Sono bastati un paio di sette pollici e altrettanti Ep per dar vita all'ennesimo hype e lanciare una nuova moda/attitudine/sub-categoria (fate un po' voi) nel microcosmo glo-fi ipnagogico statunitense. Tuttavia, dubitiamo che John Holland, Heather Marlatt e Jack Donoghue abbiano opportunamente preventivato il tutto. La loro formula, tanto strampalata quanto accattivante, è nata casualmente, com'è giusto che sia, magari da uno dei tanti incontri avvenuti verso la fine del decennio appena trascorso, dai quali è sorto pian piano il desiderio di provare a buttar giù qualcosa di insolito e straniante. O più probabilmente questi tre freak, ex (?) emarginati/eroinomani, che a vederli sembrano quasi i fratellini disadattati dei primi MGMT, sono emersi dal gelo del Michigan semplicemente accomunati da una viscerale passione per l'esoterismo trendy.
Tre improbabili vagabondi che, rovistando nella spazzatura di due o tre decenni di musica di consumo, sono riusciti nell'impresa di erigere una fortezza invalicabile, a nome "King Night", un denso, densissimo calderone di ritmi mutanti e scarti elettronici, in cui nessuna possibile ispirazione è rinnegata, ma ognuna si trasforma in qualcosa di nuovo. L'hanno chiamata "witch house" e del resto, quello che balza ai timpani è uno spettro di evocazioni gotiche in bassa fedeltà che ruotano su synth austeri (colossale la title track, che ruba cori di musica sacra e li annega in uno stupefacente oceano di break riciclati e bordate analogiche al valium) e niente meno che morbose smanie hip-hop ("Sick", "Tair"), quasi a fuggire dall'eventuale etichetta di finti neo stregoni dell’universo indipendente.
Ma respingiamo fin da subito anche qualsiasi complicazione etimologica, precisando che i tre Salem non hanno nulla a che fare con scope e streghe. Piuttosto, in "King Night" si evince un'imperscrutabile alienazione delle melodie. Quella di "Asia" è divorata da crudeli battiti post-industriali; quelle dell'incredibile "Frost" e di "Hound" emergono dalla sporcizia delle basi con potenza inaudita. Ed è abbastanza marcata la volontà di legare all’unisono immagine e musica. E altrettanto palese è la necessità di estrapolare, alla stregua degli ipnagogici, tracce mnestiche di suoni e visioni provenienti dai meravigliosi Ottanta, come briciole d'infanzia racchiuse in qualche amato cassetto della memoria.
Perché "King Night" è un'accozzaglia di frammenti evocativi sparsi a casaccio, atta a proiettare nell’ascoltatore un immaginario di luci e ombre che paiono inscenare una sorta di Ade cibernetico. Un incastro tanto impossibile quanto perfetto, capace di aprire scenari inediti e attirare nuovi adepti così come di morire nel giro di pochi mesi senza lasciare più alcuna traccia, consumandosi come gran parte dei (micro-)generi sorti dalle rovine di quello che già anni addietro si etichettava come "post-moderno". Nell'attesa di conoscere quale sarà il loro destino nella storia della musica (sic), i Salem ci regalano il più sfavillante debutto dell'anno in corso.
15/11/2010