Grindcore

Grind Your Fucking Head: invito all'ascolto del grindcore

Il grindcore è sempre rimasto ai margini delle musiche estreme, a causa di proposte spesso e volentieri così oltranziste da allontanare anche gli ascoltatori più smaliziati. Cercando di infrangere i pregiudizi che attanagliano anche gran parte della critica odierna, il seguente articolo ha esaminato (collocandoli in successione cronologica) alcuni dei lavori più importanti, belli, interessanti, rivoluzionari del genere, muovendosi tra ortodossia, contaminazioni e qualche eresia. In ogni caso, quella che segue non è una vera e propria "storia del grindcore" (e nemmeno voleva esserlo!), quanto lo scritto di quello che si ritiene essere innanzitutto un appassionato. Un appassionato che, con la forza delle parole, ha cercato di trasfigurare l'epopea di uno dei generi più radicali dell’universo rock, codificato per la prima volta dai Napalm Death nel lontano 1987, anno in cui la benemerita Earache Records pubblicava l'epocale Scum, di cui potete leggere nella sezione "Pietre Miliari". In quella sede, si delineano anche i primi passi del genere, nato da una una radicalizzazione del punk-hardcore e di alcune delle varianti più esasperate del thrash-metal.
Ma prima di srotolare la lunga matassa della memoria, rievochiamo, insieme con Giulio the Bastard (storico leader e voce dei Cripple Bastards, alfieri del grindcore italiano), l'atmosfera in cui germogliò la fase primordiale del grindcore.

Del più veloce e oltranzista possibile

Una delle immagini più paradossali che ho dei primi tempi in cui mi sono avvicinato al grindcore si allaccia a una leggenda metropolitana che voleva che alcuni componenti di un gruppo di allora si trovassero spesso sotto a un ponte della ferrovia e, nel momento in cui passava il treno, si mettessero a pogare come dei forsennati, perché lo sferragliare assordante delle rotaie che sentivano sopra le loro teste era il rumore che li esaltava.
Da una vecchia intervista ai Cripple Bastards: Identificarsi in uno stile musicale ed espressivo che per una serie di coincidenze esplode nello stesso periodo in cui ti stai avvicinando, non solo alla scena underground, ma alla semplice percezione delle tue necessità a livello di ascolti e relativo immaginario... Questo in sintesi è stato il mio approccio al genere di cui si sta per parlare. Così, piombando in un periodo in cui sia il punk che il metal stavano dirottando verso una fase di stallo e digressione, perché già quasi tutto era stato scalpellato, provato e rimodellato negli anni precedenti, arriva una generazione che, stanca della sloganizzazione del Punk (di cui, comunque, conserverà rabbia e nichilismo) e annoiata da un Metal sempre più tecnico, punta a risemplificare il tutto, così come era avvenuto alle origini, scagliando riff, ritmiche, livelli di distorsione e via discorrendo nel tritacarne assurdo "del più veloce e oltranzista possibile", moltiplicato all'ennesima potenza. Alle origini di tutto c’è una cerchia ristretta di ascoltatori tape-traders, ai margini delle diverse scene locali, le classiche mosche bianche frustrate da qualsiasi rapporto sociale o parvenza di collettività. Nella loro solitudine, questi “pionieri” selezionavano, tra demotape e articoli sparsi su fanzine, quanto di più estremo e oltranzista ci potesse essere allora a livello musicale, non solo in quanto appassionati ma anche in qualche modo per terrorizzare, per conquistarsi l'isolamento tramite l'aberrazione sonora. Su un terreno del genere, nasce “chi è ancora più avanti” e prova non solo a riprodurre in sala prove il concentrato di quella scrematura, ma a dargli, al netto del nonsense, anche una sua metodica, cercando di estremizzarlo ulteriormente. Non esistendo ancora il termine Grind, potevi chiamarli "ultra-hardcorers" o "death-thrashers" esasperati. Stavano confinati negli angoli più remoti della loro cerchia. Devastati mentali il cui raggio di ascolti si restringeva a Heresy, Septic Death, Lärm, Siege, Cryptic Slaughter per quanto riguarda il versante HC, e Wehrmacht, primi Sadus, Genocide/Repulsion, alcuni demo di Death e Hellhammer, per quanto riguarda l'ossatura Metal di tutto il discorso (si dedurrà, poi, ascoltando Scum). Chi aveva una ‘zine nel settore e/o poteva permettersi di sconfinare ancora più dentro la nicchia, tra contatti e ricercatezze negli scambi in cassetta, riusciva ad estendere le proprie conoscenze a mosche bianche come Rapt, Neos, Deep Wound, Hellhouse, NYC Mayhem, Revenge Of The Whores, Crab Society, Cyanamid, ArchEnemy (Usa), Brigada Do Odio e così via. Questi gli ascolti che hanno messo le prime radici per il Grindcore, almeno fino al 1986. In seguito, sulla scorta di queste basi e in un calderone di genialità, frustrazioni e il solito impulso di rompere determinati schemi, altre band riuscirono a dare un non-stile al tutto.
Il mio approccio al grindcore risale a quando non era stato ancora etichettato. Ricordo la ricerca spasmodica di ascolti sempre più violenti, veloci e ossessivi. Poi, una volta imbracciati gli strumenti, lo scopo fu quello di suonare a livelli di annichilimento sonoro oltre l'auto-distruttività. Quasi una proiezione abortale di quanti, cinque o sei anni prima, si erano goduti l'esplosione del Punk/Hardcore, la sua rabbia e la sua ventata di novità, franando poi nel crossover e nella sua crisi, tra pipponi-politici e quant’altro. La batteria a sfasciamento dei polsi, chitarre a interferenza-radio distorta, urla da devastazione delle corde vocali, demo da pochi minuti con centinaia di pezzi. E tutto quello che in sala prove o su un palco potevi fare per aggredire e annientarti il più rapidamente possibile…
(Giulio the Bastard - Cripple Bastards)


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CARCASS - Reek Of Putrefaction (1988; Inghilterra)

220pxcarcassreekPrima di essere sostituita con una immagine meno offensiva (a detta della censura inglese), la copertina del disco d’esordio dei Carcass rappresentava una perfetta controparte figurale della musica del quartetto di Liverpool, con il suo collage di pezzi di cadaveri mutilati. Una scelta non casuale, visto che Jeff Walker (voce e basso), Bill Steer (voce e chitarra) e Ken Owen (batteria) si erano appassionati all’universo medico dopo aver sfogliato un manuale di patologia. Se, quindi, il grindcore dei Napalm Death era profondamente politicizzato, con evidenti retaggi anarchici (non si dimentichi che, per il tramite dei Discharge e degli Amebix, la band di Birmingham era legata anche il movimento anarcho-punk), quello dei Carcass, con il suo malsano immaginario medico, finirà per orientarsi in una direzione più claustrofobica e splatter-horror, per cui si conierà il termine “gore-grind”, dove il sostantivo “gore” indica il sangue coagulato. Dopo aver partecipato all’avventura rivelatrice di Scum, Steer e Walker si concentrarono sulla scrittura del loro disco d’esordio, rifinendo alcuni brani già apparsi sul demo “Flesh Ripping Sonic Torment”. Registrato in soli quattro giorni, Reek Of Putrefaction (numero 6 nel catalogo Earache) è il mattone fondamentale nella costruzione della cattedrale goregrind, un disco ostico e maledetto, calato in un’atmosfera macabra e plumbea, “rovinato” (è questo il termine usato dallo stesso Steer) dalla pessima produzione  di quell’ “idiota” [cit.] di Mike Ivory. Un altro ingegnere del suono, Paul Talbot, cercò di metterci una pezza, ma quello che si ascolta è sempre un suono saturo in cui frequenze alte e frequenze basse sono bilanciate davvero in modo indecoroso. E, tuttavia, proprio la produzione (con il suo gioco anarchico di pitch shift) finì per rendere queste tracce ancora più blasfeme e terrificanti, con bassi che prorompono improvvisi da torridi grovigli di caos armonici, assoli di chitarra (accordata in Si) che scivolano nelle orecchie come lame affilate e voci talmente alterate (quella aspra di Walker, quella gutturale di Steer e quella più distorta di Owen) da risultare indecifrabili.
Incorniciata dal fangoso e subatomico olezzo dello strumentale “Genital Grinder” e il vorticoso e disturbante incedere di “Malignant Defecation”, la scenografia imbastita dai Carcass in questi solchi diventa l’epitome del ripugnante in musica grazie a luride composizioni quali “Maggot Colony”, “Pyosisified (Rotten To The Gore)” (uno dei momenti strumentalmente più creativi, tra dinamiche imbizzarrite, torridi schianti armonici e un’alternanza di parti più lente e parti più veloci), l’incubo primitivo di “Carbonized Eye-Sockets” e quelli orrorifici di “Vomited Anal Tract” e “Psychopathologist” (sfiancate da un fulmineo guizzo elettrico), le dinamiche discordanti di “Fermenting Innards” ed “Excreted Alive”, i retaggi thrash-death di “Suppuration”, “Splattered Cavities” e, soprattutto, “Burnt to a Crisp”. Alle liriche, il compito di tradurre in parole lo scempio dei suoni e delle frequenze sballate: The rotting corpse lies on a mortuary slab / Pus starts to burst from each visceral scab / Body temperature drops, bone seizure takes place / As the discharge oozes from the boils on the face (da “Suppuration”); o, ancora, con maggior cura per i giochi d’assonanza: Pyosis mucolysifies malignant mucocoeles / Pustules endocrinating disseminated mortified cells / Flesh punctuated by cancerous pustules / Burning your face with formicating papules (da “Mucopurulence Excretor”).
Alla fine dell’anno, John Peel piazzò Reek Of Putrefaction in cima alla sua playlist, benedicendo l’inizio della leggenda Carcass. Qualche anno dopo, in un’intervista rilasciata ad una rivista tedesca, così i tre ricorderanno la gestazione della loro prima fatica discografica: “L'album semplicemente non era competitivo in termini di suono, ma abbiamo comunque ricevuto un sacco lettere di apprezzamento e, alla fine, moltissime persone finirono per comprare il disco. Al di là di tutto, questa fu per noi la prova che eravamo sulla strada giusta. Quindi, non è tanto la confezione quanto la qualità di un prodotto a fare la differenza. Ma questo non significa che anche il nostro secondo LP fu contrassegnato da una resa sonora scadente!”. Il disco fu apprezzato anche dallo stesso patron della Earache Records, Digby "Dig" Pearson, che ancora oggi lo considera il prodotto migliore della sua etichetta, perché “si trattava di un vero sguardo al futuro, anche più di Scum. Reek of Putrefaction, infatti, è un disco davvero brutale, più estremo e con riff più metallici. Un lavoro fondamentale per tutta la scena gore-grind a venire”.
In ogni caso, per evitare altri problemi in fase di produzione, la band, mentre si apprestava a registrare il materiale per il secondo disco, decise di affidarsi alle mani esperte di Colin Richardson, che aveva lavorato anche con Napalm Death e Discharge.
Laddove il disco precedente presentava una tracklist con oltre venti brani, Symphonies Of Sickness (1989) si ferma a dieci, dividendoli in un “Requiems of Revulsion Side” e in un “Concertos of Carnage Side”. E’ chiaro, fin da questi dettagli, che la band, in questo ben consigliata anche dallo stesso Richardson (un vero stakanovista, capace di costringere la band a lavorare anche 15 ore al giorno!), aveva tutta l’intenzione, oltre che di limare i difetti dell’esordio, anche di strutturare al meglio le proprie composizioni (qui mediamente più lunghe rispetto al passato), cercando l’equilibrio tra forza bruta e resa sonora. Insomma, al sound caotico (ma comunque sperimentale!) dell’esordio, i Carcass rispondono con un lavoro estremamente compatto, fatto di brani in cui le loro radici goregrind (qui più evidenti nei passaggi più veloci) si sposano alla grande con influenze death-metal (le si ascoltano soprattutto nei momenti più cadenzati e nelle elaborate progressioni strumentali), dando vita ad uno dei lavori basilari dell’epopea deathgrind. I tre musicisti mostrano, nel frattempo, di aver perfezionato la loro tecnica, a cominciare da Owen, la cui batteria regge l’impalcatura dei brani con architettura più dinamiche e blast-beat meglio calibrati. La chitarra di Steer (sempre “ribassata” e dal suono potentissimo, anche grazie al sostegno del basso di Walker) si produce, invece, in tutta una serie di riff relativamente più elaborati (penso, per esempio, a quello di “Excoriating Abdominal Emanation”), sprofondando spesso nelle oscure e torbide soluzioni di certo death-metal floridiano (Obituary, Death, Morbid Angel), fino a regalare anche qualche assolo niente male (quello dai toni vagamente egiziani che squarcia in due la burrascosa “Exhume To Consume”; quello “spaziale” che s’insinua nel mid-tempo su cui si ancorano le scosse telluriche di “Excoriating Abdominal Emanation”; e, ancora, quello sibillino di “Cadaveric Incubator of Endoparasites”). Contribuisce alla putrida resa del disco qualche inserto di tastiere, a cominciare da quello che si ascolta proprio nei primissimi secondi dell’iniziale “Reek Of Putrefaction”. Tra i brani, da segnalare ancora “Ruptured In Purulence” (che evolve da una intro cadenzata che ricorda gli Slayer in una chiassosa carneficina gore), la vena melodica di "Empathological Necroticism" e il gran finale a passo di carica-zombie di “Crepitating Bowel Erosion”.
In seguito alla pubblicazione del disco, i Carcass partirono per gli Stati Uniti per una serie di concerti insieme con i Death. Si trattò della definitiva consacrazione della band, che nel 1991 pubblicherà "Necroticism - Descanting the Insalubrious", altro lavoro memorabile che perfezionerà la formula di Symphonies Of Sickness, sbilanciandosi con più convinzione sul versante death-metal, come sottolinea la leggendaria “Corporal Jigsore Quandary”, la stella più luminosa del nuovo corso.

FEAR OF GOD - Fear Of God (1988; Svizzera)

fog“Hardcore, grindcore, death metal, noise, qualsiasi cazzata - qualunque cosa. All’inizio, non eravamo molto in sintonia tra di noi, ma in seguito abbiamo raggiunto un punto di incontro. Volevamo essere “brutali”, volevamo far diventare i Fear Of God la band più estrema del mondo o, per l’appunto, la più brutale. Ogni membro della band era costantemente sotto pressione, perché doveva fornire il suo contributo con la massima intensità. La batteria doveva suonare il più velocemente possibile, le chitarre macinare riff cercando di dare vita ad un muro di rumore, il basso e le voci, infine, dovevano conformarsi alla struttura complessiva, fatta di paurose distorsioni. Così, feci del mio meglio per trasformare la mia voce in un suono non umano.”
Con queste parole, il cantante Erich Keller rievocava, qualche tempo fa, la primissima fase dell’epopea Fear Of God, formazione svizzera di Zurigo che produsse alcune delle prime e più radicali espressioni del grind-noisecore. Nella prima metà degli anni Ottanta, Keller era un tipo piuttosto solitario. Aveva voglia di suonare in una band per sfogare la sua rabbia, ma gli riusciva difficile trovare qualcuno che condividesse le sue stesse passioni. Così, s’inventò una band fittizia, gli ATTA, e iniziò a far circolare quel nome, sostenendo che si trattava di una formazione turca e che era la band più estrema di sempre. Nel frattempo, sperimentava con lavatrici (!), frullatori (!), effetti vocali piuttosto semplici, registrando qualche demo e tenendosi in contatto, grazie alla pratica del tape-trading, con alcune delle formazioni più radicali dell’epoca. L’incontro con il chitarrista Reto ‘Tschösi’ Kühne (che aveva suonato il basso nei Messiah, una delle più importanti formazioni locali in ambito thrash-death) diede una spinta decisiva agli avvenimenti. Un primo progetto, chiamato BOL (Bunch of Lies), fu abortito e sulle sue ceneri nacquero i Fear Of God, formazione che si assestò in un quartetto completato dal batterista Franz ‘Osi’ Oswald e dal bassista Dave Phillips. Era la primavera del 1987. Scum uscirà di li a poco e appena un anno dopo i Fear Of God – dopo aver suonato anche qualche concerto con i Napalm Death - decisero di radicalizzare senza mezzi termini quella proposta, registrando brani rumorosissimi e spastici, fatti di singhiozzi ritmici, collassi atonali, voci deformi e aberrazioni assortite. “La mia intenzione – dirà Keller – era quella di trasferire nella nostra musica quella sensazione di totale mancanza di speranza che, ad esempio, gli Amebix avevano colto così bene in dischi come “No Sanctuary” e “Arise”. Volevo, insomma, che la musica dei Fear Of God fosse costantemente scossa da folate di odio e disperazione.” Parole che ci preparano per l’ascolto di quella che è l’opera più rappresentativa della loro arte, ovvero l’omonimo Ep conosciuto anche con il titolo di “21 tracks Ep”. Un lavoro registrato su un otto-tracce, in condizioni precarie, al cospetto di un ingegnere del suono alle prime armi. Il mix finale non convinse Keller (che mirava ad avere un sound ancora più brutale e potente), a differenza degli altri tre membri della band che si dissero entusiasti. Comunque sia, le ventuno tracce che lo compongono rendono questo lavoro una delle esperienze sonore più estreme dell’epoca. Le urla disumane di Keller (che, per quanto sia difficile da credere, non usa alcun effetto per la voce) troneggiano su un flusso ronzante di noisegrind, tra conati demoniaci (i sette secondi di “Rubbish Planet”), marce funebri devastate da crisi di schizofrenia (“Under The Chainsaw”), groove malsani sventrati da truci duelli vocali (“Proud On Your Pride”), cantilene al ralenti (“Which Way?”), attacchi di odio smisurato (“A Life In Rigorism”, “Circle A”, Raise The Siege”), grezzissimi blast-beat (“The Two Sides Of The Coin”, “Locked Away”), pseudo canzoni annichilite da spaventose epilessi (“I’ve Seen”) e maelstrom sonori che preconizzano i Sore Throat di Disgrace to the Corpse Of Sid.
Il successivo 12” “As Statues Fell” si concentrò, invece, sulla dimensione live della band, regalandoci sferzanti schizzi no-fi in un documento qualitativamente meno valido, ma comunque capace di farci gettare l’ennesimo sguardo ravvicinato sull’underground più anarchico dell’Europa del tempo. Nel 1988, dopo aver suonato l’ultimo concerto come band di supporto ad Henry Rollins (!), i Fear Of God si sciolsero. Altre registrazioni dal vivo (ancora più ruvide e intimidatorie: "era così che avrei voluto che fosse il nostro primo Ep!", dirà qualche anno dopo Keller) furono comunque ripescate nel 1992 dalla Atrocious Records (naturalmente!) con il titolo di “Pneumatic Slaughter". Proprio in questi ultimi anni, tutto il materiale della band, arrichito di inediti ed extra, sta ritornando disponibile grazie alla F.O.A.D. Records, gestita da Giulio dei Cripple Bastards. Consiglio, dunque, a quanti fossero interessati di seguire il sito ufficiale dell'etichetta che, tra le altre cose, ha nel mirino anche alcune novità riguardanti l'universo Terrorizer.

NAPALM DEATH - From Enslavement To Obliteration (1988; Inghilterra)

index_02Se è impossibile togliere a Scum la palma di pietra miliare per eccellenza del grindcore, altrettanto difficile è negare l’importanza, nell’ambito della discografia della band di Birmingham, del suo secondo disco, con cui si assiste al deciso consolidamento della formula illustrata dall’epocale esordio. Da From Enslavement To Obliteration (disco che debuttò al numero 1 nelle classifiche indipendenti inglesi, spodestando i Sonic Youth!) in poi, l’identità del grindcore andò definendosi una volta e per sempre, anche grazie ad una produzione più nitida ed equilibrata e ad una compattezza ovviamente più marcata visto che, a differenza di quelle di Scum, queste ventidue tracce furono registrate in un’unica sessione e, soprattutto, da una line-up stabile che, a quel tempo, era così composta: Lee Dorrian (voce), Mick Harris (batteria), Bill Steer (chitarra) e Shane Embury (basso). In queste condizioni, la band riuscì quindi a comporre e registrare brani mediamente più curati, che mostrano di rimando anche una chiara crescita a livello compositivo. Introdotto da “Evolved As One”, una lunga intro per declamazione solenne, reticolato elettrico di matrice crust-punk e detonazioni/implosioni dub (una costruzione che richiama le coeve esperienze di Godflesh e Scorn), il disco completa la definizione della leggenda Napalm Death con brani al fulmicotone. Il grugnito di Dorrian è simile a quello di uno zombie sotto elettroshock o, se volete, a quello di un serial-killer martoriato dai sensi di colpa. La chitarra di Steer (accordata in Do diesis) disegna, invece, ragnatele assordanti che saturano i brani da cima a fondo, qualche volta, comunque, liberando assoli che assomigliano ad allucinazioni ultraterrene (si ascolti, per esempio, quello che si libra nel bel mezzo di “Uncertainty Blurs the Vision“). Harris alla batteria, invece, è sempre uno schizzato matricolato, autore di blast-beat che assomigliano a veri e propri bombardamenti, il centro propulsore di una band che, sarà egli stesso a ricordarlo anni dopo, in quel momento non pensava ad altro che ad andare sempre più veloce... Per quanto riguarda i brani, mentre il grosso dell’operazione è sempre dedicato ad epilessi disumane, alcuni momenti evocano già soluzioni death-metal: sto pensando ad “Unchallenged Hate”, “Mentally Murdered” e alla rutilante “Display to Me”, ma anche la stessa title track è ben oltre gli steccati del genere, con una costruzione “panoramica” che mostra più di un’intenzione di dare uno scossone alle solite scorrerie a perdifiato. Del resto, anche gli stessi appassionati del grindcore correvano il rischio di fare la fine dei consumatori di musica rock presi di mira su “Cock-Rock Alienation": quella di seguire a testa bassa non più le band o gli sviluppi di un genere, ma vere e proprie mode, ovviamente ancorate a clichés. Seguendo questo ragionamento, allora, sarà più facile comprendere la svolta death-metal preparata dall’Ep “Mentally Murdered” e completata dal loro terzo full-lenght, “Harmony Corruption”.
Una svolta che inaugurerà, in ogni caso, la fase meno interessante della loro carriera. 

