Per un amante del cinema, ascoltare un disco di John Carpenter è come per un tifoso della Juventus guardare alla Tv Alessandro Del Piero fare il commentatore sportivo: resterebbe in adorazione senza osare mai parlarne male.
Se ti chiami John Carpenter non dev’essere poi così difficile iniziare una nuova carriera a 68 anni (anche se le colonne sonore dei suoi film le ha quasi sempre scritte lui, chapeau!), trovare una buona casa discografica che ti pubblichi (Sacred Bones!) e avere grandissima visibilità praticamente su tutti i mass media che contano.
Io ho scoperto che John Carpenter stava realizzando dischi in proprio soltanto qualche settimana fa, leggendo la line-up del Primavera Sound di Barcellona, e in realtà inizialmente pensai si trattasse di qualche nuova indie-band intitolata a una delle leggende viventi della cinematografia horror.
Ma il nome era riportato nella parte alta del cartellone, quindi non poteva trattarsi di un gruppetto esordiente, era proprio lui, che da pochi mesi aveva iniziato a esibirsi dal vivo, pubblicando in meno di un anno due album svincolati da qualsiasi pellicola: “Lost Themes” e la successiva raccolta di remix.
Non è stato un divertissement occasionale, a questo punto ne abbiamo la certezza: il cineasta americano si è reinventato musicista a tempo pieno, sfruttando il proprio nome per dare visibilità al figlio Cody e al figlioccio Daniel Davies, riuniti in studio con lui a suonare quello che non è più (come nel disco dello scorso anno) il risultato di file scambiati in rete, bensì il prodotto del processo compositivo di una vera band.
Il titolo è pertanto un voluto caso di false friend: non si tratta infatti di materiale rimasto nel cassetto per anni in attesa della giusta collocazione, né tantomeno di vecchie rimanenze di magazzino per maniaci completisti, ma di canzoni composte ex-novo, perfette per fungere da soundtrack per i film immaginari dei propri fan.
Che ci siano là fuori, a popolare un’intasatissima scena elettronica, fior di musicisti in evidente difficoltà nel far conoscere i propri lavori, poco importa, Carpenter (che dimostra bravura da vendere e un piacere smisurato non solo a girare film ma anche a suonare) gioca un po’ di sponda, imprimendo dentro “Lost Themes II” molte delle atmosfere che hanno sempre caratterizzato la sua opera cinematografica.
Riesce (e non era affatto scontato) nell’intento di non fare la figura della vecchia cariatide alle prese con idee stantie: già nell’iniziale “Distant Dream” il trio prende lo stesso passo di molte formazioni della scena elettro-rock contemporanea, partorendo una composizione di grande spessore ed effetto.
Sarà inevitabile far partire lo sfizioso giochino dei rimandi attraverso il quale gli appassionati di cinema collegheranno ogni singola traccia a qualche film del passato, ma il disco sta benissimo in piedi da solo, senza l’ausilio di alcuna immagine, anche se ci aspettiamo che nella trasposizione live il contorno di filmati e giochi di luce possa rendere ancora più completa e ultrasensoriale l’esperienza.
La scaletta alterna temi più rarefatti (“Last Sunrise”) e di grande impatto emotivo (“Persia Rising”, “Hofner Dawn”), con i synth saldamente al centro del progetto, ad altri moderatamente più aggressivi, dove emerge il suono delle chitarre elettriche (“Angel’s Asylum”, “Dark Blues”), con puntuale a stagliarsi di tanto in tanto qualche (voluto) retaggio effettistico anni 80.
A due passi dai 70 anni, John Carpenter si rende così protagonista di un prodigio che conferma lo stato di salute di molti compositori entrati da tempo nella terza età.
Come nel caso del “nostro” Ennio Morricone (che a 87 anni suonati si porta a casa un meritatissimo Premio Oscar), assistiamo a un altro clamoroso caso per il quale il rispetto e la venerazione nei confronti dell’artista non sono dovuti soltanto per l’impressionante carriera trascorsa, ma anche per quanto prodotto nella contemporaneità.
15/04/2016