Blood seepin' from his neck, as he struggle to breathe
Wooden floors stained wet, gets soft the more that he bleeds
Difficile che i più onnivori fra noi ascoltatori incalliti non abbiano già drizzato le orecchie ai tempi di "
Splendor & Misery" ('16) o persino dell'esordio "
CLPPNG" ('14), ma con questo terzo album i losangelini Clipping hanno superato loro stessi. Se i lavori precedenti erano decisamente ambiziosi, questa volta i tre decidono di includere persino una rilettura del "Piano Burning" di Annea Lockwood: 18 minuti che sembrano voler consacrare un distacco dal resto dell'hip-hop verso la ricerca intellettuale, senza per questo risultare cervellotici, asettici, frigidi.
Il lungo finale incendiario, dunque, suona come una definitiva consacrazione della ricerca estetica della formazione, che nei precedenti 50 minuti dà tutto quello che si può chiedere in termini di creatività, miscelando industrial e hip-hop con colate di rumore assordante, deviando dai modelli fino a stravolgerli e nel contempo delineando una precisa, ricercata dimensione immaginifica fra il film dell'orrore, il thriller e la
performance poetica. Permettetemi quindi, dopo essere partiti dalla conclusione piromane dell'album, di ripercorrere il viaggio dall'inizio.
Il battito ossessivo del pianoforte in "Nothing Is Safe" introduce l'approccio ritmico dell'opera, che sfrutta ogni soluzione per evitare i
beat ritriti preferendo soluzioni ben più originali, spesso arrivando ad annullare la dimensione ciclica o la riconoscibilità del
groove. Per il primo vero brano, però, ci si affida all'intreccio di retro-synth e pianoforte, su cui il rapper Daveed Diggs ha l'arduo compito di muoversi con agilità, evitando che il minimalismo anestetizzi la tensione emotiva in una meditazione vintage e gotica.
Quando finalmente un
beat trap prende il sopravvento, dopo 150 secondi, il trio ha già indicato chiaramente che non siamo all'ascolto dell'ennesimo disco nel solco dell'imperante trend di questa fine decennio. Ce lo conferma l'incrocio fra droni tibetani e rime supersoniche di "He Dead", anche se la distruzione del modello tipico dell’hip-hop prende corpo soprattutto in “La Mala Ordina”, brano collaborativo in cui Elcamino, Benny The Butcher e The Rita lasciano affogare un hardcore-rap in distorsioni di synth, fino a quando i decibel esplodono in una voce progressivamente più mostruosa, assordante, meccanica e quindi in un lungo finale di harsh-noise assoluto, altezza Merzbow.
Dopo un tale assalto ai timpani rimane un vuoto che “Club Down” (con Sarah Bennat) anima con bordate thriller e rinunciando al
beat, in un climax ansiogeno reso claustrofobico dalle grida lacinanti sullo sfondo; a nulla serve un
refrain gangsta-rap, grottesco elemento di divertimento in uno scenario di desolazione e violenza.
Nei clangori meccanici di “Run For Your Life”, con La Chat, l’arrangiamento è musica concreta urbana che solo lentamente si incanala in ritmi industrial-hip-hop, con “The Show” che continua idealmente da lì costruendo da sbuffi e tonfi meccanici un ballabile con battiti di mani e un’impennata cacofonica conclusiva da
Nine Inch Nails. Un altro arrangiamento minimale, con
beat atipico, in “All In Your Head”, con Counterfeit Madison e Robyn Hood, stupisce quando scopre un’anima soul, inevitabilmente soffocata nel caos più assordante.
Il viaggio sull’ottovolante prende una via
Death Grips-iana e
Run The Jewels-iana con “Blood Of The Fang”, esagitato ballabile saltellante dalle rime serrate con qualche extra-beat da capogiro poi riproposto nell’incredibile assalto verbale di “Attunement” con Pedestrain Deposit, mentre “Story 7” frammenta il ritmo rallentandolo e interrompendolo, lasciando Diggs a districarsi su un pseudo-
groove disorientante come un
Aesop Rock in grande forma. Poi quel piano che brucia, simbolo di una musica in fiamme che trova nella morte l’ultimo gesto possibile, e quindi il silenzio. Dopo aver ascoltato questo mostro, si ha l’impressione che progressivamente l’album sia inghiottito dall’oscurità, perdendo
beat e punti di riferimento fino all’astratta, strumentale conclusione, che va forse accolta come un’alternativa al vuoto totale tipico del dopo ascolto.
Reso appena meno fluido da un eccesso di interludi, tanto ambizioso da poter apparire spavaldo, "There Existed An Addiction To Blood" minimizza i propri difetti con un chiaro progetto creativo, che mette a sistema il verbo industriale e cacofonico dell'hip-hop con l'orrorifico di
Carpenter-iana memoria, fungendo da ponte verso un'avanguardia che suona post-moderna, intellettuale ma anche tremendamente viscerale, concreta, urbana.
Da solo, quest'album rifonda l'
horrorcore di Gravediggaz, Three-6 Mafia e The Geto Boys, soffiando nuova vita in uno stile giustamente dato per morto.
20/12/2019