconoscibilità del groove. Per il primo vero brano, però, ci si affida all'intreccio di retro-synth e pianoforte, su cui il rapper Daveed Diggs ha l'arduo compito di muoversi con agilità, evitando che il minimalismo anestetizzi la tensione emotiva in una meditazione vintage e gotica. Quando finalmente un beat trap prende il sopravvento, dopo 150 secondi, il trio ha già indicato chiaramente che non siamo all'ascolto dell'ennesimo disco nel solco dell'imperante trend di questa fine decennio.

Somethin' 'bout how he walks remind you of someone
You look and see a gun, a man with no face
A golden halo that could be the sun

Ce lo conferma l'incrocio fra droni tibetani e rime supersoniche di "He Dead", anche se la distruzione del modello tipico dell’hip-hop prende corpo soprattutto in “La Mala Ordina”, brano collaborativo in cui Elcamino, Benny The Butcher e The Rita lasciano affogare un hardcore-rap in distorsioni di synth, fino a quando i decibel esplodono in una voce progressivamente più mostruosa, assordante, meccanica e quindi in un lungo finale di harsh-noise assoluto, altezza Merzbow.
Dopo un tale assalto ai timpani rimane un vuoto che “Club Down” (con Sarah Bennat) anima con bordate thriller e rinunciando al beat, in un climax ansiogeno reso claustrofobico dalle grida lacinanti sullo sfondo; a nulla serve un refrain gangsta-rap, grottesco elemento di divertimento in uno scenario di desolazione e violenza.
Nei clangori meccanici di “Run For Your Life”, con La Chat, l’arrangiamento è musica concreta urbana che solo lentamente si incanala in ritmi industrial-hip-hop, con “The Show” che continua idealmente da lì, costruendo da sbuffi e tonfi meccanici un ballabile con battiti di mani e un’impennata cacofonica conclusiva da Nine Inch Nails. Un altro arrangiamento minimale, con beat atipico, in “All In Your Head”, con Counterfeit Madison e Robyn Hood, stupisce quando scopre un’anima soul, inevitabilmente soffocata nel caos più assordante.
Il viaggio sull’ottovolante prende una via Death Grips-iana e Run The Jewels-iana con “Blood Of The Fang”, esagitato ballabile saltellante dalle rime serrate con qualche extra-beat da capogiro poi riproposto nell’incredibile assalto verbale di “Attunement” con Pedestrain Deposit, mentre “Story 7” frammenta il ritmo rallentandolo e interrompendolo, lasciando Diggs a districarsi su un pseudo-groove disorientante come un Aesop Rock in grande forma. Poi quel piano che brucia, simbolo di una musica in fiamme che trova nella morte l’ultimo gesto possibile, e quindi il silenzio. Dopo aver ascoltato questo mostro, si ha l’impressione che progressivamente l’album sia inghiottito dall’oscurità, perdendo beat e punti di riferimento fino all’astratta, strumentale conclusione, che va forse accolta come un’alternativa al vuoto totale tipico del dopo ascolto.


Reso appena meno fluido da un eccesso di interludi, tanto ambizioso da poter apparire spavaldo, There Existed An Addiction To Blood minimizza i propri difetti con un chiaro progetto creativo, che mette a sistema il verbo industriale e cacofonico dell'hip-hop con l'orrorifico di Carpenter-iana memoria, fungendo da ponte verso un'avanguardia che suona postmoderna, intellettuale ma anche tremendamente viscerale, concreta, urbana.
Da solo, quest'album rifonda l'horrorcore di Gravediggaz, Three-6 Mafia e The Geto Boys, soffiando nuova vita in uno stile giustamente dato per morto.