O.L.D. - Old Lady Drivers (1988; USA)

r3943131128932870.Come ha giustamente scritto qualcuno, gli O.L.D. del primo storico Lp fanno pensare ad un incrocio tra i Napalm Death e gli Spazztic Blur. Ora, si presume che tutti voi conosciate i primi, ma sono certo che in pochissimi saprebbero dire qualcosa intorno alla band di Portland. Ebbene, gli Spazztic Blur suonavano – siamo intorno alla metà degli anni Ottanta – un thrash-metal tanto spigliato e sbarazzino da risolversi in una vera e propria parodia del genere portato in auge da Metallica, Anthrax, Megadeth e compagnia bella. Se avete tempo e voglia, procuratevi “Before and After [Befo Da Awbum]” e le idee vi si chiariranno. La stessa carica parodica della formazione di Portland attraversa, da cima a fondo, anche questo esordio degli Old Lady Drivers, moniker che, in quel lontano 1988, avevano scelto di usare per dare forma alle loro passioni musicali i giovanissimi James Plotkin (chitarra, basso) e Alan Dubin (voce), coadiuvati dal batterista Ralph Pimentel.
I Nostri si erano guadagnati le attenzioni della Earache Records già qualche anno prima, quando il nome di battaglia era ancora Regurgitation e tra i meandri dell’underground circolavano demo quali “Organic Backwash” (1986) e “Bathrooms Rule” (1987), messaggeri di un cupo ma chiassosissimo deathgrind intriso di feroce ironia. L’interesse di Digby "Dig" Pearson (galeotta, a quanto sembra, fu una cassetta prestatagli da Mick Harris) si risolse nella pubblicazione dell’omonimo esordio di cui più sopra, una delle opere più importanti della primissima fase del grindcore americano. La frenetica eccitazione (acuita dai rapidissimi blast-beat di Pimentel) che pervade brani quali “Total Hag” o “Corpse Full of Gunk” fa pensare ai Nuclear Death, ma siamo lontani dagli scenari depravati e nichilistici della band di Bride Of Insect. A regnare, invece, è lo sberleffo di un clown in preda al delirium tremens (riuscite a non ridere, ascoltando la voce in high-pitch di “Supermarket Monstrosity”?). Del resto, le stesse liriche hanno qualcosa da suggerirci: Just because we're old and grey / Doesn't mean we'll go away” e, ancora, sempre da “Total Hag”:”I like to scare the prune-tit scag / Drop a match in her shopping bag / Kick her in her Rickets, push her in the road / Ha! Ha! Ha! Ha! I laugh at the total hag... In uno scenario sempre più folle e surreale, ascoltiamo Dubin trasformarsi in una strega cattivissima e cinica lungo le progressioni ipercinetiche di “Tracheotomy Peashooter” e “I Laugh as I Chew...”, le stranianti divagazioni psichedeliche, con magnifica fuga melodica, di “Wisdom Lost” (Where are my dentures.../ I can't find my dentures.../ Where are my dentures.../ I really need my dentures..., giusto per darvi altre indicazioni sul livello di assurdità di questi solchi), il refrain, in stile “Frère Jacques” (la nostra “Fra Martino campanaro!), di “Die In Your Beauty Sleep”, la parodia dell’opera in “Screaming Geezer” e le bizzarrie strumentali, tra ruvida heavyness, deliquio acustico e abbandono estatico, di “Colostomy Grab-bag”. Tra i momenti più lenti, si segnala la cover, comicamente accelerata nel finale, di “Cocaine”.
A partire dal successivo “Lo Flux Tube” (1991), la band si dedicherà con sempre maggior attenzione ad un sound più sperimentale (sul brano eponimo, John Zorn, che si era innamorato del loro primo disco, presta volentieri i lancinanti acuti del suo sassofono), destreggiandosi tra industrial, avant-metal, progressive, elettronica e una discreta dose di follia.  

SORE THROAT - Disgrace to the Corpse of Sid (1988; Inghilterra)

r36733013412621507883.Tra i primi portabandiera del cosiddetto “noisecore” o “noisegrind”, oltre a Seven Minutes Of Nausea, Anal Cunt e Grimcorpses, ci sono i Sore Throat, progetto nato grazie all’interessamento del cantante Richard "Militia" Walker e del batterista Nick Royles, in seguito raggiunti dal bassista Jon "Doom" Pickering e dal chitarrista Brian "Bri" Talbot. Immersi fino al collo nel nascente movimento grindcore, i Sore Throat ne amplificarono il versante polemico e battagliero ripescando l’oltranzismo anarchico dei connazionali Discharge e Disorder, ma rievocando, oltre che il primordiale black-metal degli Hellhammer e le forme più violente dell’hardcore americano, tutta una serie di produzioni sotterranee che avevano contribuito a mischiare in maniera sempre più brutale lo spirito del punk con la cruda efferatezza del rumore: dai connazionali Plasmid di “Lust for Power” agli americani Occult di “Bloodthirsty”, passando per gli svizzeri Køtsen di “Attack of the Savage Horde” (non a caso, un side-project degli Hellhammer), i giapponesi Z di “Violence Action” e i belgi Hellsaw di “Exorcism Shall Fail”. L’obiettivo della band, così come ricorderà più volte quel pazzoide di Walker, fu chiaro fin dall’inizio: essere incazzati con tutti, bere fino a svenire e produrre il rumore più crudo possibile. Naturalmente, come postilla al primo imperativo si potrebbe aggiungere: farsi quanti più nemici possibili. Ovviamente, tutto questo non poteva prescindere da una precisa strategia musicale: 1) zero prove; 2) registrare, il più in fretta possibile, solo conati brevi, brevissimi di vomito sonoro per épater le bourgeois. Inoltre, affanculo tutta l’industria discografica e affanculo tutti i punk che, nel frattempo, avevano dato il culo per un posto al sole!
“Ce l'avevamo a morte con tutti quei ridicoli idioti egocentrici della scena inglese, che si nascondeva dietro il loro "anarchismo" giusto per trovare una scusa per scopare”.  Date tutte queste premesse, c’era un solo titolo da dare al loro primo demo: “Aural Butchery”. Perché, gira e rigira, di macello sonoro si tratta. E se il primo riff, quello di “Screams Of Pain”, riecheggia pari pari quello di “Instinct Of Survival” dei Napalm Death, il caos è già preannunciato da tutta una serie di rumori sparsi, fischi assordanti, sfracelli metallici, aborti di riff e sputacchi vari. Un delirio no-fi puro e semplice. Su “Death to Capitalist Hardcore”, l’odio contro la musica della ribellione, che finisce per farsi allettare dai soldi del SISTEMA, è più viva che mai (la stessa copertina, tra l’altro, raffigura un omino impalato che regge il simbolo dei D.R.I., formazione hardcore americana che in quel periodo, siamo nel 1988, stava iniziando a raccogliere qualche frutto economico). In ogni caso, a quest’altezza i Sore Throat sono musicalmente ancora riconoscibili e in 43 brani, per scarsi diciannove minuti di musica, oscillano tra crudissimo crust-punk e scariche di bile grind in perfetto stile “You Suffer” (Napalm Death). Sul primo Lp, “Unhindered By Talent”, i brani sono più dinamici e mediano tra l’onnipresente Scum (soprattutto per la sua venerazione per il blast-beat), retaggi crust-punk e micidiali anthem in orbita Discharge. Non mancano momenti di puro divertissement, come il power-pop per chitarra e voce di “Go Away” e il rifacimento della filastrocca folk di Bernard Wrigley, “The Mole Catcher”.
Ma se c’è un disco da consegnare alla storia della musica più estrema e incompromissoria di sempre, quello è certamente Disgrace to the Corpse of Sid (1988), un trionfo noisegrind che stipa su due lati ben 101 brani (se di brani si può ancora parlare…). Con quest'opera parossistica e demente, divertentissima e temibile, i Sore Throat portarono il grindcore, appena un anno dopo la sua nascita ufficiale, alle estreme conseguenze, risolvendolo, nelle 90 (!) tracce del lato A, in schegge di blast-beat, rantoli subumani, conati acidi, fiammate disastrose, brutalismi vocali (giusto qualche esempio? “Crazy Blood Whirlwind”, “Mosh Is Thrash”, “Spleurk!”, le aberrazioni “androidi” di “Do You Remember?” e “Fuck State Before End”, i fischi metallurgici di “No More Hurt Of Life”), il tutto deturpato da una serie di effetti (echi, feedback, riverberi, etc.).
E’ l’ottusità assurta a filosofia di vita, unica àncora di salvezza contro la progressiva distruzione dell’umano, in nome del Santo Profitto. E’ puro caos psichedelico, ma suonato da ragazzi ubriachi in preda ad un raptus di misantropia. Improvvisamente, la stessa “rivoluzione” sonora inaugurata dai Napalm Death appariva già vecchia, superata a destra da quello che è, a tutti gli effetti (in linea con il sacro comandamento dei Discharge: “noise not music”), un gesto avanguardistico. Bisognerà aspettare i Last Days Of Humanity del terminale Putrefaction In Progress per ascoltare un sound così traumatico e definitivo. Ma di questo, parleremo più avanti.
Se, dunque, il lato A rappresentò il grado zero del grindcore, il lato B presentava brani più lunghi e strutturati, ma per la band non si trattava che dell’altra faccia (quella relativamente più pulita, insomma) della stessa medaglia, come sembra suggerire, fin dal titolo, lo sludge-doom epico di “Different Sides... Of Same Coin”. Accanto alla presa per il culo in forma di cantilena idiota di “The Ballad Of Mad Mickey”, sfilano gloriose allucinazioni post-punk in orbita Flipper (“Famine”, “Desire (Peniside)”, “Pride”), il nichilismo crust a là Amebix di “The Enemy Within”, il punk-metal a rotta di collo di “Chapels Of Ghouls” e pillole di Henry Rollins al ralenti (“Prisoner”). Soluzioni, quest’ultime, che non erano per niente estemporanee, visto che, appena qualche mese dopo, la band (che per l’occasione cambiò il nome in Saw Throat) le approfondì in un concept-album, programmaticamente intitolato “Inde$troy”, interamente dedicato alla catastrofe ecologica, annunciando il proprio messaggio con queste parole stampare nel retrocopertina: The meek shall inherit the earth, the meek shall inherit the excrement of western society. Le devastazioni noisecore erano, insomma, solo un ricordo e, laddove c’era esplosiva condensazione di una forza bruta e senza limita, ora si facevano largo anche echi di apocalittico industrial-doom in linea con quanto, negli stessi anni, stavano facendo i Godflesh.
Dopo una lunga e misteriosa introduzione fatta di plumbei soundscapes, ecco i dolorosi interstizi Swans riempirsi di allucinazioni post-atomiche sotto forma di modulazioni-in-feedback (“Hatred”) e le rumorosissime chitarre di “Land” ed “Energy”. Se, dunque, il rituale metallurgico, saturo di eco, di “Waste” trasferisce sostanzialmente il caos apicale di Disgrace to the Corpse of Sid in una dimensione metafisica, l’anthem a perdifiato di “Air” stabilisce, invece, un nesso tra la furia politicizzata dell’hardcore e le fughe intergalattiche dei Chrome seconda maniera. Confermano, quindi, un’irrefrenabile volontà sperimentale, la danza industriale fatta di clangori metallici e manipolazioni vocali di “?”, il noise-rock assordante di “Water” e il post-punk metallico, altezza Killing Joke, di “Ignorance”, che si disintegra nella lenta e immateriale “Outro”, chiudendo un cerchio attorno all’agonia della terra. Un imprevedibile colpo da maestri, di fronte al quale le schegge crust-punk del successivo “Never Mind the Napalm Here's Sore Throat” (loro ultimo disco) appaiono come uno sterile ritorno a più scontate passioni giovanili.  

BLOOD - Impulse to Destroy (1989; Germania)

bloodI tedeschi Blood ebbero il grande merito di contribuire alla diffusione del virus grindcore in Europa, aprendo un varco oltre la cortina di ferro grazie soprattutto al classico Impulse To Destroy. Nata nel 1986 in quel di Spira, nella Germania sud-occidentale, la band inizialmente si divertiva suonando un noisecore deforme e malatissimo ma non privo di una buona dose di sana ironia. I demo di quel periodo furono registrati in maniera amatoriale da quelli che, a conti fatti, erano musicisti alle prime armi (il chitarrista Bernd Eisenstein, il bassista Taki, il cantante Geier e il batterista Radtke), interessati a fare casino (non a caso il primo loro “aborto” si chiama “Infernal Horror”…) tra urla in libera uscita, riff sgangheratissimi che sembrano mimare il suono di una motosega impazzita e, soprattutto su “Deathcore, deliri alcolici senza capo né coda che anche i fanatici del noise più radicale si vergognerebbero di ascoltare. Le prime avvisaglie grindcore iniziano a manifestarsi su “Heinous Noise”, anche se, gira e rigira, siamo sempre in pieno territorio schifo lo-fi. “Spasmo Paralytic Dreams” migliora leggermente le cose, ma è solo a partire da “Recognize Yourself” che si possono godere i frutti maturi del loro sound: un perverso ibrido di grindcore (il versante punk dei Napalm Death unito al disgustoso approccio gore dei Carcass), black-metal e thrash incalzante in cui svettano i grugniti alieni, carichi di riverbero, di Martin "Chicken" Jäger. In coda a quest’ultimo Ep, la band si concede anche il lusso di un numero in bilico tra minimalismo e world-music deviata (“Outro (Febrile Massacre)”).
Registrate durante la stessa session, le tracce che andranno a comporre l’esordio sulla lunga distanza Impulse To Destroy si muovono lungo le stesse coordinate. La produzione è volutamente “sbagliata” e conferisce ai brani una massiccia dose di aura demoniaca. La prima doppietta, “Wings of Declaration” e “Foulmouthed Politicians”, presenta blast-beat primitivisti e un susseguirsi di rantoli sformati e strida concitate. La band mostra di avere dalla sua una discreta quota di creatività, nonostante un’apparente uniformità stilistica: fanno parte del lotto, infatti, una “Dogmatize” che sculetta a passo di polka, l’ortodossia grind trasformata in una seduta di elettroshock (“Technical Abortion”, “A Big Cake”), le fiammate spaziali della chitarra in “Beyond Time And Space”, lo sfogo-zombie di “Jesus Never Lived”, la follia vocale tascabile di “Economic Cancer”, il noise-grind tormentato di “Unsophisticated Sorehead” ed epici pow-wow come “Blood”, “Retrogression” e, su tutti, “The Greed”, ovvero i Repulsion rifatti da dei Beherit sotto ipnosi (e, almeno in quest’ultimo caso, si può tranquillamente parlare di capolavoro assoluto!).
Negli anni successivi, la band avrebbe registrato dischi meglio prodotti, basati su un songwriting più meditato e imparentato col death-metal (“Christbait”  e, soprattutto, “O Agios Pethane”), ma se c’è un inferno cui gli appassionati del grindcore dovrebbero aspirare quello è sicuramente racchiuso tra i solchi di Impulse To Destroy, un disco la cui aura leggendaria non ha ancora smesso di brillare.

NAKED CITY - Torture Garden (1989; USA)

cover_1161720112010Quando la miccia del grindcore fu innescata dalla pubblicazione di Scum dei Napalm Death, il sempre curioso sassofonista americano John Zorn non si lasciò sfuggire l’occasione di indagarlo, riutilizzandone all’occorrenza gli stilemi in maniera del tutto personale. Nello stesso periodo (siamo alla fine degli anni Novanta), il nostro eroe andava sviluppando anche un insano amore per tutta la scena hardcore-noise giapponese, in cui riconosce soprattutto il genio folle dei Boredoms. Questa passione per tutte le sfaccettature della musica estrema lo spingeranno a scrivere brani sempre più brevi, in cui concentrare una miriade di idee e di soluzioni musicali.
“I Naked City erano una sorta di “workshop compositivo – dirà qualche anno dopo. (…) Il mio scopo era quello di testare fino a che punto potevo spingermi con i limiti imposti dalla formula sax, chitarra, tastiere, basso e batteria. Questa era la cosa fondamentale per me: cambi improvvisi eseguiti in un modo assolutamente pulito. Una parola dietro l’altra, senza restare troppo a lungo nello stesso posto”. Con queste idee in testa, fu varato il progetto Naked City (nome ispirato all’omonimo catalogo del fotografo Arthur Fellig, conosciuto con lo pseudonimo Weegee, ma anche ad una pellicola di Jules Dassin) e, per farvi capire un po’ come stavano le cose, ecco la lista dei musicisti che vennero chiamati a raccolta: il chitarrista Bill Frisell, il batterista Joey Baron (entrambi provenienti dall’universo jazz), l’altro chitarrista Fred Frith (già artefice di musiche colte e sperimentali alla corte di Henry Cow, Art Bears, Massacre e Golden Palominos), il tastierista Wayne Horvitz e, infine, il cantante Yamatsuka Eye (leader dei Boredoms), il cui arrivo spinse definitivamente l’ago della bilancia da un iniziale jazz-noir più o meno isterico verso un folle mix di free-jazz, grindcore e swing, il tutto condito con un immaginario che faceva leva su sulle opere di Bataille, la letteratura erotica e truci visioni sadomaso. Anche se tracce di grindcore si trovano già sull’omonimo lavoro (sto pensando, per esempio, a brani come “You Will Be Shot”, “Hammerhead”, “Obeah Man”), il disco essenziale per il nostro racconto è senza dubbio Torture Garden, opera imprendibile che frulla tutto il ben di Dio di cui si diceva poc’anzi, stipando ben 42 brani in scarsi ventisei minuti di musica. A dare un’idea precisa del clima generale del disco è l’iniziale “Blood Is Thin”: intro in stile noir-metropolitano, squarci jazz incastonati dentro furibondi ostinato metallici e  urla belluine a fare gli onori di casa. Follia. Pura, vertiginosa follia. Tracce del japa-noise non mancano: ascoltare, per credere, gli schizzi di “Boneheah” (che Haneke utilizzerà nel suo lungometraggio “Funny Games”), “Speedball”, le tortuose evoluzioni di “Shangkuan Ling-Feng” o le trame progressive di “Osaka Bondage”. Il tutto potrebbe sembrare una sorta di parodia di quanto Napalm Death, Carcass e compagnia bella stavano facendo in quello stesso periodo, magari nel solco degli O.L.D. del primo disco, molto amato dallo stesso Zorn. Invece, Torture Garden non fa altro che mostrare, in presa diretta, le possibilità insite in quella nuova forma di tortura musicale. E, così, tra sperimentazione chitarristica terremotata da schianti disumani (“Numbskull”, The Blade”), surf-music sbilenca (“The Prestidigitator”), assurdismo tribaloide (la title track), esplosioni cacofoniche che deflagrano lasciando sul selciato brandelli di forme e contenuti (“The Ways Of Pain”, “Sack Of Shit”, “Shallow Grave”), esalazioni dub che si diffondono da cadaveri grind-noise in avanzato stato di decomposizione (“Dead Dread”), ipotesi di cabaret mutante (“Speedfreaks”), cartoline dall’Egitto (“Cairo Chop Shop”), sberleffi country (“N.Y. Flat Top Box”) e aurore in forma di sputo (“Gob Of Spit”) si consuma uno degli atti terroristici più spassosamente disturbanti degli annali della musica popolare. 