Ritornano sul luogo del delitto nel 2020 con un titolo che si presenta da subito violento e oscuro: Visions Of Bodies Being Burned. Per il quarto album - un ideale seguito e completamento del discorso intrapreso un anno prima - non riunciano al loro amalgama di assordanti cacofonie, clangori elettro-industriali, ombre horrorcore che rileggono in modo originale il modello hip-hop. La novità è che, forti dell'esperienza, possono ampliare le soluzioni compositive, evolvendo sul modello già proposto.
Neanche a dirlo, non è materiale per i deboli di cuore e i fragili di timpano, ma piuttosto uno sconvolgente e annichilente tunnel dell'orrore abitato da omicidi, cannibali, mostri e altre paranormalità. Non passano neanche due minuti e un assalto cacofonico segna l'ideale apertura delle danze: bentornati all'inferno.
Come nel gioiello del 2019, si trovano sorprendenti equilibri fra aggressivo, ossessivo e orecchiabile come "Say The Name", con una rotonda linea di basso degna dei più sensuali Nine Inch Nails e una creativa coda industriale. È una ricetta reinterpretata anche in "96' Neve Campbell", un proiettile dei Run The Jewels imbevuto di sangue.
La tensione strisciante, malcelata, esplode nell'extra beat di "Something Underneath", una frenetica e caotica decostruzione del più assordante e terrificante hip-hop: da infarto! "Make Them Dead", più un'apocalisse radioattiva che una deflagrazione nucleare, fa emergere un hip-hop velenoso su una distorsione asfissiante, sfruttando l'inaspettato contrappunto di un gospel post-apocalittico. I graffi stridenti che abitano il buio di "She Bad" sono solo un altro piccolo colpo di genio, mentre l'arrangiamento procede su traiettorie cinematografiche e la voce, impegnata in un movimentato rap, nei momenti di massima tensione si scompone e deforma.
Ghermiti da una notte impenetrabile, nel mezzo di un incubo mentale, non possiamo che lasciarci schiaffeggiare da "Pain Everyday" e dai suoi break spaccatimpani, immergerci nel noir violento che "Check The Lock" disegna nella mente e ballare sul carillon maledetto di "Looking Luke Meat", denso e devastante assalto orrorifico. L'abilità di organizzare i suoni nello spazio, suggerendo indicibili cavità e terribili presenze, disorientando l'ascoltatore e costringendolo a un continuo stato di tensione, è il vero motore dell'album, ed è pacifico che l'abominio sonoro di battiti, riverberi e rumori debba esplodere prima della fine, come accade nell'epilettica coda free-jazz di "Eaten Alice".
Il fatto che segua poi la fantasia omicida di "Body For The Pile", che bersaglia i poliziotti, basta a riaccendere la tensione e apre egregiamente per la visionaria "Enlacing", che fonde Lovecraft e il "King Night" dei Salem.

Things you seen since last you saw yourself would turn a man to dust
The things you dreamed in lieu of all the hells were just imagination 'cause
You couldn't bear to see the limit of yourself for what it was
The good you wear on sleeves just isn't much

Dietro al microfono, oltre all'Mc titolare Daveed Diggs, anche numerosi ospiti, ma dominano soprattutto le composizioni di Jonathan Snipes e William Uhtson, a cui anche i testi psicopatici o esoterici conferiscono solo qualcosa in più.

A seguire, altri progetti meno strutturati e alcuni remix sotto forma di quattro Ep, pubblicati nel 2022. Nascondono una trasformazione in atto, che prenderà forma solo con l’album del loro atteso, vero, ritorno nel 2025.

Damn kids, they're all alike, okay
Maybe they're right, okay
But the shit is getting right today
All it costs is your life, okay, just wait
Just wait
Just wait till it's on

Cyber-hip-hop: Dead Channel Sky.