REPULSION - Horrified (1989; USA)

repulsion_coverFosse stato pubblicato nel 1986, quando, in forma di demo, ancora si chiamava “Slaughter of the Innocent”, Horrified avrebbe sicuramente guadagnato qualche punto in più nella corsa alla definizione del grindcore. Fatto sta che solo nel 1989 questi ventinove minuti e rotti, registrati a Flint, nel Michigan, videro la luce grazie all’interessamento della solita Earache Records, che lo pubblicò sulla sua sussidiaria Necrosis Records, gestita da Bill Steer e Jeff Walker dei Carcass. All’epoca, sotto la guida del cantante e bassista Scott Carlson, la formazione era completata dai chitarristi Matt Olivo e Aaron Freeman e dal batterista Dave "Grave" Hollingshead, ragazzi decisi a spingere al limite le loro influenze thrash-death, come avevano già dimostrato quando, nel biennio 1984-86, si facevano ancora chiamare Tempter e, quindi, Genocide (un periodo ben fotografato dalla compilation “The Stench Of Burning Death”). Quest’ultimo era lo stesso nome del demo che i Genocide avevano registrato all’inizio del 1986, sorprendendo gli appassionati grazie all’uso di testi ispirati ai film dell’orrore, all’utilizzo di blast-beat, di un basso distorto e di un approccio volutamente lo-fi. In quello stesso anno, riandando con la mente all’omonimo film di Roman Polanski, i Nostri decisero di chiamarsi Repulsion e iniziarono a pensare alla possibilità di autoprodursi un disco, vista la difficoltà di rintracciare un’etichetta pronta a scommettere su di loro. Nacque così “Slaughter of the Innocent”, caratterizzato da un suono ancora più violento e spedito del primo demo. Nonostante il successo negli ambienti dell’underground, la band decise però di sciogliersi, perché ancora delusa dall’indifferenza delle varie label. In ogni caso, si era guadagnata un enorme rispetto nei circuiti del metal estremo perché, nonostante fosse ancora legata a certi stilemi thrash-death, nei brani che aveva registrato era riuscita a fotografare in maniera inequivocabile l’evoluzione in atto verso forme sempre più furiose e ipercinetiche delle sonorità su cui si erano concentrati formazioni quali Slayer, Venom, Discharge, Slaughter, Bathory e via di questo passo. “Eravamo cresciuti – ricorda Scott – in una città che non aveva futuro. Eravamo incazzati, ma c’è da dire che ci siamo divertiti molto mentre lo eravamo. La musica era così importante per noi in termini di rilascio emozionale. Chissà cosa sarebbe successo se non avessimo riversato tutta quell'energia distruttiva in musica…”. Passarono tre anni e, come si diceva all’inizio, dall’Inghilterra arrivarono segnali incoraggianti, tanto che col nome di Horrified quel materiale venne finalmente distribuito in maniera più adeguata.
Fin dall’iniziale “The Stench of Burning Death”, siamo assaliti dal suono distorto del basso e delle chitarre (appena macchiate di fuzz), sostenute sullo sfondo da un batterismo torrenziale che ben si sposa con il riffing vorticoso delle sei corde, pronte a trafiggere questo assordante marasma con assoli lancinanti e fulminei. Scorrono, quindi, come una mandria di tori lanciati a testa bassa, classici come la martellante "Slaughter of the Innocent", la maniacalità stordente di “Decomposed”, “Radiation Sickness” o “Six Feet Under”, gli stop-and-go rovinosi di “Pestilent Decay”, l’assalto death’n’roll di “Bodily Dismemberment”, il primitivismo esagitato di “Repulsion” e della title track, la spiraleggiante e corrosiva "Maggots in Your Coffin", mentre un numero come “Black Breath” si attesta su cadenze più umane, pur non abbandonando l’atmosfera putrida e maledetta che contraddistingue tutta l’opera. Anche se raggiunse la superficie solo quando Napalm Death e Carcass avevano ormai già pubblicato i loro epocali esordi, Horrified fu comunque salutato dagli addetti ai lavori come un tassello fondamentale per la costruzione del genere più violento e brutale dell’epoca. Anzi, gli stessi maestri inglesi non tardarono a far sentire la propria voce, ringraziando pubblicamente i Repulsion per la loro musica. Nel 1991, la band registrò un nuovo demo, “Rebirth”, ma Scott non era più convinto di proseguire in quell’avventura e decise di darci un taglio trasferendosi a Chicago. Dietro di sé, lasciava comunque una leggenda ancora dura a morire. 

TERRORIZER - World Downfall (1989; USA)

220pxworld_downfall_originalIntorno alla metà degli anni Ottanta, Oscar Garcia e Jesse Pintado sono due appassionati di metal che bazzicano l’underground losangelino. In breve tempo, decidono che il metal è la loro strada maestra e che bisogna assolutamente darci dentro in prima persona. La loro prima formazione fu chiamata Majesty ma ebbe vita breve, perché l’ascolto delle nuove tendenze estremiste del death e del nascente grindcore imponeva nuove soluzioni e una nuova ragione sociale. Siamo nel 1987 e i Terrorizer vengono al mondo con l’aggiunta del batterista Pete Sandoval e del bassista Alfred "Garvey" Estrada, anche loro di origine ispanica. L’impatto delle sonorità sviluppate dai Napalm Death fu assolutamente debordante, tanto che il quartetto passò rapidamente da soluzioni thrash-death (che dominavano ancora sui demo “Nightmares” e l’omonimo del 1988) ad un approccio di chiara ascendenza grindcore, come mostrerà di lì a poco lo split-album condiviso con i Nausea. Nel frattempo, però, i Morbid Angel, che si apprestavano a registrare il loro disco d’esordio (l’epocale “Altars Of Madness”) avevano messo gli occhi su Sandoval (e chiamali fessi!) e, nel momento in cui lo ingaggiarono, di fatto fu messa la parola fine sull’esperienza Terrorizer. A Shane Embury (da poco entrato tra le fila dei Napalm Death) sembrò però un peccato mortale che quella piccola, grande formazione non avesse avuto l’opportunità di registrare neanche un disco. Fu così che decise di iniziare la sua opera diplomatica presso il quartier generale della Earache Records, praticamente costringendo il boss Digby Pearson ad alzare la cornetta per proporre ai ragazzi un bel contratto. Così, mentre Sandoval portava a termine le registrazioni del primo storico lavoro di una delle leggende del death-metal, Pintado e Garcia piombarono in Florida e insieme al vecchio amico e con l’aiuto di Dave Vincent (che si occupò delle parti di basso) registrarono le sedici tracce che andranno a comporre la scaletta di World Downfall, disco destinato a lasciare un marchio indelebile sulla storia del grindcore e non solo. Prodotto da Scott Burns (che in seguito lavorerà per i maggiori gruppi della scena estrema del metal), il disco – registrato in appena otto ore – giunge sulle coste della sinistra e giovanissima isola grindcore muovendo da imperiose mareggiate thrash-death (gli Slayer e i Celtic Frost erano i nomi che avevano spinto Garcia e Pintado ad imbracciare i loro strumenti…), proponendo un sound granitico e stordente, i cui nuclei portanti sono rappresentati da un batterismo preciso e inarrestabile e dal riffing vorticoso della chitarra (spesso doppiata dal basso). Brani storici quali “After World Obliteration” (in cui è subito evidente il connubio tra la bruta razionalità thrash-death e le improvvise deflagrazioni, sostenute da ossessivi blast-beat incastonati su feroci mitragliate al doppio pedale, del grind), “Storm Of Stress”, “Fear Of Napalm”, “Strategic Warheads”, “Resurrection” (che alterna mid-tempo e assordanti rincorse a perdifiato), “Ripped To Shreds” e "Dead Shall Rise" assomigliano, invece, a mulinelli di elettrica furia che non conoscono ostacoli, ma procedono senza freni, come spinti da un impulso primordiale, da un bisogno inconscio di mostrare al mondo che non c’è tempo da perdere, perché ogni secondo è prezioso e contribuisce a mettere in chiaro le cose. Del resto, come poi racconterà Sandoval, fin dall’inizio la band aveva avuto un unico desiderio: suonare veloce e incazzata. Suonare, testualmente, “Grindeathcore Extreme Metal”. Missione compiuta!

EXIT-13 - Green Is Good! (1990; USA)

exit13_01Dopo aver messo a punto la formula con un trittico di demo, nel 1990 gli Exit-13 riuscirono a registrate un vero disco grazie alla tedesca Ecocentric Records. Green Is Good! si rivelò essere un bel colpo per il cantante Bill Yurkiewicz, anima della band che qualche anno dopo sarebbe diventato co-proprietario della Relapse Records fondata da Matthew F. Jacobson. Insieme al chitarrista Steve O'Donnell e al bassista Joel DiPietro, Yurkiewicz contribuì, infatti, ad espandere le possibilità del grindcore attraverso un approccio anarchico e sperimentale, ma anche profondamente ironico. Già dai primissimi secondi di “Anthropocentric-Ecocidal Conundrum” si avverte l’urgenza di attraversare gli stilemi del genere con piglio parodico (nel solco di dischi quali “Gloom” dei Macabre e Old Lady Drivers degli O.L.D.), scegliendo subito un colpo ad effetto che si traduce in un’introduzione basata sul duetto tra un fraseggio acustico di chitarra e vocalizzi malati. Quando, dopo circa un minuto e mezzo, ci si sposta su versanti più ortodossi, allora ci si ritrova ad ascoltare i Carcass mentre jammano con dei fricchettoni strafatti di acido. Proprio quest’ultimo sarà il canovaccio lungo cui si muoveranno le restanti tracce, dove incroceremo le follie semi-controllate di “Reevaluate Life!”, “An Outline of Intellectual Rubbish” e “Constant Persistence of Annoyance”, gli strascichi hardelici di “Gaia”, un’ipotesi di ballata grind (!) insediata da spastiche intrusioni jazzcore (“Ecotopian Visions”), la coda patetica di “Self-Misunderstood Cerebral Masturbation” e le acrobazie strumentali di “The Funk Song” (non solo funk, ma anche jazz e blues!). E’ chiaro, insomma, che il “verde buono” di cui parla il titolo è quello delle foglie della cannabis (“Non abbiamo mai registrato un secondo di musica da sobri!”, ricorderà qualche anno dopo un orgoglioso Yurkiewicz). Tuttavia, se si leggono le liriche, si capisce che, pur essendo un attimino sballati, i Nostri erano veramente incazzati con l’umanità, unica vera responsabile della progressiva distruzione della terra. Ecco, per esempio, cosa recitano i primi versi di “Anthropocentric-Ecocidal Conundrum”: Animals destroyed by the life of man / Greed and anthropocentrism have gotten out of hand! / What kind of persuasion will change man's course??? / Technology "progress" makes things worse! / We're looking at nature to see what profits can be turned, / Irrefutable proof of man's destruction but we have not learned!
Qua e là, si ascolta anche qualche sample, come il tema di “Jeopardy” (un famoso game-show americano) che spunta all’inizio della claustrofobica “Unintended Lyrical Befuddlement” o quello di “Underdog” (un cartone animato) che fa capolino in “Shattnerspackle”, congedo per frizzi, lazzi ed esplosioni di un disco che Frank Zappa avrebbe sicuramente accettato di produrre…
Prima di sciogliersi nel 1997, la band registrerà, con la sezione ritmica dei Brutal Truth, il robusto ma più ordinario Ethos Musick (che non arretra di un millimetro dinanzi alla bestialità dell’uomo, tanto da citare all’interno del booklet un tagliente passo di Samuel Langhorne Clemens, aka Mark Twain: There are times when one would like to hang the whole human race, and finish the farce), qualche altro Ep, un selvaggio split-album con gli Hemdale e, infine, uno strampalato “Smoking Songs” (1996) in cui, oltre a ritornare sulla loro ossessione per la marijuana, i Nostri sceglieranno di tagliare completamente i ponti con il grindcore, concentrandosi su riletture di brani blues/jazz degli anni Venti e Trenta. Dei pazzi, insomma.
In seguito, Yurkiewicz cercherà, con il progetto Never Healed, di  ridestare dal torpore quella miscela di grindcore, jazz, blues, rock e stravaganze assortite che all’inizio degli anni Novanta aveva creato non poco scompiglio nella scena estrema.

NUCLEAR DEATH - Bride Of Insect (1990; USA)

h31fkervcpse1g8d2eyeI Nuclear Death sono stati una delle prime, se non la la prima band di metal estremo a vantare una donna come cantante. Si chiamava Lori Bravo ed era un vero animale da palcoscenico, perfetta per completare il quadro di alcune delle performance più selvagge a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. La Bravo suonava anche il basso e fondò la band a Phoenix, in Arizona, nel marzo del 1986, insieme con il chitarrista Phil Hampson e il batterista Joel Whitfield. Sul primo demo, “Wake Me When I'm Dead” i tre mostrano di essere in piena febbre speedcore, risalendo, quindi, attraverso i successivi “Welcome to the Minds of the Morbid” e “Vultures Feeding”, fino al debutto di Bride Of Insect, uno dei lavori più importanti della fase primordiale del grindcore. Tuttavia, in queste dodici tracce i Nuclear Death son ben lontani dal ripassare la lezione dei Napalm Death, anzi consegnano agli annali del genere uno dei suoi lavori più cacofonici. Per realizzare quello che Joel Whitfield si divertirà a chiamare “deathrashardcorextreme music”, il trio non soltanto si ispirò alle prime e più grezze versioni del grindcore, ma iniettò nel suo sound dosi letali di proto-death, thrashcore e black-metal. La produzione lo-fi contribuì in maniera decisiva alla riuscita di un disco che, ancora oggi, colpisce per il suo caotico ardore, in cui il febbricitante lavoro della batteria e il rumorosissimo rifferama della chitarra creano uno scenario infernale e dissonante contro cui la spiritata voce della Bravo si schianta senza sosta, fino a sanguinare, declamando versi in cui la bestialità e la depravazione del genere umano emergono in tutta la loro sconvolgente crudezza.
Il biglietto da visita si chiama “Necrobestiality” e basterebbe da solo a confermare quanto fin qui sottolineato. I tre musicisti suonano come se non ci fosse un domani, come se la morte li stesse aspettando appena fuori dalla studio di registrazione. Non è un disco, è una seduta di elettroshock e la mente non può fare altro che partorire aberrazioni (I fuck the whore's battered corpse / and place the fetus in a bag / I smile at my handwork / and pledge my allegiance to death..., da “Corpse of Allegiance”; I lay within your viscera / cold and wet against my flesh / together we dream of darkness / and of death, my only love..., da “Feral Viscera”), riflettendo con le parole ciò che la musica espone attraverso un flusso psicotico di note e di timbri deformi, un wall of sound profondamente alienante proprio perché all’apparenza bizzarro, quando non surreale. Qualche riff più riconoscibile lo si riesce anche a percepire, ad esempio nell’oltranzismo Repulsion di "Stygian Tranquility", mentre quasi intimorisce, per la sua sinistra pulizia, l’arpeggio che introduce "Fetal Lament: Homesick". Ma si tratta di eccezioni, piccoli appigli attraverso cui, probabilmente, meglio interpretare frullatori indemoniati come quelli di “Cremation”, “The Beloved Whore Celebration” e “Vultures Feeding”. Alla fine, un titolo come “The Misshapen Horror” (l’orrore deforme) potrebbe bastare a darvi un’idea di quello che vi aspetta, preparandovi al meglio per le trame ancora più oscure del successivo “Carrion For Worm” (1991), realizzato con Stewe Cowan al posto di Whitfield. Si tratta di un’opera per certi versi ancora più radicale, in cui dominano il risuonare catacombale del basso e la voce cavernosa e gutturale della Bravo. Brani come “Proposing to the Impaled”, “Moribound”, “Return of the Feasting Witch” e “Vampirism” rendono tutt’altro che forzata la descrizione di black-grind. In seguito, con All Creatures Great and Eaten (1992), la Bravo, coadiuvata dal solo Cowan, realizza il suo disco più sperimentale. Disturbanti e paranoici, gli otto brani qui stipati, per venti minuti circa di durata, trasformano il deathgrind malato delle origini in un’atmosferica e psichedelica celebrazione dei lati più oscuri della psiche umana, a tratti facendo pensare agli Abruptum alle prese con il canzoniere dei Napalm Death. La horror-ambient di “Aunt Farm”, invece, anticipa alcune delle soluzioni della seconda fase della loro carriera, quella di album come “The Planet Cachexial” e “Harmony Drinks of Me”, ormai lontani dagli estremismi metallici degli esordi.

RIGHTEOUS PIGS - Stress Related (1990; USA)

righteouspigs_stressrelated300Prima di unirsi ai Napalm Death, con cui avrebbe esordito su "Harmony Corruption" del 1990, il chitarrista Mitch Harris aveva guidato i Righteous Pigs, band proveniente da Las Vegas, nel Nevada. Della formazione originaria facevano parte anche l’altro chitarrista Stephen Chiatovich, il batterista Scott Leonard e il cantante Joe Caper. Un paio di demo avevano preparato il terreno all’esordio targato 1989, dal titolo “Live and Learn”. Si trattava di un truce concentrato di thrash-grind, un lavoro ancora poco originale e penalizzato da una produzione troppo piatta. Il disco da recuperare assolutamente è, invece, Stress Related, registrato con il nuovo batterista Alan Strong. Rispetto all'esordio, il salto di qualità è impressionante, come dimostra subito una “Eulogy” che rallenta e accelera con il coltello tra i denti, scossa dai grugniti bestiali di Caper e propulsa dal riffing thrash-death (prevalentemente in mid-tempo) di Harris. Il disco riparte dalla lezione dei Terrorizer, ma finisce per superarla grazie ad un songwriting più avventuroso, che si esibisce in partiture dinamicamente vive quali “Boundries Unknown” o “Open Wound”, perfetti esempi di tensione costruita attraverso una successione razionale di accumulo, rilascio e scariche selvagge.
Il suono delle chitarre è sempre distorto ma complessivamente “catchy”, mentre la sezione ritmica, pur non essendo particolarmente creativa, riesce comunque ad offrire uno sfondo elastico e vibrante. Ascoltare, quindi, numeri come “Turmoil” e la title track significa saggiare la turgida consistenza di un sound che, mentre ha presente la lezione dell’ultimo avamposto in fatto di estremismo sonoro, riconosce come essenziale la necessità di prodursi in soluzioni che siano anche accattivanti. Insomma, brutali ma con raziocinio, taglienti ma con groove. Il grindcore dei Righteous Pigs è, quindi, più che un genere, uno stato mentale, un non–luogo in cui possono convergere, anche nel breve spazio di una canzone (prendete, per esempio, “Overdose”, che vanta una delle performance vocali più riuscite di Caper), la furia giovanilistica del punk-hardcore, il truce intellettualismo del death e le costruzioni trascinanti del thrash. Certo, le fiammate a rotta di collo che i Napalm Death avevano istituzionalizzato una volta e per tutte appena due anni prima ritornano sovente ad annichilire il tutto, ma alla band non interessava perseguire il sentiero già battuto sul primo disco, quanto, piuttosto, muoversi ai margini di un crossover che, tra l’altro, favorì anche il passaggio da liriche dedicate a doppie penetrazioni, escrementi e via di questo passo ad altre ben più incisive, che guardavano a tematiche quali l’oppressione delle società capitalistiche (“Crack From The Pressure”), gli spazi cosmici da esplorare (“Boundries Unknown”) o il futuro “desertico” della terra (“Ruinous Dump”).

ASSÜCK – Anticapital (1992; USA)

assuckUno dei culti più duraturi dell’epopea grindcore è sicuramente quello degli americani Assück. Formatisi nel 1987 a Saint Petersburg, in Florida, grazie alla comune passione del batterista Rob Proctor e del chitarrista Steve Heritage per l’hardcore ipercinetico dei Septic Death, gli Assück  riuscirono con una manciata di Ep e due album all’attivo a creare un sound assolutamente originale. Le loro prime produzioni (il demo “Born Backwards”, l’Ep “Necro Salvation” e lo split con gli O.L.D., quest’ultimo il momento migliore della loro prima fase), uscite sul finire degli anni Ottanta, mostravano comunque una band ancora troppo rispettosa dei modelli inglesi. Poi, a partire dal secondo Ep, “Blindspot”, iniziò a delinearsi il loro scurissimo deathgrind, che ibridava la lezione dei Napalm Death con un death-metal cavernoso. Tutti i brani imperversano tra brucianti accelerazioni e mid-tempo in cui emergono finanche influenze gore. Nello stesso anno, siamo nel 1992, la band dà alle stampe il suo lavoro più rappresentativo, Anticapital, registrato nei Morrisound Studios con la supervisione di Scott Burns, nomi che tutti gli appassionati sanno essere indissolubilmente legati alle sorti del death-metal della Florida.
Fin dall’iniziale “Socialized Crucifixion”, le caratteristiche del loro sound sono in bella evidenza: un rifferama pesantissimo, sporco e dissonante; una batteria dal timbro stentoreo (suonata con estrema perizia tecnica da quel Rob Proctor che qualche anno dopo ritroveremo, anche se per poco, alla corte dei Discordance Axis); un growl – quello del cantante Paul Pavlovich - torbido, malsano, che sputa veleno anarchico contro il Potere e tutti i condizionamenti sociali (Your lifesblood has been systematically drained away by those who rule over you. Shouts and screams of freedom fall on deaf ears as our intellect is discredited and displayed on the gallows of our lives). Diciassette brani in poco più di un quarto d’ora: dai rovinosi assalti di “The Thousand Mile Stare”, “October Revolution” e “State To State” alle trame contorte di “Epilogue”, passando per le scomposizioni Angkor Wat di “Population Index”, gli interludi in mid-tempo di “Spiritual Manipulation” e gli stop-and-go con groove accentuato di “Civilization Comes, Civilization Goes”. Dovranno passare cinque anni (un lustro in cui ci saranno un paio di tour sia negli States che in Europa) prima di rivedere i nostri all’opera. Solo nel 1997, infatti, uscirà Misery Index, il loro canto del cigno. Il suono si è scurito, diventando leggermente più caotico e meno “punk”, mentre la voce di Heritage - che ha preso il posto del dimissionario Pavlovich - lavora con un registro più basso. Ascoltare questo nuovo quarto d’ora di musica significa imbattersi ripetutamente nel fantasma degli Immolation. Per carità: sempre di grindcore gli Assück si occupano, eppure è impossibile ripassare brani come “QED” (con l’indimenticabile incipit: Dare to speak of hope and aspiration. These are foul words, manufactured idols and the bait of lemmings) o “Salt Mine” (forte di un minaccioso mid-tempo), giusto per citare la coppia iniziale, senza pensare alle soluzioni messe in campo dalla band di “Dawn of Possession” e “Here In After”, così come balza immediatamente alle orecchie l’assonanza tra il growl di Pavlovich e quello di Ross Dolan (anche se, per dovere di cronaca, Pavlovich ha sempre citato come sua principale influenza Erich Keller degli svizzeri Fear Of God). Insomma, quello di Misery Index è un pandemonio deathgrind, un claustrofobico tour de force scolpito con furia maniacale (“Talon Of Dominion”, “Sum and Substance”) ma anche capace – è il caso di “Wartorn” - di bilanciare con maestria ruvide progressioni in blast-beat ed epici decelerando. Un disco sicuramente trascinante che, comunque, non si lascia preferire al suo predecessore, sia perché più monolitico, sia perché la performance vocale di Heritage risulta essere leggermente meno incisiva di quella che Pavlovich aveva regalato su Anticapital

BRUTAL TRUTH - Extreme Conditions Demand Extreme Responses (1992; USA)

brutal_truth_coverNegli anni Ottanta, Dan Lilker era uno di quei musicisti sempre alla ricerca di nuove esperienze. Nel 1981, insieme con Scott Ian, aveva fondato gli Anthrax, una delle formazioni più importanti per l’evoluzione del thrash e dello speed-metal. Dopo aver registrato l’album “Fistful Of Metal”, Lilker decise di mettere su i Nuclear Assault, trovandosi di lì a poco ad essere coinvolto dal vecchio amico Scott Ian, sempre in qualità di bassista, anche nel progetto S.O.D. (Stormtroopers Of Death), da cui nacque lo storico “Speak English or Die”, uno dei classici del crossover thrash. Tuttavia, il desiderio di suonare roba sempre più estrema e la diffusione del virus grindcore, lo spinsero a fondare una delle formazioni più viscerali dell’epoca, i Brutal Truth, invitando a bordo il batterista Scott Lewis e il chitarrista Brent McCarty. La prima fatica del trio fu l’interessantissimo demo “The Birth Of Ignorance”, ma fu soltanto con l’entrata in formazione del cantante Kevin Sharp e la pubblicazione del primo full-lenght, Extreme Conditions Demand Extreme Responses (su Earache Records), che la band si guadagnò un posto d’onore nell’arena del genere più violento e incompromissorio del pianeta. Destinato a restare una delle pietre miliari del grindcore, il disco (che si avvale anche della collaborazione di Bill Yurkiewicz degli Exit-13 (guest vocals, noise, animal sounds: così, le note di copertina) vive, in ogni caso, della profonda commistione tra la lezione dei Napalm Death e il death-metal roccioso di scuola Floridiana (Obituary, Death, Morbid Angel), come mostrano brani in cui le cadenze più lente tendono a prendere il sopravvento: “Birth Of Ignorance”, “Time” e soprattutto “Unjust Compromise”, con baratri rumoristi a trasfondere altre dosi di malessere in un disco dominato da scenari apocalittici. Naturalmente, non mancano brani che spingono senza indugi sull’acceleratore (”Stench Of Profit”, “Ill-Neglect”, “Denial Of Existence”, “Walking Corpse”, “Regression-Progression”, fino alle dinamitarde e brucianti “Blockhead” (sette secondi scarsi) e “Collateral Damage” (brano che con i suoi due secondi e rotti si guadagnò un posto nel Guinnes dei Primati grazie al video più breve di sempre), trascinando l'ascoltatore in un vortice di furia iconoclasta, tra grugniti blasfemi, corde di chitarra tirate allo spasimo e selvagge detonazioni termonucleari puntellate da tempeste di blast-beat (se ne ricorderanno, tra gli altri, i primi Kataklsym). Un vero e proprio corrispettivo sonoro del fosco collage che campeggia in copertina. A mali estremi, estremi rimedi, insomma.  
Quando, due anni dopo, la band decise di introdurre elementi noise, industrial e sludge nel suo sound, il risultato fu un Need To Control (con Rich Hoak al posto del dimissionario Scott Lewis) per cui la definizione di “post-grind” resta ancora azzeccatissima. Ma, mentre la band guardava dritto negli occhi il futuro, sostanzialmente finiva per ritornare al passato. “Con quel disco – dirà Sharp – siamo tornati alle nostre radici. Io sono cresciuto con il punk, arrivando al metal soltanto in un secondo momento”. Lo spirito “punk” (il cui vessillo è tenuto bene in vista dalla cover di “Media Blitz” dei Germs) contribuisce a mettere tra parentesi gli accenti death-metal del disco precedente, lasciando spazio all’emergere di sonorità più marcatamente grindcore, filtrate da un approccio industriale che fa pensare ai Fear Factory (si ascoltino, per dire, le significative partiture di “Mainliner”, Displacement” o “Godplayer”, quest’ultima impreziosita addirittura dal suono di un didgeridoo). Qualcosa di simile era stato già annunciato, anche se in maniera confusa, dall’Ep “Perpetual Conversion” del 1993, su cui la band si spingeva a fondere techno, Ministry e vocalizzi satanici ("Perpetual Larceny"). Incastonate tra le elucubrazioni ambient-noise di “Ironlung” e “Crawlspace” e l’atmosfera epica di “Ordinary Madness”, su Need To Control la band si mostrerà invece been più convinta della direzione da intraprendere, lasciando detonare gli assalti all’arma bianca di “Black Door Mine” (con Bill Yurkiewicz alla voce), “Judgement” e “Brain Trust”, l’up-tempo di “Turn Face” e gli schiamazzi rumorosissimi di “Bite The Hand”, tutti brani caratterizzati da una produzione impeccabile che fa risaltare ogni singolo strumento ed ogni singola nota.
Sull’Ep “Kill Trend Suicide” (1996), la band continuò ad ampliare lo spettro del suo stile, mostrando un approccio più caotico e “punk” (la selvaggia opener, “Blind Leading the Blind” o il crudo D-beat della title track), ma anche arrischiandosi in bolge che appaiono un po’ troppo “eccessive” (“Let's Go to War”) o allontanandosi, sotto l’ala protettiva degli Exit-13, con più convinzione dall’ortodossia grind (“Hypocrite Invasion”, “Zombie”). Leggermente più convincente sarà, invece, “Sounds of the Animal Kingdom” (1997), disco che media tra la rocciosa epica di Extreme Conditions Demand Extreme Responses (“Vision”, “Soft Mind”), l’impianto “post-“ di Need To Control (“Pork Farm”, “Fisting”, “Sympathy Kiss”) e la furiosa visceralità di “Kill Trend Suicide” (“Fucktoy”, “Jemenez Cricket”, “Average People”). In ogni caso, i ventidue minuti conclusivi di “Prey” (in sostanza, un loop di pochi secondi ripetuto ad oltranza e con intensità crescente) appesantiscono oltremisura l’opera.   

IMPETIGO - Horror Of The Zombies (1992; USA)

impetigo__horror_of_the_zombies_front_cover_01Nel 1987, il bassista Stevo Dobbins e il chitarrista Mark Sawickis sono due adolescenti appassionati di musica e di film dell’orrore che si divertono a produrre fanzine. Stevo suona anche in una band chiamata SGT, ma le cose non vanno troppo per le lunghe. Così, a Mark viene l'idea di provare a fare qualcosa insieme. Nascono allora gli Slow Death (dal nome di una canzone degli Accüsed). Poi, sull’esempio dei Carcass, prendono un manuale di patologia e si scelgono un nome più “accurato”. La scelta ricade su Impetigo, in italiano “impetigine”, un’infezione della pelle. Il primo demo, “All We Need Is Cheez” è registrato dal vivo e presenta poche tracce del gore-grind dei loro dischi maggiori, risolvendosi sostanzialmente in un rock più o meno rumoroso e dal piglio divertito e parodico. Sarà il demo successivo, “Giallo”, a metterli in contatto con la vera essenza della loro ispirazione.
Ultimo Mondo Cannibale, esordio sulla lunga distanza uscito nel 1990, farà degli Impetigo la formazione più importante della scena gore-grind americana. Introdotti da sample di film horror (lo stesso titolo, del resto, rimanda all’omonimo film del 1977 di Ruggero Deodato), i brani di questo classico si risolvono in una continua parata di rigurgiti disgustosi, rutti e rifferama rockarolla in odor di crust-punk degenerato, il tutto calato in una pestifera atmosfera di morte, ma di una morte che sghignazza e se la spassa a più non posso. Eh, sì… perché Ultimo Mondo Cannibale è a suo modo un disco divertente, che traduce il verbo del grindcore in qualcosa di meno terribile, pronto all’uso per quei ragazzi cresciuti con horror-movie e videogame, tra un poster dei Misfits e uno dei Cramps. E’, in ogni caso, un lavoro meno coeso di Horror Of The Zombies, suo successore uscito nel 1992. Con una produzione più adeguata, questo classico assoluto del gore-grind a stelle e strisce fu registrato dal vivo in studio, con qualche aggiustamento in fase di post-produzione a livello di assoli e di voci. E’ un disco se possibile ancora più divertente, per quanto la sensazione di essere nel bel mezzo di una foresta infestata di cannibali sia sempre forte. In apertura, la leggendaria “Boneyard” galoppa su un groove trascinante (come quello di “Staph Terrorist” o dell’esaltante “Defiling the Grave”). Quindi, “I Work For The Streetcleaner” gigioneggia come la morte nel bel mezzo di un party alcolico, sgomitando tra humor nero e staffilate di ultraviolenza a tradimento. Più solenne ed atmosferica, la programmatica “Wizard Of Gore” alterna imponenza doom-thrash e repentini blast-beat, mentre “Mortuaria” potrebbe essere la perfetta colonna sonora per un tour cimiteriale… Assolutamente sorprendente è, invece, “Cannibal Ballet”, che incrocia la registrazione di un rituale tribale africano con la voce orrendamente deformata di Stevo, che recita una poesia speditagli proprio in quei giorni da un suo vecchio amico. La passione per il film di Ruggero Deodato ritorna in “Trap Them And Kill Them”, le cui liriche rimandano al suo controverso “Cannibal Holocaust”. In chiusura, “Breakfast At The Manchester Morgue (Let Sleeping Corpses Lie...)” rallenta e dilata, allunga e si scioglie in un assolo lisergico, portandoci per mano verso la nostra tomba.
Per quanto più sbilanciato sul versante death-metal, Horror Of The Zombies è, a detta di chi scrive, il testamento definitivo del suono Impetigo, un disco che avrà un'influenza enorme su tante band dell’universo gore (una fra tutte: i giapponesi Catasexual Urge Motivation).

ANAL CUNT - Morbid Florist (1993; USA)

mi0000242674Fino a che è stato con noi (11 Giugno 2011), Seth Putnam non ha mai smesso di essere fondamentalmente un anarchico, ferocemente incazzato con il mondo, la tecnologia, la barbarie umana, la stupidaggine, non ha mai smesso di prendersela con gli ebrei, gli omosessuali, i poveri e via discorrendo. Con lui era davvero difficile, però, capire dove finiva la serietà e incominciava lo scherzo. Probabilmente, ci faceva; probabilmente, no. O, forse, un po’ e un po’. In ogni caso, con i suoi Anal Cunt (conosciuti anche come AxCx o A.C.) l’uomo di Boston (dove era nato nel 1968) portò una sana dose di scompiglio in una scena, quella del grindcore, già di per sé eversiva e malvista dai benpensanti della musica rock.  
Dopo aver offerto le sue “grazie” a trascurabili formazioni di thrash-metal quali Executioner e Satan's Warriors, nel 1988 Seth decide che è giunto il momento di fare qualcosa di più coraggioso e provocatorio. Per prima cosa, decide di scegliere il nome più offensivo e stupido possibile: Anal Cunt, ovvero “figa anale”. Contatta, quindi, il chitarrista Mike Mahan e il batterista Tim Morse e inizia ad arrovellarsi il gulliver con un miscuglio di noise e hardcore a dir poco approssimativo. I demo che si susseguono testimoniano, infatti, di un sound sgangherato e bruciante, compresso in brani microscopici che assomigliano a vere e proprie eiaculazioni precoci. Della qualità di registrazione, meglio non parlare... Del resto, non è forse vero che, quando Seth telefonò a Tim Morse per convincerlo a suonare con lui, gli disse testualmente: ”Suoneremo rumore. Nessuna canzone”? E rumore fu, almeno all’inizio. Poco alla volta, infatti, in quel caos iniziò a vivacchiare il germe del grindcore, rendendo paradossalmente la loro musica più intellegibile (prendete questa definizione con le molle, mi raccomando!) e contribuendo a diffondere quelle sonorità anche oltreoceano, visto che molte delle formazioni che guardavano ai Napalm Death, più che prendere ispirazione dai primi due fondamentali dischi della formazione inglese (ancora poco diffusi in territorio statunitense), seguivano la variante più death-metal oriented di un disco, invero molto meno ispirato ma più conosciuto, quale “Harmony Corruption”. Per il suono degli Anal Cunt si parlò di “noisecore”, “noisegore” o “noisegrind”, una roba definita da Giulio dei “nostri” Cripple Bastards come “la faccia più anti-musicale e più nichilista della musica estrema di quegli anni”, un genere che anche gli inglesi Sore Throat (sto pensando, ovviamente, all’ottuso oltranzismo di Disgrace to the Corpse of Sid) e gli svizzeri Fear Of God (andate a riascoltarvi l’omonimo Ep del 1988, giusto per tracciare un parallelo tra le urla disumane di Erich Keller e quelle di Seth).
Proprio per mettere le cose in chiaro, dopo uno sfasciatissimo “88 Songs E.P.” (1989), nel 1990 la band produrrà uno degli esperimenti più folli ed estremi dell’epopea “rock” (?), 5643 Songs E.P. Questa la storia: tra il 23 e il 24 Settembre del 1989, Seth e l’ingegnere del suono Marc Lindhal decidono, con l’ausilio di un 16-piste, di registrare un brano diverso su ogni pista. Dunque, fanno suonare contemporaneamente i sedici brani, una volta, due volte, tre volte, etc., stratificando il tutto fino ad ottenere un inferno sonoro senza precedenti, un tornado elettrico schiaffeggiato da urla e versi subumani, una carneficina noisecore che diventerà nel tempo un vero e proprio oggetto di culto. Di lì a poco, la band si permetterà anche il lusso di rifiutare alla Earache Records la possibilità di ristampare l’Ep per il mercato europeo. Nel 1991, arriverà quindi il primo disco noisecore acustico (!) “Unplugged EP”.  Ma gli Anal Cunt che qui più preme ripescare sono quelli che iniziano a prendere forma a partire dall’Ep Morbid Florist, uscito in una fase in cui Seth aveva ormai deciso di mettere un po’ d’ordine in mezzo a tutto quel casino. C’erano, in ogni caso, anche ragioni legate alla distribuzione del loro materiale: la band era spesso in tour, ma molti dei suoi lavori erano ormai andati esauriti. Dunque, l’idea era quella di trovare una distribuzione più adeguata attraverso un contratto con una label di peso. C’erano due opzioni: la Earache e la Relapse. La Earache, però, propose loro di utilizzare il nuovo materiale come lato A del loro primo vero disco, ma la band non si sentiva ancora pronta per un passo del genere e così penso di prendere in considerazione l’offerta della Relapse. Morbid Florist (i cui brani furono per la prima volta ritoccati con leggeri interventi di over-dubbing) uscì, così, alla dine di Settembre del 1993, con una cover in bianco e nero su cui campeggia la foto di Pete Shelley con una croce rovesciata tatuata sulla fronte. La foto era stata presa dalla copertina di “Homosapien”, il secondo disco dell’ex-Buzzcocks e fu scelta da Seth perché, testualmente, “He was the gayest looking person I could find in my record collection that day”.
Con John Kozik alla chitarra, il trio racchiude in questi diciassette minuti e mezzo il suo lascito probabilmente più importante, trasformando il grindcore in un teatro dell’assurdo in cui le varie componenti sono estremizzate fino all’inverosimile. L’esplosività annichilente e schizofrenica di brani quali “Some Songs”, “Chump Change”, “Siege” (che in ventotto secondi appena propone un medley di tre brani della formazione responsabile dell’epocale “Drop Dead”), “Even More Songs” o “Morrissey” (il giorno prima delle registrazioni, Seth era andato ad un concerto dell’ex-Smiths e pensò quindi di utilizzare questo titolo…) si regge, infatti, su urla disumane, sciami chitarristici che assomigliano a motoseghe impazzite e blast-beat vorticosi che finiscono per risolversi in veri e propri bombardamenti a tappeto. La cruda intensità di “Song #5” vira, invece, verso monolitiche escandescenze sludge-doom, mentre in “Unbelievable” devastano il classico targato 1990 degli EMF (“That fxcking gay song by E.M.F.", naturalmente!) con un rigurgito di bile e saliva miste a sangue. Non sono brani, sono schegge di misantropia elevate all’ennesima potenza, come confermano anche i Rapeman portati alle estreme conseguenze di “Song #6”. Qualche riff più intelligibile si ascolta nelle trame comunque esagitate di “Grateful Dead” (no, non c’entra niente la storica formazione californiana!) e in quelle di “Radio Hit”.
Dopo aver firmato con la Earache, la band registrò finalmente un vero disco, ma il risultato (“Everyone Should Be Killed”) non fu proprio esaltante. Solo nel 1997, arrivò un altro colpo interessante, grazie a quel I Like When You Die  con cui il loro grindcore dalle tinte rumoriste assume connotati… ehm… “classici”, polarizzandosi intorno a strutture relativamente più riconoscibili. Il disco, il cui titolo doveva essere “You’re Gay” e doveva avere uno specchio in copertina (eh, sì, Seth era davvero un mattacchione…), spalma ben 52 brani in scarsi quarantadue minuti di musica, avanzando come uno schiacciasassi tra insulti e recriminazioni varie, disseminando fiammate di humor-nero ma anche colate di ironia da quattro soldi. Coadiuvato da Josh Martinalla alla chitarra e da Nate Linehan alla batteria, Seth offre qui una delle sue performance più convincenti e distruttive (e quindi esilaranti!) della sua carriera, abbattendosi come un vero flagello tra le pieghe di brani-apocalissi/brani-bestemmie quali (si notino i titoli di livello!) “You've Got No Friends", “You Keep A Diary” (una delle loro vette (?) assolute), “You’ve Got A Cancer”, “You Are An Interior Decorator”, “You Look Adopted”, “You Kid Is Deformed”, “Ha Ha Your Wife Left You”, “Your Favorite Band Is Supertramp” e, ancora, “You Keep A Diary” e “You’re In Coma”. Alla fine del disco, non sai se sorridere o imbracciare un’ascia. Nel dubbio, si vada tranquillamente di “repeat”.

BRUJERIA - Matando Güeros (1993; Messico)

brujeria_coverPrima dell’avvento dei Brujeria, nei paesi del centro America il grindcore non era riuscito ad attecchire più di tanto, dovendo fare i conti con generi ben più affermati quali il thrash e il death. In ogni caso, alla fine degli anni Ottanta, fu soprattutto in Messico che il nuovo mostro sonoro codificato da Napalm Death e Carcass (band la cui circolazione fu favorita dalla pratica del tape-trading) iniziò a muovere i suoi primi passi tra i metaleros, stuzzicati, quest’ultimi, anche da band indigene come gli Anarchus (il loro “Final Fall of the Gods” ebbe un enorme impatto sulla scena locale) e i primi Cenotaph. La miccia che fece detonare la bomba del grindcore messicano e centroamericano fu innescata dai Brujeria, una formazione nata nel 1989 tra la California e Tijuana con l’intento di suonare un mix di grind e death-metal per “la raza”, insomma per il loro popolo, scelta che giustifica anche la volontà di utilizzare solo lo spagnolo per le liriche.
Il primo parto di quello che inizialmente era un quintetto guidato da quel Dino Cazeres (nome in codice Asesino) che, più o meno nello stesso periodo, contribuì anche alla nascita dei Fear Factory, si chiamava “¡Demoniaco!” e faceva leva su groove corpulenti e una voce orrendamente filtrata (“Papa Capado” è il momento migliore). Fin dall’inizio, i membri della band tenderanno a nascondere le loro identità, utilizzando pseudonimi e suonando travestiti da “signori della droga” in fuga dagli agenti del F.B.I. Nel frattempo, la line-up è cambiata spesso e, col tempo, si ritroveranno a collaborare con Cazeres, in pianto più o meno stabile, Jello Biafra (che con la sua Alternative Tentacles distribuirà il secondo Ep “¡Machetazos!” e il singolo “El patron”), Billy Gould dei Faith No More, Shane Embury dei Napalm Death, Nicholas Barker dei Cradle Of Filth e tanti altri musicisti della scena metal internazionale. Il disco che li rese dei classici del deathgrind più blasfemo e disturbante è Matando Güeros (1993), accompagnato da una copertina che è tutto un programma (quella testa mozzata diventerà la loro mascotte, affettuosamente chiamata Coco Loco). E’ un disco che trasforma, rallentandolo, il suono dei Napalm Death in un groove-grind altezza Impetigo, ma più claustrofobico e caratterizzato da chitarre grattuggianti oltre che da una sezione ritmica semplice ma efficace. Un groove-grind decorato, inoltre, con liriche (satanismo, droga e sesso le loro manie) in bilico tra spirito rivoluzionario e feroce ironia. Accanto a momenti che cercano di ripescare direttamente il pathos annichilente di dischi quali Scum o From Enslavement To Obliteration (“Santa Lucia”, “Greñudos Locos”, “Seis Seis Seis”, “Cruza la Frontera” ) e ad altri che sventolano il vessillo dell’horror-metal (“Narcos-satánicos”, “Verga Del Brujo/Estan Chingados”, “Castigo del Brujo”), quello del thrash-death lasciato decantare in una vertigine noise (lo strumentale "Chinga Tu Madre") o che, ancora, lavorano con timbri alterati e dissonanze stordenti (la demoniaca invettiva contro i gay di “Culeros” e, soprattutto, una “Molestando Ninos Muertos” che vanta un grande lavoro chitarristico), spiccano passaggi caratterizzati da strutture più orecchiabili, come quelli della storica title track, destinata a restare la loro figlia prediletta.
Meno grindcore e più death-metal, hardcore e thrash sul successivo “Raza Odiada” (1995), disco carico di groove e ancora più politicizzato (nell’invettiva contro il senatore repubblicano Pete Wilson, fervente oppositore dell’immigrazione illegale, dietro il microfono c’è Jello Biafra: Pito Wilson - El rey de racistas / Pito Wilson - Sera presidente / Pito Wilson - Te quiere ver muerto / Pito Wilson - El cristo de ódio).