Ispirato dal percorso parallelo della sub-cultura cyberpunk e dell’hip-hop, Dead Channel Sky (2025) è un capitolo assai diverso rispetto ai precedenti due album dei Clipping.
Diviso in venti brani, di cui ben nove sotto i due minuti, è un incrocio tra l’irruenza di un mixtape e l’ambiziosità di un omaggio, eccentrico e personale, alla storia di certa cultura popolare. Cinque brani sono presentati al pubblico prima della pubblicazione: “Keep Pushing”, costruita intorno a un basso distorto con ritornello che, invece di spingere, quasi si riduce al sussurro e colorata di archi classicheggianti nel finale; l’assordante big beat di “Change The Channel” sembra uscita dal primo “Matrix” o dal videogioco “WipeOut 2097”; “Run It” incanala la tensione del periodo horrorcore in una muscolare tensione ultraviolenta degna del film “Drive” o dell’acido shooter “Hotline Miami”; “Welcome Home Warrior” trova con Aesop Rock l’ideale interprete di un hip-hop retro-futuristico, tutto circuiti e sfrigolii.
Introdotto dai suoni di un modem 56k, indimenticabili per chiunque fosse più che un infante a cavallo dei due millenni, Dead Channel Sky si candida facilmente come l’album più divertente della loro carriera e il più ballabile, grazie al techno-rap di “Dominator”, sudata e distorta banger da discoteca, all’hip-hop elettronico e tecnologico di “Code”, con un arrangiamento di archi vibrante e tragico in sottofondo, e alla velocissima jazzstep “Dodger”, con quell’idea di cyber che appartiene ormai a un quarto di secolo fa. Quest’ultima è ovviamente occasione per Daveed Diggs di prodursi in un extra beat da vertigine. Il fatto che “Dodger” poi diventi il sottofondo di un’improvvisazione di Nels Cline, chitarrista punto di riferimento dell’improvvisazione jazz, è solo l’ennesima stravaganza di una discografia che ha sempre dialogato con i territori più avant della musica. Diventano persino sensuali in “Mirrorshades pt. 2” (featuring Cartel Madras), con il beat quadrato da ballare e tutto un arsenale di suoni di contorno tipici dell’estetica futuristica di trent’anni fa.
Ritornano anche le pulsioni rumoriste in forma di brevi brani, anche astratti e senza rap come i due “Simple Degradation” (con il collettivo di computer music Bitpanic), o integrate in canzoni relativamente più tradizionali, come “Polaroids”, costruita su suoni digitali estremamente acuti, ai limiti dell’udibile, che vanno a formare uno dei loro beat atipici.
C’è spazio per un finale di grande suspense come “Ask What Happened”, che riporta persino a Splendor & Misery, il concept spaziale del trio: si apre tra synth glaciali e poi si agita su un amen break supersonico, prima di essere risucchiato in un incubo digitale, un glitch mortale. Ma “Ask What Happened” è anche un’accusa al sistema e alle sue iniquità, un brano politico che cita nel suo lungo testo disastri ambientali ed economici, trovando nella musica fuori dal mainstream, e nella lotta anche tecnologica al potere, una via d’uscita.
I Clipping concludono quindi con una nota molto amara il loro album più immediato, coerentemente con la loro posizione di alieni di un hip-hop spesso dominato, in questi anni, da celebrazioni proprio del potere e della ricchezza dei billionaires:

History and future belong to the one percent, though
Records in the present got bass to rattle they fence, okay
Trickle-down Monopoly money is just a game, no
Made a revolution by playin' with model trains, so
Phreak a telephone and live free up inside they brains, though
They sayin', 'Damn kid, all he doin' is playin' games'

Clipping

Discografia

midcity(mixtape, autoprodotto, 2013)
CLPPNG(Sub Pop, 2014)
Wriggle(Ep, Sub Pop, 2016)
Splendor & Misery(Sub Pop & Deathbomb Arc, 2016)
Face(Ep, Sub Pop, 2015)
There Existed An Addiction To Blood (Sub Pop, 2019)
The Deep (Ep, Sub Pop, 2019)
Visions Of Bodies Being Burned(Sub Pop, 2020)
Dead Channel Sky(2025)
Pietra miliare
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