DEAD INFECTION - Surgical Disembowelment (1993; Polonia)

r16409531335465866.Dopo la pubblicazione di Reek Of Putrefaction dei Carcass, il virus del goregrind si diffuse attraverso l’Europa grazie ad un nutrito gruppo di band che s’ispiravano, più o meno dichiaramente, ai maestri inglesi. Tra i nomi di punta di quel movimento di seguaci del culto del “fetore della putrefazione” c’erano gli svedesi Regurgitate (“Effortless Regurgitation of Bright Red Blood”;  1994) e Necrony (“Pathological Performances”), i finlandesi Xysma (l’Ep del 1990 “Above the Mind of Morbidity”), i tedesci Gut (il “disgustoso” “Odour Of Torture”; 1995), i cechi Pathologist (“Putrefactive & Cadaverous Odes About Necroticism ”; 1992), gli spagnoli Haemorrhage, con tutta una serie di split-album, gli olandesi Last Days Of Humanity (di cui parleremo più avanti) e i polacchi Dead Infection. Proprio di quest’ultimi è importante ripercorrere le gesta, perché riuscirono con Surgical Disembowelment (1993) ad offrire uno dei migliori esempi di goregrind “classico”. Ma andiamo per gradi.
Alla fine degli anni Ottanta, in quel di  Białystok, nel nord-est della Polonia, operano i Fatal Error, formazione dalla cui veloce evoluzione nasceranno i Dead Infection. Ne fanno parte i chitarristi Tocha e Mały, il batterista Cyjan e il bassista-cantante Kelner. Nel giugno del ’90, a Poznan, tengono il loro primo concerto e un anno dopo fanno uscire la cassetta “World Full Of Remains”, la cui scadente qualità audio non fa altro che amplificare il senso di smarrimento che trasmettono la voce iper-gutturale e le chitarre trasformate in un flusso harsh-noise. Andrà meglio con l’altra cassetta, “Start Human Slaughter”, meglio prodotta e carica di groove, in aderenza con l’eco Impetigo che, attraverso la pratica del tape trading (scambio tra appassionati di cassette registrate), giungeva da oltreoceano. Brani come la massiccia title track, una “Tribe of Glutinous Tissue” satura di echi doom, le cadenze elastiche di “World Full Of Remains” e quelle granitiche di “Peritonitis” dicono, comunque, di un sound ancora ricco di influenze death. Influenze che sull’esordio Surgical Disembowelment non saranno del tutto abbandonate, ma passeranno decisamente in secondo piano, lasciando spazio ad uno dei sound più riconoscibili del goregrind.
L’opener “Maggots In Your Flesh” vanta uno degli attacchi più memorabili del genere: riff circolare delle chitarre (ampiamente ribassate) sul canale sinistro; ingresso, sul canale destro, della batteria che inizia a cadenzare un epico mid-tempo, mentre Kelner diffonde malefici. E’ una visione putrida e malsana (Carcass, ciao, ciao!), ma raramente una visione di tal fatta è stata così esaltante: Hideous maggots in your flesh / Your rancid guts are a maggot's meal. / Stinking flesh, / Rotten brain, Blue insides, / Putrid lein. / Maggots go out from your throat, / When you cough up yellow pus. In “Torsions” si alternano, dunque, fughe parossistiche, rallentamenti colossali e assoli fulminanti. “Undergo An Operation” è traumatizzata dal timbro sempre più disumano della voce, “Xenomorph” vanta un riff più tecnico, mentre il groove diventa ancora più robusto su “After An Accident” e “Deformed Creatures”. Per molti appassionati, il loro disco più rappresentativo è, invece, il successivo “A Chapter Of Accidents”, uscito due anni dopo. E’ un lavoro che presenta alcune rilevanti novità: 1) le liriche, invece di proseguire nel solco “patologico” delle precedenti release, tratteggiano piccole storie di orrore quotidiano; 2) la voce di Kelner è pesantemente deformata dall’uso di un distorsore a pedale, tanto da assomigliare, come ha scritto qualcuno, al latrato di un cane che fa la guardia alla porta dell’inferno… 3) il drumming di Cyjan è più dinamico e si traduce in un vorticoso susseguirsi di figure scandite e blast-beat opprimenti. Al netto di tutto questo, però, è impossibile non rilevare che i brani tendono a ripetere praticamente lo stesso canovaccio, risultando alla lunga noiosetti.

DISRUPT - Unrest (1994; USA)

r49583413781426062249.Ad un certo punto, durante gli anni Novanta, negli States si fece sentire fortissima l’eco del crust-punk (una radicalizzazione dell’hardcore e dell’anarcho-punk) di Discharge, Extreme Noise Terror, Crude SS, Mob 47 e Doom.
I Disrupt furono, insieme con i connazionali Nausea, Destroy!, Deformed Conscience e Dropdead, una delle formazioni più reattive nel captare l’eccitazione che quelle sonorità trasmettevano. La band di Lynn, nel Massachusetts, aveva comunque subìto anche il fascino del grindcore per cui, dopo una lunghissima serie di Ep e split-album, le venne naturale mettersi a suonare quello che poi sarà chiamato crustgrind. Anarchici fino al midollo, i Disrupt erano guidati da due cantanti, Jay Stiles e Pete Kamarinos, che avevano avviato il progetto nel 1987. Ma a Lynn, così come nella vicina Boston, non c’era molto spazio per la loro musica, tanto che, se volevano suonare dal vivo, il più delle volte dovevano spostarsi in quel di New York.
Il primo ed unico disco sulla lunga distanza, quell’Unrest che ancora oggi continua ad alimentare la sua leggenda, la band lo vide nei negozi solo nel 1994, quando ormai era stata dichiarata la smobilitazione e tutti i membri erano in cerca di altre esperienze. Tuttavia, in trenta brani, per cinquanta minuti di durata, questo lavoro dice tutto quello che c’è da sapere sul Disrupt-sound: chitarre-mulinelli che riffeggiano in perfetto stile crust-punk, batteria dissennata che sbatte tra D-beat e blast-beat, voci che duellano tra scream stregoneschi (anche femminili: courtesy of Alyssa Murry) e urla belluine e, last but not least, gli immancabili scossoni grind, naturalmente inconsulti e senza preavviso. Eppure, dietro il gran baccano e nonostante momenti che sembrano voler conservare intatto il fascino annichilente del più veloce e oltranzista possibile (tra gli altri, “Tortured In Entirety”, “Religion Is A Fraud”, “We Stand Corrected”, la rabbia inarrestabile di “Same Old Shit”, “Critics” e “Deprived”) si annida un grado non disprezzabile di catchyness, una trascinante carica melodica che potrebbe evocare finanche i Pegboy (del resto, i primi secondi dell’iniziale “Domestic Prison” qualche cosa vorranno pur dire…) e che altrove fa venire in mente anche le travolgenti progressioni degli Hüsker Dü (è un’allucinazione, o l’attacco di “Smash Divisions” sembra citare quello di “Broken Home, Broken Heart”?). 

KATAKLYSM - Sorcery (1995; Canada)

kataklysm_cover_01I Kataklysm dei primissimi anni restano, a tutt’oggi, una delle realtà più violente e intelligenti dell’universo “estremo”, capace di offrire, nel loro disco d’esordio, una versione incredibilmente feroce e creativa del deathgrind. Nata nel 1991 a Montreal, nel Quebec, la band aveva le sue armi più micidiali nel batterista Max Duhamel e soprattutto nel cantante Sylvain Houde. Il primo era artefice di un drumming a dir poco devastante, carico di blast-beat così rapidi e impetuosi che fruttarono la definizione di "northern hyperblast". Houde, invece, era il leader carismatico, personaggio di culto capace di performance disumane (cercate qualcosa su Youtube e sappiatemi dire!) e autore di liriche fortemente influenzate da tematiche mistiche e dalla mitologia di H. P. Lovecraft. Di lui, dopo l’abbandono nel 1996, in seguito alla pubblicazione di “Temple of Knowledge (Kataklysm Part III)” (disco che lasciava emergere con maggiore decisione l’anima death-metal della band, regalandoci alcuni dei brani più memorabili di quel genere) praticamente si sono perse le tracce (l’ultimo avvistamento, mai confermato, lo davano come Dj in un club di Montreal!), ma al silenzio che aleggia intorno alla sua figura fanno da contraltare, tra gli addetti ai lavori, un rispetto e una venerazione che non accennano a diminuire, tanto che non sono pochi quelli che lo considerano tra i massimi, se non il massimo vocalist del metal estremo (chi scrive, è tra i più accaniti sostenitori di questa tesi). Basti pensare che, senza di lui, i Kataklysm – fin dal modestissimo “Victims of This Fallen World”, che cercava di scimmiottare i Fear Factory - finirono per appiattirsi su soluzioni sempre più banali, lontani anni luce dalle infuocate e originalissime pagine scritte con quel frontman che assomigliava ad un Cristo alienato.
Prima di giungere all’esordio vero e proprio, la band era passata attraverso la pubblicazione di alcuni demo ed Ep. Il primo, "The Death Gate Cycle of Reincarnation" (1992; ispirato al “Necronomicon”), fu registrato con il batterista Ariel Saied e presentava un sound già robusto ma ancora acerbo, declinato in tre pannelli: il deathgrind progressivo di “Frozen in Time”, squarciato dagli assoli ultravioletti della chitarra di Jean-François Dagenais e torturato dall’ugola monstre di Houde; le fughe melodiche di “Mystical Plane of Evil” e le trame sabbathiane con sfumature melodiche di “Shrine Of Life”. Assoldato Duhamel, la band (completata dal bassista di origine italiane Maurizio Iacono) partorì un ben più interessante "The Vortex of Resurrection", contenente versioni primordiali di tre brani che poi finiranno sul loro primo disco. Nello stesso ’93, firmato un contratto con la Nuclear Blast, fu la volta di "The Mystical Gate of Reincarnation", ovvero la ristampa del primo demo con l’aggiunta di una bonus track… e che bonus-track! "The Orb of Uncreation" è, infatti, uno dei massimi capolavori della band, un’aggressione di superomistico deathgrind che lascia interdetti per la sua carica bestiale. E’ il degno preludio all’esordio di Sorcery, previsto per il Febbraio del 1995.
Muovendosi senza soluzione di continuità tra grind e death, caos più o meno controllato e accelerazioni maniacali, scariche di pazzia e grugniti animaleschi, "Sorcery (Kataklysm Part II)" dice già tutto di una band che ha ormai raggiunto un grado di maturità impressionante. Lungo tutto il disco, il suono è un muro impenetrabile ma elastico di distorsioni, picconate batteristiche e bave acide. Una roba mai sentita prima e ancora oggi inimitata. I Kataklysm puntellano la sovrastruttura deathgrind con ascendenze sabbathiane, echi del Gothenburg sound (soprattutto gli At The Gates degli esordi, come mostra il lavoro di Dagenais sulle progressioni di accordi) e brutali implosioni in cui la batteria si esibisce in alcuni dei blast-beat più distruttivi di sempre. In “Mould in a Breed (Chapter I, Bestial Propagation)”, Houde è un orco cattivissimo che sgozza il brano in più punti, risolvendo growl, scream e grunt in un annichilente tour de force vocale, mentre il brano si arrampica in maniera scalare su meccaniche già Monstrosity era "Millennium". L’epica thrash fa da preludio a “Whirlwind of Withered Blossoms (Chapter II, Forgotten Ancestors)”, le cui allucinate fughe fanno i Napalm Death corpulenti e psichedelici. Il riff in epico decorso di “Feeling the Neverworld (Chapter III, An Infinite Transmigration)” si scioglie subito nell’ennesima mischia (ir-)razionale e una menzione speciale, a questo punto, se la merita anche Dagenais, la cui chitarra inveisce, strepita, oltraggia, accarezza e pugnala a dovere questi camaleontici monoliti sonori, scolpendo refrain melodici nell’acciaio (“Elder God”, con la voce di Houde che, nel breve giro di due rapidissimi versi, riesce a coprire ben quattro tonalità!) e disegnando confini strumentali lì dove i confini sembrano impossibili, tanta è l'efferatezza con cui la band si accanisce contro la materia (“Garden of Dreams (Chapter I, Supernatural Appearance”; il grindcore “matematico” di “Once... Upon Possession (Chapter II, Legacy of Both Lores)”, i bombardamenti psichici di “Dead Zygote”). Proprio le liriche di quest’ultimo brano potrebbero informarci su quella che era la consistenza mentale di Houde durante le registrazioni: As the Sun's Rays, Destroy... The stained glasses... / I scream... VICTORY... / When I run to bash... The front doors... / ..INFINITY. / Light beams of... / Wonderful Fire! / ... Burns Me. / Soul freed! Happiness avenged Me... Dopo tanto sconquasso, i primi minuti dello strumentale thrash-progressivo “World of Treason (Instrumental Vibrations)” – che evoca i Metallica - planano come un aquilone sulle macerie di una città ormai abbandonata.
Approfondendo il versante più drammatico e visionario del deathgrind, Sorcery stabiliva un paradigma fondamentale per gli sviluppi del genere. Tuttavia, senza una voce così incredibile, difficilmente si può sperare di fare di meglio.

CATASEXUAL URGE MOTIVATION - The Encyclopedia of Serial Murders (1996; Giappone)

r11906211331428328.I Catasexual Urge Motivation diedero vita ad un’originale sintesi di goregrind, industrial, death-metal e doom che giunse a compimento nei ventidue brani di The Encyclopedia of Serial Murders, un disco in cui la loro passione per i serial-killer trionfò senza mezzi termini (una passione che, del resto, già il moniker suggeriva, se si considera che il suo significato rimanda alla violenta urgenza di possedere sessualmente qualcuno – soprattutto donne - e che il suo acronimo, C.U.M., sta per sperma…). Il progetto (uno dei primi esempi di cybergrind) si materializzò nel 1992 a Tokyo grazie ai fratelli Kanai (Tomoaki e Ujin). Non riuscendo a trovare un batterista degno di nota, i due decisero di utilizzare una drum-machine, affettuosamente ribattezzata Cyber EMF. Intanto, mentre Tomoaki (che si faceva chiamare Sadochist Ejaculata) si dedicava alla parte musicale, Ujin (per gli amici, Sadochist Spermata) si occupava delle liriche, degli artwork e, diciamo così, dell’aspetto ideologico. Fu solo nel 1996 che un’etichetta straniera, la tedesca Deliria Productions, si interessò a loro, invitandoli a pubblicare un disco. I due avevano già registrato alcuni 7”, cassette e demo e pensarono di riutilizzare quel vecchio materiale, ma la Deliria sollecitò anche la produzione di materiale inedito, giusto per avere un buon sessanta minuti di musica da mettere su disco.
The Encyclopedia of Serial Murders suona come se gli Impetigo (qui omaggiati da una potentissima cover di “Defiling the Grave”) avessero deciso di collaborare con i Godflesh: un funereo goregrind per lo più in midtempo fatto di distorsioni telluriche (se vi vengono in menta anche i primissimi Drogheda, fatemi un fischio!), grugniti subumani, battiti industriali e accenti ballabili, il cui manifesto è ben rappresentato proprio dall’iniziale “Mutilation, Rape And Serial Murder As Modern Metaphor”, un brano che, se si evita di lasciarsi ipnotizzare dall’atmosfera mortifera, potrebbe essere anche definito trascinante... Se la drum-machine rappresenta il fulcro di ogni struttura sonora, è la chitarra, con il suo timbro pestilenziale, a dominare la scena, riffeggiando malsana e viscida, come una motosega impregnata di sangue raggrumato che si produce nella mimesi di un sadico rituale. La successiva “Supraliminal Psychosadistic Motivation” evidenzia, invece, un’altra caratteristica fondamentale dell’opera: la stratificazione delle voci o, forse sarebbe meglio dire, dei rantoli spietati che delineano una ragnatela sempre più disgustosa ed opprimente, perfetta metafora sonora di brani i cui titoli non lasciano dubbi sull’immaginario violento e immorale (!) che guida i due fratelli giapponesi: la geometrica “I Have a Good Knife for Penetration”, l’impianto “speculativo” di “Philosophical Diary of Habitual Murder” e “Murder Is Better Than Birth”, la martellante “Multiple Parasexuality Disorder” (che, per il suo impianto rock’n’roll, sarebbe piaciuta ai Suicide, se solo avessero potuto preconizzare anche il cyber-goregrind, in quel lontano 1977), l’elastica “Murder Is Art, Accepted by Many Artists“ o la febbrile “Vivid Stains in Hematomania's Delirium”.   
In ogni brano, l’omicidio è sempre visto come un corrispettivo diretto dell’atto sessuale, perché un coltello o una pistola altro non sono che prolungamenti del corpo stesso del killer: The knife is my hand / The gun is my phallus, cantano in “I Am As Beautiful As I Have Killed". La passione per i serial killer li conduce fino all’omaggio esplicito di uno di essi, come accade in “He Shot Her Down and Ate Her Flesh…”, dove inneggiano ad Issei Sagawa, lo studente che nel 1981, in quel di Parigi, uccise una sua amica di università, abusò del suo cadavere per poi mangiarne alcune pezzi. Una passione che parte da un presupposto, per così dire, filosofico: l’unico vero uomo libero – come suggerisce "Mass Murder, the Only Way to Become God" - deve essere cosciente dei propri istinti animali, al di là del bene e del male. Un presupposto che li avrebbe guidati anche nell’avventura Vampiric Motives, che nel 2000 fruttò uno split con i polacchi Neuropathia, ancora carico di odio e di oscena malvagità.  Nel 2003, la Razorback Records darà alle stampe “Nekronicle”, una compilation di brani tratti da demo, split 7” e qualche brano inedito.

CLOTTED SYMMETRIC SEXUAL ORGAN - Nagrö Läuxes VIII (1996; Giappone)

r8556931319912583.Psychedelic-sludge-grind? Una bizzarria che non può che provenire dal Giappone, per la precisione da Tokyo, dove nel 1993 il cantante Gorepper 5, il chitarrista Super A.F.P., il bassista Bizarre Taitei e il batterista Popcorn (età media, 16 anni e mezzo), dopo alcune esperienze thrash-metal e death, decidono di provare le sonorità del grindcore. Nascono così i Clotted Symmetric Sexual Organ (conosciuti anche con l’acronimo C.S.S.O.), formazione influenzata dalla psichedelia degli anni Sessanta e Settanta, dal rock’n’roll (per descrivere il loro sound, spesso usavano la definizione “grind’n’roll") e dai manga. Il loro nome inizia a circolare tra gli appassionati solo nel 1996, anno della pubblicazione di Nagrö Läuxes VIII, disco che approccia il grindcore con lo stesso piglio divertito e anarchico degli Exit-13, dando vita ad un suono poco ortodosso, su di giri e mediamente sperimentale. Tutti i brani sono destabilizzati da scelte eccentriche che vanno dall’utilizzo di fughe cartoonesche (“Daddy’s Home”) a strambi inserti percussivi (“256”, “Very Very Blue Belly”, “Psycho 65”), passando per scariche di bile in un clima di follia generalizzata (“Kyoshikanga”, “Rolling The Zen”, “Penisnatchter”), musica per zombie-party (“Spartan”), micro-interludi surreali (“Bara Bara Man”), musica 16-bit (“The Song Without Rice”) e japanoise (“A Trigonometrical of Mokuba”). La loro carriera proseguirà con diversi split, tra cui quello con i milanesi Nuclear Devastation (autori di un apocalittico goregrind) e gli americani Total Fucking Destruction (in bilico tra crust e grind), dove i quattro giapponesi radicalizzeranno oltremisura il loro carattere eccentrico, tra sballi electro, jam sbarazzine e dissertazioni psico-noise. Poi, su “Are You Excrements? si abbandoneranno in un vortice di heavy-psichedelia tinta di noise, follia e, ovviamente, grindcore.

HEMDALE / EXHUMED - In The Name Of Gore (1996; USA)

hemdale_exhumedTra gli innumerevoli split-album dell’epopea grind, un posto di sicuro rilievo merita questo In The Name Of Gore, titolo sotto cui gli americani Hemdale ed Exhumed vollero unire le loro forze in nome della comune passione per quel sound marcio e claustrofobico che aveva avuto nei Carcass la sua gloriosa origine. Uscito per la Visceral Productions, questo split ebbe il merito di definire al meglio le coordinate del gore americano, contribuendo a rilanciarne le quotazioni tra gli appassionati delle musiche più estreme.
Gli Hemdale provenivano da Mentor, nell’Ohio, dove si erano formati nel 1993 e si presentarono all’appuntamento con la storia con in dote, oltre ad un paio di Ep, uno split-album condiviso con gli Exit-13, una delle formazioni più apprezzate dal bassista e cantante Matthew J. Rositano e dal batterista Craig Rowe (a completare il trio, c’era il chitarrista Mike Lehmann). All’inizio, il loro sound era più orientato sul versante death-metal, salvo poi scivolare sempre più in direzione grindcore. Gli Exhumed, invece, avevano qualche anno di esperienza in più, essendo nati nel 1990, quando il leader Matt Harvey (chitarra e voce) aveva appena 15 anni ed era in fissa, oltre che con i maestri di Liverpool, con Impetigo, Repulsion, Terrorizer ed Entombed. Quando registrò i brani per In The Name Of Gore, la band era completata dal bassista Ross Sublett, dall’altro chitarrista Derrel Houdashelt e dal batterista Col Jones.
Ad aprire le danze sono gli Hemdale, con una “Delicious Gory Fun” che è perfetta macelleria gore, in cui ben si distinguono chitarre velenose, scream taglienti e growl catacombali (Rositano passa, senza problemi, dal delirio psicotico al rantolo zombie) e il suono secco del rullante. Nelle loro tredici composizioni, gli Hemdale mostrano di essere più intelligenti della stragrande maggioranza delle formazioni che si muovono in orbita goregrind, grazie ad un songwriting più drammatico e, per certi versi, già proiettato verso il futuro. Sono comunque gli Exhumed a fare la voce grossa, partendo a razzo con una “Horrendous Member Dismemberment” che passa attraverso vertiginose accelerazioni guidate da assoli al fulmicotone in orbita heavy-metal, mid-tempo death-oriented (influenza ribadita, in coda, dalla cover dei Possessed) e grugniti animaleschi in rapidissima esalazione. A rendere le loro tracce sempre “piacevoli” (anche quando la componente gore diventa più oltranzista – “Necrovores: Decomposing”, “Torso”, “Masochistic Copromania”, la rovinosa “Disinterred, Digested, and Debauched”) ci pensano, comunque, una sana iniezione di groove (anche a ritmo di death’n’roll, se è il caso – vedi “Bone Fucker” o “The Naked and the Dead”) e rapidi passaggi melodici che creano un effetto di sano smarrimento (si ascoltino, per dire, quelli di “Septicemia (Festering Sphinctral Malignancy, Part 2)”. Negli anni successivi, la band avrebbe perfezionato il suo mix di goregrind e death-metal in dischi come “Gore Metal”, “Slaughtercult” (altra vetta della loro carriera) e “Anatomy Is Destiny”.    

HUMAN REMAINS - Using Sickness As A Hero (1996; USA)

r42611413985304387906.Nonostante una discografia striminzita, gli Human Remains (da Hazlet, New Jersey) restano una delle formazioni più innovative del metal estremo. Influenzato originariamente dai Ripping Corpse, che imbastirono un potentissimo connubio di death, thrash e hardcore classico, questo combo finirà per proporre alcune delle pagine più avventurose del deathgrind, influenzando non poco anche i Discordance Axis, band in cui confluirà il batterista Dave Witte.
Il primo nucleo della band si formò nel 1989, ma sarà solo un anno dopo che il quintetto costituito, oltre che dal suddetto Witte, da Teddy Patterson III (basso - poi sostituito da William Carl Black), Steve Procopio (chitarra), Jim Baglino (chitarra) e Paul Miller (voce) registrerà un primo demo che, per quanto appesantito da una produzione poco incisiva, già mostrava un songwriting di spessore. I brani, infatti, non si limitano a contrapporre rifferama death, accelerazioni repentine, blast-beat rovinosi e uno screaming psicotico, ma tendevano a sintetizzare le diverse inclinazioni stilistiche degli strumentisti in un mix surreale di perizia tecnica ed estatica brutalità. La matrice grindcore (più evidente tra le pieghe convulse di un brano come “Imagine”) è lo sfondo dentro cui la band proietta una visione musicale che, dato il taglio geometrico, sembra addirittura spingersi verso soluzioni mathcore (del resto, non sono pochi gli addetti ai lavori che segnalano i nostri eroi come gli artefici di una delle più importanti premonizioni dell’avventura The Dillinger Escape Plan). Due anni dopo, un secondo demo chiariva meglio le loro intenzioni, con brani ancora più sperimentali: i Righteous Pigs stravolti di “Chemical Life”, il delirante grind progressivo di “Fictitiously Vivid”, la drammatica visceralità di “Of The Same Flesh” e i Pestilence sulfurei di “Sight Beyond Sickness”. “Admirations Most Deep and Foul”, nello stesso anno, regalava altri tre momenti essenziali: una “Mechanical” che, come da titolo, trasforma la loro musica in un perfetto ingranaggio in cui violenza e raziocinio se le suonano di santa ragione; una “Fragrance Of Souls” che rende i Morbid Angel molto simili ad un incubo Nuclear Death; e l’orrore in chiave thrash-grind di “Symptoms Of The New Society”.
Si tratta di lavori tanto striminziti a livello di minutaggio quanto stilisticamente avveniristici. Il trionfo della loro ispirazione si trova, comunque, nell’unico vero Ep ufficiale della loro carriera. Siamo nel 1996 e la Relapse Records non può fare a meno di pubblicare quell’Using Sickness As A Hero che scolpisce definitivamente il nome Human Remains nella storia del deathgrind più evoluto e arty. Anche a livello strumentale questa è la prova più consistente di tutto il quintetto: lo screaming passionale di Miller (un incrocio tra Martin Van Drunen e Scott Ruth) è la voragine emotiva che cerca di condensare in un solo punto tutta l’esplosività di una musica tormentata; il chitarrismo rigoroso ma alienato di Procopio e Baglino dà voce ad uno struggimento latente, che emerge in tutta la sua devastante portata nei momenti più caotici, quando la batteria di Witte – altrove poderosa ma sostanzialmente “riconoscibile” – trasforma il blast-beat in una vera esperienza catartica. A completare il quadro, il basso distorto di Black, ultimo appiglio di un sound attraversato da tensioni spasmodiche. In apertura, “Weeding Out the Thorns” circoscrive il raggio d’azione avanzando tra scatti virulenti, squarci di lucida disperazione, disarmonie e massimalismi noise. “Waste Of Time” si attacca alle orecchie con la sua insostenibile ferocia fatta di figure chitarristiche ruvidissime e rovinosi blast-beat in geometrica propagazione. Le strutture frastagliata di “Rote” (con superbe astrazioni chitarristiche!), “Swollen” e “Human” sono bilanciate dal fraseggiare relativamente cantilenante di “Chewed Up and Spit Out”, un brano in cui la loro ossessione per i Rush ci giunge come una rivelazione.  
Per la band, purtroppo, non ci saranno altre occasioni per mettersi alla prova. “In quel periodo – ricorderà Witte - eravamo già stanchi di quello che stavamo facendo. Ognuno di noi aveva intenzione di muoversi in direzioni diverse, così iniziammo ad avvertire il peso di suonare insieme. Decidemmo, quindi, di staccare la spina e di seguire le nostre inclinazioni”.
Il nome Human Remains tornerà prepotentemente a galla nel 2002, quando la stessa Relapse Records raccoglierà tutto il materiale prodotto dalla band nella compilation Where Were You When che, inutile dirlo, è assolutamente consigliata!

MÖRSER - Two Hours To Doom (1997; Germania)

acov_tid176612Guardi la copertina e immediatamente pensi ad un disco di black-metal. Eppure, in Two Hours To Doom dei tedeschi Mörser, di black-metal c’è praticamente nulla. C’è, invece, quello che intorno alla metà degli anni Novanta era conosciuto come "bremen style" o "per koro sound", ovvero un incrocio molto bastardo tra lo screamo di matrice europea e l’hardcore metallico statunitense, generi che i Mörser finirono per approcciare con viscerale dedizione. Il risultato è uno dei lavori più esplosivi e sperimentali del grindcore europeo della seconda metà degli anni Novanta. Del resto, una band che vantava due bassi e ben quattro cantanti (oltre ad una chitarra ed una batteria), qualcosa di interessante doveva pur farlo.
All’inizio, siamo nel 1995 in quel di Brema, questo ottetto era affascinato dall’hardcore (Merel, Acme e Rohrschack su tutti), ma con il tempo iniziò a prendere in considerazione anche roba metal (Pantera, Bolt Thrower), salvo poi cadere ai piedi dei Carcass. Fu quest’ultima band a spingerli seriamente verso uno stile più aggressivo, che produrrà un frutto già maturo proprio sull’esordio Two Hours To Doom, che uscirà nel 1997 per la Per Koro Records. “All’inizio – ricorda Denny, uno dei cantanti - la nostra intenzione era quella di fare il disco più temibile e caotico di sempre. Perciò, abbiamo reclutato tutti gli amici che condividevano le nostre stesse passioni musicali e abbiamo iniziato a provare. Magari su quel primo disco non suonavamo ancora in maniera perfetta, però posso dire che quella roba era esattamente quello che volevamo fare. Era roba pura.”
Suonare in maniera perfetta? Non so cosa possa significare, ma più si entra in sintonia con queste ventidue tracce e più la perfezione diventa una questione relativa. Che si tratti di roba “pura”, di roba ispirata, su questo non ci piove. Così come mi sembra evidente che la sezione ritmica sia una delle più affiatate e versatili nell’ambito delle contaminazioni grindcore, al pari della chitarra, all’occorrenza affilatissima, ruvida, rumorosa o ambiguamente melodica. La risultante di queste alchimie – lo si comprende fin dai primi secondi di “Kirchgang” - è un suono che utilizza la sovrastruttura grindcore per sintetizzare prassi screamo, growl death-metal, architetture postcore ed epica punk, riservando alle brucianti istantanee a base di blast-beat e parossismo vocal-strumentale i momenti di sfogo più catartico (l’esplosione termonucleare di “Löffle Mich, Herr Assessor”, le scariche elettrostatiche di “Beschwerde” o quelle di “Parapsychopath”, dove si mescolano a truci scansioni Fear Factory, l’assedio emozionale di “Drei Säcke Voll Gold” e quello di “79 min. hölle”, introdotta dal riff di “Corporal Jigsore Quandary” dei Carcass). Sullo sfondo delle diverse colluttazioni strumentali, le voci s’inseguono o si fronteggiano in un gioco di tensioni sempre più esplosive, tra strida lancinanti che riecheggiano le figure vorticose della chitarra e growl miasmatici che lasciano scivolare tra le linee di basso un angoscioso olezzo di morte. Di tanto in tanto, si fanno strada brevi figure melodiche che, quando non fronteggiano crude voragini di tormento (“Nicht Im Film”) o non fanno da preludio a digressioni esiziali (“Vier Wände”), emergono da incontrollate eruzioni di blast-beat e cataclismi elettrici (“Hohe Schule”), oppure si risolvono in arpeggi desolati che finiscono per evocare minacciose apoteosi di terror panico (“Doom (The Divine Gift)”. Altrove, se gli scambi jazzati tra basso-batteria di “Mörser” o quelli, in rapida successione, di “L. A. (Venice Beach 6 P. M.)” dicono, se ancora ce ne fosse bisogno, di una capacità strumentale al di sopra della media, le abrasioni anthemiche di “Armageddon Rise” e “Lichtschalter” gettano luce sul lato più schiettamente trascinante di una musica che, nella conclusiva e strumentale title track, lascia prefigurare persino una variante “post-“ della loro arte.
A quest’opera rilevante, seguirono un dignitosissimo split-album con i The Swarm aka Knee Deep in the Dead (potentissimo act canadese di powerviolence/hardcore), il rocciosissimo deathgrind di “10,000 Bad Guys Dead” (con brani mediamente più lunghi, ma complessivamente meno creativi) e, quindi, dopo una pausa di ben nove anni, il trascurabilissimo “1st Class Suicide”.

NASUM - Inhale/Exhale (1998; Svezia)

nasum__inhale_exhale__frontVi ricordate lo tsunami del 2004, quello che si abbatté violentemente sulle coste della Thailandia, causando migliaia e migliaia di morti? Ebbene, una delle vittime si chiamava Mieszko Talarczyk ed era il chitarrista e cantante dei Nasum. Dopo quel tragico evento, la band di Örebro, cittadina del sud della Svezia, terminò la sua attività dopo una carriera durata più di dieci anni. La band, infatti, si era formata nel 1992 grazie alla passione del chitarrista Anders Jakobson e del batterista e cantante Rickard Alriksson, a margine della loro esperienza con i Necrony. Mieszko Talarczyk si legò ai due dopo qualche settimana, pronto a dare il suo contributo a quella che per molti diventerà la più importante formazione del grindcore a cavallo del nuovo millennio. Una fama che iniziò a crescere enormemente in seguito alla pubblicazione del loro primo disco, Inhale/Exhale, opera che, al netto di una creatività non sempre memorabile, finì per diventare paradigmatica di quello che sarebbe diventato il grindcore di lì a pochi anni,: un genere finalmente capace di interessare una platea più ampia di ascoltatori, nonostante un livello di brutalità sempre crescente.
I dischi dei Nasum assomigliano a robuste scariche di adrenalina, messe in atto attraverso brani sempre intensissimi, anche quando la band decide di allentare la pressione, facendo leva su mid-tempo death o su perversioni crust-punk. Ogni loro disco ha la sua fetta di fan pronti a giurare che, sì, proprio quello è il capolavoro della band. Comunque la si voglia pensare, credo sia innegabile che l’esordio di cui sopra, pubblicato nel 1998 dalla Relapse Records, sia un’opera importantissima perché, oltre ad aver ispirato una miriade di band, fotografa un sound che, mentre guarda ai maestri del genere (Napalm Death e Carcass su tutti) senza disdegnare le soluzioni dell’hardcore scandinavo, riesce anche ad immaginare il futuro, presentandosi in una veste volutamente moderna grazie ad una produzione eccellente, un songwriting scrupoloso e una capacità tecnica invidiabile.
Restati da soli dopo l’allontanamento di Alriksson, Anders Jakobson e Mieszko Talarczyk si gettarono, quindi, a capofitto in un’esperienza annichilente, aperta da una “This Is…” che dire programmatica è dire poco. I brani sono tutti molto brevi, quando non brevissimi, ma capaci di condensare tutta la potenza e la furia di un grindcore che guarda al mondo moderno con cinico distacco, mettendo in atto una severa critica contro le sue nefandezze. Mentre la batteria si sforza in tutti i modi per mantenere la barra dritta in mezzo al diluvio elettrico, rivelandosi anche molto versatile, la chitarra cannoneggia inviperita tra putiferi urlati (“Diggin In”, “It’s Never Too Late”), stride come una sega impazzita (“I See Lies”), prosegue tra riffing più riconoscibili su cadenze galoppate (“There’s No Escape”) e groove che accendono micce per detonazioni più cerebrali o per scosse più cadenzate (la title track, “The Rest Is Over”, “Disappointed”, “Shapeshifter”, “Worldcraft”), partecipando a botta e risposta come anthem tascabili (“Feed Them, Kill Them, Skin Them”), lanciandosi in qualche assolo in modalità epico-metropolitana (“Closing In”) o lungo rettilinei assordanti che sanno di chiamata alle armi (“Shaping The End”). Le bordate di “The World That You Made” devono più di qualcosa ai Brutal Truth, l’attacco di “For What Cause” è in linea con certo metalcore dell’epoca, mentre l’andamento di “No Sign Of Improvement” ha addirittura sembianze thrash. In coda, “Can De Lach”, il brano più lungo con i suoi oltre tre minuti di durata, tra atmosfere sospese e fulminanti accelerazioni.
Un esordio potente, insomma, cui avrebbero fatto seguito i non meno interessanti “Human 2.0” “Helvete” e “Shift”, caratterizzati da un sound più asciutto e da brani mediamente più articolati.

KOREISCH - This Decaying Schizophrenic Christ Complex (1999; Inghilterra)

koreischSe dovessi andare subito al sodo, mi verrebbe da dire che ascoltare This Decaying Schizophrenic Christ Complex, unico lavoro degli inglesi Koreisch, significa pensare alla tradizione grindcore con un orecchio rivolto alle soluzioni deformi ed anarchiche del James Plotkin del progetto Phantomsmasher, e con l’altro alle meccaniche devastazioni dei Today Is The Day di “Sadness Will Prevail”. Questo perché la band di Sheffield, la città dell’acciaio, pur essendo cresciuta a stretto contatto con il grindcore, ebbe modo di mettersi alla prova insistendo con dosi massicce di industrial, doom, dark-ambient, noise e sludge-metal. Il risultato fu uno dei sound più intensi dell’ultimo scorcio degli anni Novanta.
Di questo quartetto ancora oggi pressoché sconosciuto, facevano parte il cantante Chris Meadows (il cui latrato febbricitante ricordava in parte quello dell’indimenticato Johnny Morrow dei connazionali Iron Monkey), il chitarrista Simon (che si accaniva sul suo strumento con la stessa maniacale veemenza di un serial killer alle prese con la sua preda) e una sezione ritmica (il batterista Lee e il bassista Foster) che generava tutta una serie di bombardamenti a tappeto. Eppure, non li diresti capaci di cotanta devastazione mentre scorrono via i tre minuti e mezzo dell’opener “Justification By Faith”, una nebulosa ambient da cui emergono le sinistre note di “In Heaven (Everything Is Fine)”, canzone partorita dalla mente deviata di David Lynch e musicata da Peter Ivers per il film “Eraserhead”. Ma di lì a poco “Forced Attrition” metterà i puntini sulle "i", producendosi in un’ipotesi di industrial-grind dalle connotazioni tribali (gli farà eco, più avanti, una minacciosa “Caress This Violation”, di cui lo Steve Austin della “tristezza imperante” sarebbe stato fiero). “Submerged Tao Fixation” è una nuova immersione tra le inquietudini rarefatte della psiche umana, qui colte dalla prospettiva di un monaco taoista alle prese con i suoi rituali, quando in “The Kevorkian Solution” saranno suggerite mediante l’accostamento di musica concreta e vocalizzi liturgici. In questa alternanza di pieni e di vuoti, di metafisico abbandono e apocalittico frastuono, “A Premonition of Lifes Erosion” e, subito dopo, la prima parte di “1 Inch Stab Wound”, ci giungono come i primi, inequivocabili indizi della loro filiazione grind. Ma è un grindcore portato alle estreme conseguenze. Se riuscite ad immaginare, anche mentre cercate di nascondervi durante le strazianti macellazioni (siete in grado di trovare parole più adatte?) di “Preordained Incarceration”, “Bleed Like Christ” (che lascia emergere persino inclinazioni psichedeliche) e soprattutto di “4000 Years Of Suppressed Dissection” (uno dei massimi capolavori del grindcore, di ogni tempo e latitudine), dei Discordance Axis alle prese con il materiale più sanguinoso dei Neurosis o degli stessi Today Is The Day, allora siete, almeno in parte, sulla buona strada. Anche la parola “ecatombe” potrebbe ritornarvi utile. Di fronte alla monumentale tormenta sonica di “Eclectic Powder Burn”, il grido disperato di Meadows appare come un’inezia vana, ma testimonia lo spessore psicologico di queste partiture che, almeno nei momenti più dilatati (si pensi anche alla conclusiva “The Eating of Food Sacrificed To Idols”, oltre diciassette minuti di sibili galattici, suoni trovati, micro-onde, strida elettriche e manipolazioni vocali), assomigliano alla versione sonora di una lenta e drammatica agonia.

UNRUH - Setting Fire To Sinking Ships (1999; USA)

5118030.Al confine tra grindcore e metalcore, i texani Unruh realizzarono, in appena un lustro, due album da riscoprire, soprattutto quel Setting Fire To Sinking Ships che, alle soglie del nuovo millennio, non solo mise fine alla loro carriera, ma rappresentò anche il frutto più maturo della loro esperienza. Definiti a più riprese come un incrocio tra Pig Destroyer e Converge o come una sintesi tra i Brutal Truth degli esordi e gli Helmet, gli Unruh rappresentarono un importante scossone per la scena estrema, grazie ad un songwriting di assoluto spessore, che faceva leva soprattutto sulla frenetica batteria di Bill Fees e sulla versatile chitarra di Ryan Butler. All’inizio della loro carriera – siamo nel 1995 – gli Unruh pensavano, comunque, di districarsi tra hardcore e speed-metal, ma lentamente le band del catalogo Earache e il metalcore tormentato dei Rorschach (una delle band preferite di Butler) iniziarono a lasciare tracce sempre più consistenti nella loro fantasia. La prima fatica, “Misery Strengthened Faith” (1998), si presentava con una crudissima “Salt Lake Of Fire And Brimstone”, proseguendo, quindi, tra grattugie crust (“Compost”), amplessi sludge-grind (“Jab Job”, “Mercitron”) e laceranti vampate anticapitaliste (“Fear And Loathing Among The Working Class”).  
Il picco della loro creatività arrivò l’anno successivo con Setting Fire To Sinking Ships, disco su cui le sferzanti urla del cantante Mike Edwards si abbattono come un tornado lungo le trame stordenti e spigolose di “Spoonful Of Tar” (sorprendentemente introdotta da un minuto circa di duetto acustico chitarra-pianoforte), “Disdain”, “Friendly Fire” e “Five Year Wager”. Tutti i brani non sono mai frutto di idee banali, perché gli Unruh sanno bene che se vogliono rendere giustizia alla loro rabbia, se vogliono dare sostanza musicale alle loro invettive, devono imbastire strutture altamente drammatiche, come quella di “Faded Tattoos” o, meglio ancora, come quella di “Complex”, in cui compaiono anche tracce di doom, più o meno evidenti anche tra le pieghe di “Layman's Gallows”. Uno schiaffo sonoro niente male, che mostra quanto il grindcore possa essere un genere versatile e tutt’altro che fine a se stesso…

CEPHALIC CARNAGE - Exploiting Dysfunction (2000; USA)

cephalicTra i massimi innovatori del genere, i Cephalic Carnage si concentrarono sul lato più sperimentale e visionario del grindcore, trasfigurandone la primigenia brutalità in un sound assolutamente originale e ricco di influenze provenienti anche da mondi musicali apparentemente lontanissimi. Del resto, da una band che dichiara di suonare “Rocky Mountain hydro-grind”, uno non può certo aspettarsi di ascoltare le cose che suonavano i Napalm Death o i Carcass. Cioè, anche, ma sottoposte ad un’operazione di deformazione e di slittamento cui di certo contribuiscono le massicce dosi di marijuana assunte da tutti i membri della band. In questo, possono dirsi anche fortunati, perché dalle loro parti (Denver) l’uso dell’erba è stato da tempo legalizzato. Proprio nella capitale del Colorado, la band si formò nel 1992 su iniziativa di Leonard "Lenzig" Leal (voce) e Zac Joe (chitarra), che registrarono il demo “Scrape My Lungs” senza avere ancora le idee chiare sulla direzione da prender, tanto che per circa quattro anni non combinarono granché. Fu solo nel 1996 che i due allargarono la formazione, chiamando a sé il batterista John Merryman, Steve Goldberg alla chitarra e Doug Williams al basso. Questo quintetto registrò l’Ep “Fortuitous Oddity”, che lasciava emergere, seppur in una veste penalizzata da una produzione non proprio impeccabile, il peso di una creatività debordante. I primi a credere in loro furono gli addetti ai lavori della italiana Headfucker Records, tanto da invitarli a registrare il loro primo disco, Conforming To Abnormality, pubblicato nel 1998. Si tratta di un’opera assolutamente fondamentale a cavallo tra grindcore e death-metal, nonostante manchi ancora qualcosa a livello di compattezza. I primi secondi di “Anechoic Chamber” danno già alcuni indizi sulla loro eccentricità: battito disinvolto di drum-machine, ombre di dub, qualche rimpallo percussivo giocherellone, un telefono che squilla. Dopo una quarantina di secondi circa, eccoli quindi lanciarsi nel loro primo tour de force in preda a  schizofrenia death-metal e parossismo grind. Segue la follia controllata di “Jihad” (Jihad is a bunch of shit because so many perished because of it!), tra cambi di tempo repentini, saturazioni doom e barlumi di humor nero che fanno pensare agli Exit-13, evocati anche dai deliranti armonici in letargica diffusione che compaiono su “Wither”. Il growl di Leal è così cavernoso e gutturale da risultare disgustosamente bizzarro. Su “Regalos de Mota”, il drumming articolato è solo una delle tante attrattive di un brano che fotografa una band in stato di grazia, capace anche dell’incredibile “Extreme of Paranoia”, numero che riesce a darci le esatte coordinate di una musica che, attraverso il medium dell’estremismo sonoro, non vuole fare altro che abbattere gli steccati di genere, qui passando in rassegna fremiti di corde e vortici psycho-jazz, malsane oasi lounge, stordenti baruffe sabbathiane, dissennatezze acide in stile Clotted Symmetric Sexual Organ, piani sequenza di dolenza doom, interludi interrogativi e, come dessert, battiti techno-noise… A casa mia, questo si chiama genio.
Ma in questo delirio c’è della logica, come dimostra anche la lunga “Waiting for the Millennium”, ancorata all’elastico batterismo di Merryman, vero centro propulsore della macchina infernale della "carneficina cefalica".
Una macchina che due anni dopo darà alle stampe un Exploiting Dysfunction (pubblicato dalla Relapse Records) che rende il loro sound ancora più disturbato e disturbante. Programmaticamente, la prima traccia (“Hybrid”) ricorda il carattere multiforme delle loro partiture, l’assoluta schizofrenia di una musica che a questo giro conduce l’infatuazione per il grindcore verso territori più dichiaratamente progressivi, per cui nessuna sorpresa se chitarre liquide e tratteggi quasi-fusion convivono con torridi dissidi sludge-doom, se masse rumorose vengono risucchiate da buchi neri e via di questo passo. Pur producendosi qua e là in selvagge dimostrazioni di potenza, comunque piuttosto brevi (“Drive To Insanity”, “Molestandos Plantas Muertos!” – che evoca i Brujeria dell’Ep “¡Machetazos!” -, “Paralyzed by Fear”), la band preferisce esibirsi in lunghe e cerebrali dissertazioni come “Rehab” (dove scossoni death-doom condividono la scena con matematiche progressioni jazz-metal), “Cryptosporidium” (dilaniata da tourbillon psicotici in un continuum strumentale sempre più frastagliato), “Invertus Indica (The Marijuana Convictions)” (dove le ossessioni della band ritornano in forme sempre più magniloquenti, mentre le parti lente sembrano suggerire un collasso psichico in atto), altrove scolpendo mostruose indolenze dentro muraglie rocciosissime (“Gracias”). E mentre “The Ballad Of Moon” ricava schegge di grind da incubi Neurosis, “9 Feet Of Smoke” schiaccia tutte lo loro influenze in uno strumentale-frullatore ed “Eradicate Authority” alterna parti più catchy e pachidermiche scorie Black Sabbath. Tutti tasselli di un mosaico eccitante che va in gloria con gli oltre quindici minuti del brano eponimo, un piano sequenza in cui la band sfoga tutte la sua creatività cavalcando tra detonazioni psichedeliche, sample vocali, voli pindarici, rallentamenti colossali dentro orbite gore, punti di fuga spacey e una lunga discesa nel baratro del caos armonico.
La fama della band, a questo punto, cresce enormemente nel circuito delle musiche estreme e, ovviamente, per gli appassionati l’attesa per le mosse successive inizia a farsi insostenibile.
Lucid Interval arriva a distanza di due anni, imponendosi come il loro disco più scientifico. Laddove, infatti, il suo predecessore (che gli contende la palma di miglior disco della band) lasciava libero sfogo alla follia dei musicisti, questo terzo lavoro mostra una scrittura più equilibrata, un disegno complessivo più geometrico. I primi due brani, “Scolopendra Cingulata” e “Fortuitous Oddity”, vanno a formare un unico preludio strumentale, alternando scansioni meccaniche e detonazioni furibonde. “Anthro-Emesis” apre, quindi, su scenari di tech-deathgrind che delineano le coordinate essenziali dell’intero lavoro, tutto giocato su una continua altalena emotiva dove groove robusti, irradazioni gore e sperimentalismi abrasivi al confine tra psichedelia, jazz e post-rock (si ascolti, per esempio, la mirabolante “Pseudo”, uno dei momenti più alti della loro carriera, ma anche la conclusiva “Arsonist Savior”, che strizza più di un occhio alla fusion) sono soltanto le spie più luminose del carattere ibrido del loro sound, sempre pronto a destrutturare anche quelli che, all’apparenza, appaiono come momenti più ortodossi (“The Isle Of California”, “Rebellion”, “Zuno Gyakusatsu”, “Redundant”, la stessa variante swedish death-metal della title track). Altro momento clou è quello di “Black Metal Sabbath" (introdotta da un sample tratto da “Twin Peaks: Fire Walk With Me” di David Lynch), un brano che, come da titolo, applica malsano black-metal tra le pieghe del doom. La marijuana, naturalmente, ci mette lo zampino, suggerendo ai ragazzi addirittura un interludio mariachi (“Cannabism”).
La fase più creativa della band è, a questo punto, chiusa, anche se i dischi successivi (a cominciare dall’Ep “Halls Of Amenti” pubblicato nel novembre successivo, contenente un’unica traccia di diciannove minuti che vira verso soluzioni sludge-doom) meritano sicuramente di essere ripescati, se non altro perché mai banali.

CRIPPLE BASTARDS - Misantropo a senso unico (2000; Italia)

mi0002231976_01Odio, nichilismo, misantropia, schifo morale. Dio è morto, tutto è permesso, ma tutto è inutile. Dunque la vita è una merda. Probabilmente è da qui, da questo ragionamento che Giulio "the Bastard" prende le mosse per avventurarsi nel mondo della musica estrema quando, appena quattordicenne, fonda ad Asti, insieme all’amico Alberto "the Crippler" (17 anni), quella che diventerà una delle migliori formazioni di musica estrema italiana, nonché una della realtà più rispettate della scena grindcore: i Cripple Bastards. Fin dai primi passi, quando ancora si chiamavano Grimcorpses, il sound è apparentato con il grind-noisecore di formazioni quali Seven Minutes of Nausea, Fear Of God e Sore Throat, ma poco alla volta avrebbe assimilato anche tratti crust-punk e hardcore, mantenendosi in un equilibrio “precario” che li avrebbe caratterizzati fino ai nostri giorni. Su “Your Lies In Check”, esordio del 1996 per la Ecocentric, convivono, dunque, agghiaccianti sfoghi che fanno pensare anche agli Anal Cunt (“Without A Shadow Of Justice”, “Imposed Mortification”, “Irenic”, “The Outside World”), malefici turpiloqui (“Images Of War/Images Of Pain”, “Prisons”, “Danas Je Dan Za Lijencine”), qualche bizzarria (“Disagreeable Selections”, “My Serenity”) e momenti più orientati verso un punk-rock quasi scanzonato (“1974”, “Vital Dreams”, “Stimmung”, “Ragman”), ispirato ai croati Patareni, “che oggi – ricorda Giulio – sono dei perfetti sconosciuti, ma che nella scena Grind della prima metà degli anni Novanta avevano introdotto proprio questo stile punkrockeggiante in ambito Grind”. A sorpresa, i Cripple si concedono anche un paio di cover: “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson e “We Can Work It Out” dei Beatles . A conti fatti, il messaggio di “Your Lies In Check” è molto semplice: il mondo è un posto terribile in cui vivere. Figurarsi l’Italia: L'Italia del perbenismo, l'Italia dei leccaculo / è la patria dei coglioni che non usano il cervello / han bisogno di qualcuno che li affoghi nello schifo […] Soffoco in una strada affollata di apatia, / intossicato dalla merda che ingoiate tutti i giorni, canta Giulio su “Italia di merda”.
Ma quattro anni dopo, su Misantropo a senso unico, le cose andranno anche peggio e, quindi, meglio… Da molti considerato il loro capolavoro, il disco fu registrato da una line-up che, oltre a Giulio alla voce e Alberto alla chitarra, vedeva Schintu The Wretched al basso e Walter Dr. Tomas alla batteria. Ridotto il numero dei brani a 16 (quando sul precedente se ne contavano ben 69!), la band ha modo di concentrare al massimo tutte le sue influenze e tutto il suo odio, producendosi in una delle manifestazioni sonore più nichiliste e brutali che la musica italiana ricordi. Forte di una copertina che registrava gli episodi dei lanci di pietra dai cavalcavia, allora tristemente frequenti nel Bel Paese, il disco si segnala innanzitutto per la grande prestazione chitarristica di Alberto. Dirà Fulvio “Hatebox (che dopo la pubblicazione del disco, prenderà proprio il posto di Alberto): “Per quanto riguarda lo stile di chitarra e la scelta dei suoni di Alberto, a tutt’oggi, continuo a ritenere le sue tecniche e quelle di Agata dei Melt Banana come cose inaudite in ambito hardcore e grind. Erano avanti minimo di quindici anni. Alberto si era inventato cose a mio avviso inconcepibili per quel periodo.” Ma Misantropo a senso unico sancisce anche il trionfo espressivo della voce di Giulio, qui praticamente torturata, portata al limite delle sue possibilità, violentata affinché potesse davvero “dire” tutto il dolore, lo schifo e la ferocia che lo assediavano. Le sue liriche, ovviamente in italiano (perché solo nella propria lingua si può veramente dire quello che si “sente” nel profondo), sono sputi di misantropia senza fine. Lo sguardo è attento, ma il distacco e l’assenza di sovrastrutture emozionali sono necessarie. Il cinismo e la sociopatia sono il sole sul deserto che ho in me, grida in “La repulsione negli occhi”. E nella title track, ci tiene a precisare: La gente mi fa schifo, lascio tutti alle spalle, tiro dritto fino all'ultimo. E, come se non bastasse, sull’etichetta del vinile facevano bella mostra di sé le seguenti parole: Ti auguro di crepare… oggi. Mentre sul retro, No alla soluzione. Tu sei il problema. All’interno, crude immagini di corpi mutilati, in perfetto stile Carcass, completavano un quadro assolutamente fosco, cui faceva eco una musica esplosiva, sospesa tra accelerazioni punk/hardcore (“Il Sentimento Non è Amore”, “Il Tuo Amico Morto”) e sfuriate noisecore (davvero paurose quelle che squassano “Rapporto Interrotto” e “Nascere per violentarsi”), oltranzismo nichilista (“Dio è solo merda” è un brano che non ha bisogno di commenti…) e stravaganze piantate nel bel mezzo della distruzione (l’intermezzo turbo-folk di “Sogno un mondo senza...”, che ripesca un Celentano d’antan!). In chiusura, “94 x flashback di massacro", rifacimento del demo inserito nella cassetta split a 4 band (Cripple Bastards, Grimcorpses, Harsh Feelings e Filthy Charity) del 1993. Follia pura in coda ad un disco storico.

DISCORDANCE AXIS - The Inalienable Dreamless (2000; USA)

a1857682672_10Destinati a diventare una delle formazioni più importanti del grindcore, i Discordance Axis si formarono all’inizio degli anni Novanta nel New Jersey grazie all’interessamento del cantante John Chang e del chitarrista Rob Marton, due amici di vecchia data che avevano già condiviso il progetto Sedition. L’incontro con il fenomenale batterista Dave Witte (ex Human Remains) sarà la ciliegina sulla torta. Inizialmente, l’influenza più pesante fu quella dei Napalm Death di From Enslavement To Obliteration, il disco che per lungo tempo ossessionò Chang. I primi anni passano tra prove sporadiche e la realizzazione di split-album, poi nel 1995 arriva finalmente la prima fatica sulla lunga distanza. “Ulterior” è perfettamente in linea con l’influenza dei maestri inglesi, sebbene il lavoro dietro le pelli di Witte e quello alla sei corde di Marton facciano di tutto per schiodare il sound da dinamiche fin troppo scontate. Tra momenti che già lasciano presagire futuri sviluppi sperimentali (“Ruin Trajectory”), altri che risentono chiaramente degli echi dell’hardcore giapponese (“Human Collateral”) e altri ancora in cui i retaggi thrash si fanno più scoperti (“Harmony Battery”), il disco (appesantito anche da una produzione poco incisiva) scorre via senza lasciare segni particolarmente profondi, momentaneamente sospendendo, quindi, il giudizio sulle effettive potenzialità del trio. Grazie alle origini di Chang, in questo periodo la band continua a suonare regolarmente in Giappone, dove entra in contatto con quei pazzoidi dei Melt Banana, con cui decidono immediatamente di collaborare. Ne verrà fuori uno split su cui i Nostri mostrano di stare affinando il proprio sound, sulla scorta di brani mediamente più originali. E’ soprattutto la chitarra di Marton a trionfare, in un continuo e vorticoso gioco di riff saturi e spigolose accelerazioni che ritroveremo, in una versione ancora più rifinita, sul secondo lavoro della band, Jouhou (1997).
E’ questo il momento in cui i Discordance Axis si rivelano al mondo del grindcore come una delle formazioni più originali e creative, avendo ormai raggiunto un amalgama assolutamente invidiabile. Ascoltate, per esempio, i cinquantatré secondi di “Vertigo Index” e capirete cosa intendo. Mentre Marton continua imperterrito a macinare torrenziali sciami elettrici, Witte si ricorda di aver suonato in una delle formazioni più originali a cavallo tra death-metal e grindcore (i già citati Human Remains), architettando segmenti percussivi in cui pattern e blast-beat diventano un’unica massa di chirurgica potenza. Quanto a Chang, eccolo finalmente sbocciato, padrone di una voce mostruosa in cui growl, scream e purissima bestemmia si contendono il centro della scena. “All’iniziò – ricorderà – per allenare la mia voce me ne andavo in giro in macchina ascoltando i dischi dei S.O.B.. Una volta a casa, aspettavo invece che gli appartamenti vicini al mio si svuotassero, così da poter mettere su roba veramente estrema. Allora, iniziavo ad urlare a squarciagola, cercando di affinare la mia tecnica…”. Chang, l’otaku, il fanatico di manga e anime che urla e schiamazza perché, in definitiva, questo è uno dei tanti modi possibili per escludere il mondo dalla propria prospettiva, riempiendo il vuoto con mondi paralleli, astrazioni, possibilità altre. Le sue passioni più grandi? Votoms, Evangelion, la vecchia scuola Gundam, Ideon, Yamato, Dougram, Macross e via di questo passo. Per non parlare, poi, dell'amore per i libri di Philip K. Dick... La musica dei suoi Discordance Axis nasce, quindi, dall’incontro tra la forza annichilente del grindcore, la sperimentazione e la follia di tante formazioni giapponesi, una sana dose di powerviolence e la volontà di creare veri e propri “pseudomondi”. Su Jouhou tutto questo è in ribollente divenire. I tre non si accontentano più di sbattere continuamente la porta, di fare la voce grossa per il solo gusto di creare scompiglio, vogliono a questo punto entrare nelle pieghe del discorso, sminuzzarne le proposizioni, giusto per ricostruire la sintassi del genere tra cambi di tempo vertiginosi, acrobazie strumentali e squarci di dissonante clamore. Non è ancora il loro disco definitivo, per quanto abbia numerosi estimatori, ma questa opera numero due della loro saga ha comunque il merito innegabile di aver gettato i semi che di lì a tre anni avrebbero fatto sbocciare l’apocalisse di The Inalienable Dreamless. Ecco, dunque, attorno alla tempesta radioattiva di “Nikola Tesla”, raccogliersi cocci di devastazioni sistematiche (“Panoptic”, “Come Apart Together, Come Together Alone”), echi di vecchi dischi thrash passati nel tritacarne (“Information Sniper”), massimalismi ottusi (“Rain Perimeter”, “Flow My Tears the Policeman Said”), math-grind e japa-noise in viaggio di nozze (“Damage Style”, “Typeface”), schizzi epilettici (“Numb(Ers)”), fino a soluzioni più atmosferiche (“Reincarnation”). Poi, qualcosa cambia nell’animo di Jon Chang.
“Quando stavo registrando i primi due dischi della band, ero una persona molto arrabbiata e questo era quanto volevo trasmettere attraverso la musica. Ero davvero sconvolto, non ero molto socievole, insomma non riuscivo davvero a comunicare con quanti mi circondavano. Su The Inalienable Dreamless c’è molto di più che semplice rabbia. Quando ho finito di registrarlo, mi sentivo una persona diversa. Per me, scrivere quel disco è stata un’esperienza catartica. Ci ho lavorato per due anni e mezzo, sempre pretendendo il massimo da me stesso. Mentre ci trovavamo in tour in Giappone, ho visto questo “anime”, “Evangelion: Death and Rebirth” [uno dei due film d’animazione che, dopo averla ripresa, concludono la serie televisiva “Neon Genesis Evangelion”, ndr]. Quando sono uscito dal cinema, ho del tutto cambiato il mio punto di vista su ciò che ero e su ciò che sarei voluto diventare in quanto artista.” E, ancora: ”Allora avevo una conoscenza funzionale deli giapponese. Ho visto Evangelion e ho capito il 15 per cento di quello che ho visto, ma emotivamente, ho capito il 100% ! Guardare quel film, è stato un po’ come assistere alla morte di un amico”.
Tutti i temi portanti di quella storia (il coraggio, la perdita, il bisogno di ricevere l’approvazione da parte di figure genitoriali “distanti”, la maturità e via di questo passo) ebbero, insomma, un impatto potentissimo sulla psiche di Chang che, oltre a suggerire quella matrice attraverso i titoli dei brani di The Inalienable Dreamless, cercò di trasferirne il peso emozionale in una musica sempre più esplosiva e straziante. Se, quindi, lo stesso Hideaki Anno (che aveva scritto e diretto quella serie dopo quattro anni di profonda depressione) ebbe a dire che “Evangelion” “conteneva” tutta la sua vita, allo stesso modo si potrebbe sostenere che, per il tramite di quella serie, The Inalienable Dreamless sia la vita stessa di Jon Chang, offertaci in diciassette pannelli diversi. Marton e Witte sono nelle retrovie, ma tutt’altro che secondari. Rappresentano, infatti, l’ossatura musicale intorno cui la carne-viva di Chang cerca disperatamente di raccogliersi, agonizzando tra le sue stesse liriche come un’anima che brucia tra le fiamme dell’inferno.
Per molti, The Inalienable Dreamless è il più grande disco grindcore di sempre e, se proprio questa potrebbe sembrarvi una tesi troppo ardita, almeno sforzatevi di convenire con me sul fatto che questi solchi contengono un radicale ripensamento del più veloce e oltranzista possibile, senza cui davvero riesce difficile parlare di un grindcore moderno. Grazie anche ad una produzione più adeguata, il suono dei Discordance Axis brilla finalmente di una luce abbagliante, e tutto sembra essere definitivamente al suo posto: la voce agghiacciante di Chang (che disse di essersi ispirato al sassofono di Jim Sauter dei Borbetomagus!) e la chitarra esplosiva, dissonante e camaleontica di Marton, entrambe costrette a restare, nonostante tutto, all’interno della “forma” dalla batteria metronomica e versatile di un David Witte da applausi. Così, gli ostinato termonucleari di “Castration Rite” e “Sound Out the Braille”, le cadenze compresse e gli scarti progressivi di “Oratorio in Grey”, le ruvidissime accumulazioni on speed di “Angel Present” e quelle “math” di “The Necropolitan” e “Pattern Blue” fanno pensare ad un’inumana esasperazione della lezione Human Remains. Razionalmente viscerali o visceralmente razionali, i Discordance Axis insistono sull’intensità perché è ad essa che, in fin dei conti, il grindcore deve tutto. Niente è lasciato al caso, nemmeno una nota. Ma questo diventa chiaro solo se si sceglie di perforare la barriera impenetrabile del rumore, solo se, tra le altre cose, si decostruiscono con il cuore e la mente i ruggiti zombie della title track o quelli esistenziali di “Jigsaw” (quest’ultima, scandita da progressioni melodiche che preannunciano la luce alla fine del tunnel) e “Compiling Autumn", che contiene alcune delle liriche più belle del disco: Between one life and another / there is a brittle pitch / painted burgandy and ochre / at a steady clip to winter / all the moments trapped in our hearts to be relived / with half myself destroyed I’d rather die alone. Da segnalare, ancora, la struttura fluttuante di “The Third Children” e l’agonia al ralenti di “A Leaden Stride To Nowhere”, che mai giunge al collasso definitivo, anzi risolvendosi nell’ultimo, furibondo assalto di “Drowned”.
A segnalare il distacco dalle altre produzioni grindcore, coeve o meno, una confezione DVD con tanto di orizzonte marino sovrastato da un cielo smisurato.
Nel 2001, prima di sciogliersi, la band parteciperà ad uno split-album con 324 e Corrupted, regalando un’altra pagina di stordente vigore (“Ikaruga”) e un inaspettato sudario drone-ambient (“Berserk”). Nel 2005, "Our Last Day" vedrà, quindi, alcuni artisti confrontarsi con il materiale dei Discordance Axis: Mortalized, Cide Projekt, Gate, Melt Banana, Noisear, Gridlink e, soprattutto, Merzbow, che remixa tutto The Inalienable Dreamless, condensandolo in sedici minuti di delirio rumorista.

GROINCHURN - Whoami (2000; Sudafrica)

10594L’Africa trovò i suoi portabandiera grindcore nei sudafricani Groinchurn, una delle prime formazioni del continente nero a firmare un contratto con una label straniera (nello specifico, la tedesca Morbid Records). Christo Bester (voce e basso), Mark Chapman (chitarra) e Sergio Christina (batteria) provenivano da esperienze death-metal in formazioni quali Sepsis e Desecrator quando, nel 1994, decisero di unire le forze. Il primo demo, "Human Filth" fu registrato in appena tre ore ed è un rabbioso concentrato di grindcore prima maniera cui fa eco, qualche mese più tardi, un meglio prodotto “Every Dog Has It's Decay”. Il primo disco ufficiale è “Sixtimesnine” del 1997 e presenta un grindcore (con picchi gore) assolutamente eclettico, aperto alle più diverse influenze (per le trame siderurgiche di “XXXXX”, si ispirano addirittura agli Skinny Puppy). Una formula (ribattezzata dalla stessa band con il nome di “Africore”) che, dopo un lavoro di assestamento (“Fink”), sarà perfezionata nelle tredici tracce del debordante Whoami (2000). Se il faro principale della loro avventura sembra essere rappresentato dai Brutal Truth più versatili, in brani come “Fickle World” o “Elude” si sentono echi Rage Against The Machine (il lavoro alla sei corde di Chapman, del resto, deve più di qualche cosa all’intelligenza strumentale di Tom Morello), mentre il groove-metal dei Biohazard sgomita in mezzo alle fiammate psichedeliche di “Everything You Know's a Lie”, “Blown Off Course” e “Quiet Please”. Altrove (“Da Vitameen Green”), emerge la loro passione per l’hardcore old-school (ma niente di così definitivo da non consentire, per gradire, uno sbilenco assolo hawaiano o la proliferazione di sample vocali mandati al rovescio) e per la trascinante frenesia crust dei Disrupt (“Coughin’”).
A colpire non è soltanto la capacità di trasformare il grindcore in una tela su cui è possibile proiettare un numero apparentemente indefinito di soluzioni musicali, ma anche la qualità sopraffina dell’interplay. Così, tra scambi rocamboleschi e momenti più ordinari, il disco culmina nei quasi dieci minuti di “Buy The Way”, uno dei momenti più sperimentali della loro carriera, tra scansioni industrial-noise e attacchi rap-metal.
In seguito agli ottimi riscontri, la band riuscì a suonare qualche concerto sia in Europa (dove furono coinvolti in uno spassoso malinteso con la polizia austriaca, per ore alla ricerca di marijuana nel loro camper!) che negli Stati Uniti. Stufi della limitatezza della scena sudafricana, nel 2001 (anno in cui parteciparono a diversi split-album e in cui fu pubblicata la compilation “Thuck - Grinding South Africore, The Early Days”, contenente il materiale dei loro primi anni di attività) decisero alfine di trasferirsi in Repubblica Ceca, sostenuti dall’ex manager dei Krabathor, Petr Hejtmanek. Ma nei successivi sei mesi, i rapporti interpersonali divennero sempre più tesi. Così, verso la fine di quello stesso anno, dopo essere tornata in patria, la band decise di mettere la parola "fine" sul libro della sua esaltante avventura.

PARADE OF THE LIFELESS - The Anatomy of a People's Bondage (2000; USA)

r15034034641329052442.Incrociando il delirante parossismo degli O.L.D. del disco d’esordio con lo spirito avventuroso dei Discordance Axis (e, quindi, degli Human Remains) e l’epica vorticosa del japanoise, all’alba del nuovo millennio gli americani Parade Of Lifeless (moniker che si rifà ad un brano degli Assück) innescarono una delle esperienze più traumatizzanti dell’universo grindcore, così come testimonia The Anatomy of a People's Bondage, loro unica fatica discografica. La formazione, che ruotava intorno al cantante Derrick Kowalewski, al chitarrista e bassista Paul Kozlowski e al batterista Jim Miller, riuscì infatti a terremotare le orecchie degli appassionati con una mezzoretta scarsa di stop and go brucianti, blast-beat come se piovesse, interludi jazz e mostruose tribolazioni spazzcore. Fatta eccezione per la parentesi acustica di “Is Suzy Going To Be Late?” e la cover, comunque straziata da improvvise scariche di bile, di “The Wind Cries Mary” di Hendrix, tutto il disco celebra una brutalità istintiva e caotica, fatta di scosse inconsulte (“Flash In The Pan”), catastrofici ottovolanti da cui si intravedono istantanee Naked City (il brano eponimo, con Kowalewski degno seguace del culto di Yamatsuka Eye), ostinato chitarristici al fulmicotone (“Blue Eyed Jesus”), tech-grind risucchiato da vortici spazio-tempo (“Oddball”) e trame furiosamente geometriche come quelle di “Doug Flutie Loves His Kiddie Porn” e “Yes And No”, in cui il lavoro della chitarra è in evidente stato di sottomissione nei confronti della coppia Procopio/Baglino degli Human Remains. Ma il momento definitivo della loro arte è sicuramente “The Mind's Quicker Than The Eye”, una parata di aberrazioni strumentali che, mentre strizza l’occhio ai Dillinger Escape Plan, tira per i capelli anche qualche fraseggio di violino.

REINFECTION - They Die for Nothing (2000; Polonia)

reinfectionVisto che con le definizioni ci si diverte un mondo, ad un amico che mi chiedesse che tipo di musica suonano i polacchi Reinfection, non potrei rispondere che con un sonoro “brutal death-goregrind”. Una forzatura? Tutt’altro, visto che i pilastri attorno cui ruota la musica di questa formazione polacca sono proprio il brutal death-metal più soffocante e il goregrind più cadenzato. Tuttavia, è la viscerale intensità con cui questi ragazzi affrontano la materia a renderli degni di una menzione speciale. E, allora, come è giusto che sia, facciamo un salto indietro, per l’esattezza nel 1994.
A Przysucha, un piccolo paesino a cento chilometri a sud di Varsavia, era possibile imbattersi in una formazione metal alla ricerca di una ragione di vita, i MOB. Era guidata da un certo Pajak, il quale, voglioso di sondare nuovi territori, decise di dare vita ad un nuovo progetto, chiamandolo Reinfection. L’intenzione era quella di muoversi a cavallo tra grindcore e un hardcore particolarmente esplosivo. Il primo periodo, però, lascia poco sul campo. Poi, Pajak decide di mettere su famiglia, ringrazia e se ne va. Così, tra cambi di formazione e qualche sparuto concerto, la band riuscirà a promuovere seriamente la propria musica solo in seguito alla pubblicazione del demo “The Edge of Her Existence” (1998), la cui qualità sonora lasciava molto a desiderare. In ogni caso, più di mille copie andarono via, tanto che in breve tempo la band, ormai assestatasi in un quartetto (Martin, chitarra; Mlody, batteria; Rudolph, voce; Michal, basso), iniziò a scrivere il materiale che poi confluirà su They Die For Nothing. Quel disco rappresentò il coronamento di un lungo processo di affinamento, che li aveva condotti verso una brutalità sonora così monolitica da lasciare sconcertati anche gli ascoltatori più smaliziati. Assistiti da una voce che si barcamena tra growl profondissimi e scream lancinanti, basso, chitarra e batteria imbastiscono pantagrueliche devastazioni suonate tra le fiamme dell’inferno e per lo più lanciate a velocità folle. All'occorrenza, comunque, i Reinfection sono anche capaci di mid-tempo colossali e poderosi groove (la title track, “The Pedophile's Odour”, “The Limit of Virginal Weakness”). Desiderio di sangue, perversioni e altre tematiche gore rappresentano l’impianto lirico di un’operazione di massimalismo annichilente scolpita con i blast-beat inumani di “An Institute of Bloody Anatomy”, i selvaggi tafferugli di “I Feel Smell of My Victim” (infilzata da un brevissimo assolo “clean”), i frastagliati abomini di “Skin Torn Off the Genitals” e con quel manuale di ferocia catchy che è “A Morgue Filled with Rotting Corpses”. Come se non bastasse, a rendere l’ascolto ancora più traumatico ci pensa la precisione chirurgica con cui i musicisti affrontano le varie trame strumentali. Chapeau!

SWARRRM - Against Again (2000; Giappone)

swarrrm_coverIl primo Ep degli Swarrrm si chiamava “Chaos & Grind”: quando si dice, avere le idee chiare. Del resto, quando si tratta di roba estrema, i giapponesi non si tirano indietro e si buttano sempre a capofitto alla ricerca di sonorità disturbanti ed abrasive. E così accadde anche con il grindcore, un genere che trovò molti estimatori nel paese del Sol Levante, raggiungendo risultati piuttosto apprezzabili già alla fine degli anni Ottanta grazie innanzitutto ai S.O.B. (Sabotage Organized Barbarian), autori del classico “Don't Be Swindle” (1987) in cui, comunque, erano ancora riconoscibili massicce influenze thrashcore. E mentre numerose formazioni seguivano senza molta personalità la lezione di Napalm Death e Carcass, i minacciosi Gore Beyond Necropsy sperimentavano insieme alla leggenda Merzbow un pauroso ibrido di grindcore, noise ed elettronica, raggiungendo preoccupanti livelli di follia sull’epico “Rectal Anarchy” del 1997.
Giusto un anno dopo, gli Swarrrm pubblicavano l’Ep di cui dicevamo all’inizio, avviando un discorso musicale che li avrebbe portati a declinare il verbo di un grindcore schizofrenico che non faceva mistero di avere un’insana passione per lo screamo, la powerviolence e il japanoise, generi che avranno sempre un peso rilevante nell’economia del loro sound.
Il primo frutto maturo del quartetto di Kobe arrivò proprio all’alba del nuovo millennio con Against Again, un disco che definiva una volta per tutte la loro formula, forte di un basso (Futoshi) camaleontico, di una batteria (Chowrow) tanto precisa quanto frenetica, di una chitarra (Kapo) affilatissima ma versatile e di una voce (Hatada) che dire indiavolata è dire poco. “Brain” mostra subito che non di ortodossia grindcore gli Swarrrm vogliono discutere, ma di una sua scientifica rielaborazione in chiave arty, condotta in memoria di almeno un decennio di terrorismi sonici. Ecco, quindi, le frenesie articolate di “Never Believe”, gli accenti melodici che si fanno spazio in mezzo al delirio di “Illitate” (introdotto da un sample tratto da “Barton Fink” dei fratelli Coen) o che fioriscono come astrazioni post-rock tra le pieghe di “Pain”, l’innodia sfigurata di “Self-Abhorrence” e la brutalità geometrica, sicuramente memore dei Discordance Axis, di “Hear My Voice”, “Despair” e “Hatred/Intend To Kill”, brani che dilatano le possibilità del genere accentuandone il carattere emozionale. Non a caso, una delle definizioni usate per descrivere la loro musica è quella di “emotive chaotic grind”, che è ciò a cui si pensa quando si ascoltano anche le trame esasperate di “H.T.D.” e quelle quasi progressive della title track.
Il successivo Nise Kyuseishu Domo (2003) è, se possibile, ancora più anarchico ed intenso, pur risultando essere complessivamente meno compatto del suo predecessore. A quest’altezza, il quartetto dimostra di essere ormai ben consapevole delle sue potenzialità, scorrazzando feroce e disinibito lungo brani che assomigliano sempre più alla trascrizione sonora dello sfogo di uno psicopatico. Non a caso, l’influenza dello japanoise è ancora più sostanziosa, tanto che le chitarre per lo più generano spirali rumoriste che assediano i brani con ragnatele di feedback che solo in qualche caso lasciano spazio a fraseggi più rilassati o a bridge panoramici. Tracce di pianoforte fanno capolino in “Don’t Mess With Texas”, un mandolino apre “Scilence”, “Herzog” potrebbe essere un robusto strumentale post-rock se non fosse ossessivamente preso a calci in faccia da urla demoniache, “Damn” è propulsa da un basso space-funk (!) e finisce per delineare un magniloquente affresco sci-fi metal. Sullo sfondo, la voce di Hatada, così come quella di Oka-z , che lo sostituisce nella maggior parte dei brani, è ormai un rantolo ferino che vomita disperazione e veleno nichilista senza limiti.
Fin dai primi secondi di “Snow”, il successivo “Black Bong” (2007) giocherà, invece, al rialzo in fatto di dissennatezza, mostrando una versione ancora più bizzarra di una band che, ormai, sembra allontanarsi sempre più dalla originaria matrice grindcore. Mentre, infatti, si fanno più consistenti le infatuazioni per il black-metal (“Cherry Tree”) e per il death melodico, la cui eco è rintracciabile soprattutto nell’uso di riff in tremolo e nel taglio epico di alcune progressioni (“Fissure”, sconvolta da una coda assolutamente delirante; “Road”, attraversata da una tensione insostenibile), quasi come allucinazioni emergono citazioni heavy-metal (l’attacco di “Sky”, memore dei Judas Priest di “Breaking The Law”; i rapidissimi fraseggi chitarristici di “Light”), tratteggi “desertici”, seppur destabilizzati da irrefrenabili fiammate noise-psichedeliche (“Wind”) e ipotesi di ballate al vetriolo in un clima di collasso psichico (il brano eponimo).

THE BERZERKER - The Berzerker (2000; Australia)

00_the_berzerkerOriginariamente, Berzerker era il progetto solista di Luke Kenny, Dj e programmatore di Melbourne che destò l’attenzione della Earache Records grazie ai suoi remix techno di brani di Morbid Angel e Deicide. Invitato a registrare un disco da un entusiasta Digby "Dig" Pearson (che in seguito li definirà come “la band estrema più originale del catalogo Earache”), Kenny si fece aiutare dall’amico Sam Bean (basso e chitarre), prima di reclutare altri due chitarristi (Ed Lacey e Jay). Il disco omonimo con cui esordirono nel 2000 è un brutale concentrato di cyber-deathgrind fatto di proiettili efferati che fanno leva su battiti techno, accelerazioni vertiginose e shock meccanici. A dominare la scena sono le mitragliate techno-industrial della drum-machine programmata dallo stesso Kenny (una Roland TR-909 distorta di cui ascoltiamo un bombardamento torrenziale su “Ignorance”), mentre la chitarra propone un rifferama che si destreggia tra Carcass e Ministry. Completano il quadro una serie di campionamenti, squassi elettronico-rumoristi (si ascolti, a tal proposito, l’inferno harsh-noise di “95”) ed esplosioni repentine che amplificano il senso di disorientamento post-umano che ha sempre contraddistinto la loro musica e i loro show, tanto da spingerli a suonare con delle maschere ripugnanti. Mentre brani come “Forever”, “Burnt”, “Pain”, “Massacre” e la eclatante, fin dal titolo, “Mono Grind” mostrano più da vicino l’influenza grindcore (ovviamente riletto da una prospettiva digital-cibernetica non dissimile da quella, per dire, degli americani Dataclast), alcuni numeri presentano soluzioni in cui il peso “atmosferico” dell’elettronica diversifica la palette delle soluzioni, come accade in “Chronological Order Of Putrefaction” e in “February”, quest’ultima addirittura capace di regalarci qualche momento di nostalgico stupore, prima di essere maciullata da un martello pneumatico impazzito. Dal canto suo, invece, “Humanity” sceglie la strada di un ballabile androide in defaticamento. In coda, la sinfonia per sibili e distorsioni di “Ode To Nash”, tra growl traumatizzato da grumi acidi e caos a manetta, manda tutti a casa senza la buonanotte.
Fin dal primo brano, “Disregard”, il successivo Dissimulate mostrerà, invece, di voler approfondire le influenze grindcore della band, pur conservando intatta la sovrastruttura techno-industrial che, in alcuni casi (penso a “Failure” o a “Pure Hatred”), viene declinata in maniera assolutamente efferata, quando non sovraccaricata di tensione isterica (“The Principles and Practices of Embalming”, “Paradox”). Rispetto al suo predecessore, Dissimulate è insieme un disco più feroce e calcolato, ma non necessariamente più creativo. Anzi, qui il loro songwriting sembra appiattirsi su soluzioni più omogenee, privilegiando in qualche caso refrain melodici (“Betrayal”, per esempio) o progressioni anthemiche (“Last Mistake”). Preceduta da un minuto di silenzio assoluto, chiude "Corporal Jigsore Quandary" dei Carcass, rifatta a modo loro, ovviamente…

324 - 冒涜の太陽 (Boutoku No Taiyo) (2001; Giappone)

4640037Un grindcore imponente e crushing, quello dei 324, quartetto giapponese di Tokyo, dove si formarono alla fine degli anni Novanta. Ecco a voi, dunque, un chitarrista (Morichang) che frulla riff su riff, ricordandosi di aver amato il punk quando era un pischello, ma anche di conservare, ancora da qualche parte, il poster dei Napalm Death; un bassista-cantante (Masao Yamamoto) che pompa linee sludge-noise e si sgola come un invasato, srotolando un rabbioso flusso di coscienza che ti si attacca alla giugulare e non ne vuole sapere di mollare la presa; un batterista (Sakata) che martella come un ossesso, dimenandosi tra D-beat e ruvidissimi blast-beat. Cos’altro? Naturalmente, le quattordici sberle di 冒涜の太陽 (Boutoku No Taiyo) (titolo che sta per “Il sole della dissacrazione”), introdotte da una “Silence Before Silver Screen” che fa gli onori di casa passando in rassegna una ragnatela di feedback, percussioni tribali, un riff maestoso e un assalto massimalista che evoca i Benümb. Quanti dischi grindcore possono vantare un attacco così convincente? Mentre ci pensate, quanto promesso nei primi minuti va trasformandosi in una realtà terribile e brutale, in una deflagrazione sonica annichilente e parossistica (insomma, sembrerebbe che l'immagine di copertina non sia stata scelta a caso...). Nemmeno ventiquattro minuti per prendersi un posto al sole, tra scariche adrenaliniche (“Quarter Moon”), rovinose accelerazioni (“Red Origin Still Streaming”, “Plastic Dream”), galoppate autodistruttive (“Disgusting Flower”), scampoli di ritornelli che bruciano tra le fiamme (“鉄の森”, “Swinging Skull”), botta e risposta a suon di cazzotti (“Broken Clock”, “New Dimension”), rimpalli strumentali esaltanti (“Crawl in the Transparency”) e schiamazzi fatti di cruda, cieca ostinazione (“Cobalt”).
Per riuscire a pubblicare nuovo materiale, la band dovrà aspettare ben cinque anni. “Rebelgrind”, infatti, uscirà solo nel 2006, grazie all’interessamento di Shane Embury che lo pubblicherà per la sua Feto Records. E’ un disco niente male, che lascia emergere prepotentemente le influenze sludge e hardcore della band, producendosi in una sequenza di brani sovraeccitati dominati dalla ruvida chitarra “punk” del nuovo arrivato Shinji.

ABADDON INCARNATE - Nadir (2001; Irlanda)

5020228Una volta, Steve Maher, cantante e chitarrista degli irlandesi Abaddon Incarnate, rispondendo alla domanda sul perché avesse deciso di suonare deathgrind, ebbe a dire: ”Perché ogni volta che ascolto quella roba, mi sento bene. Del resto, è da quando avevo circa dodici anni che sono ossessionato da quelle sonorità. Allora, ero in fissa con Napalm Death, Carcass, Deicide e Morbid Angel”. Quella passione fu inizialmente sfogata con il varo del progetto Bereaved, condiviso con il chitarrista Bill Whelan e il bassista Rob Tierney. In seguito, si sarebbe aggiunto anche il batterista Olan Parkinson. L’esperienza, in bilico tra black e death-metal, durò ben cinque anni, prima che Maher & co. decidessero di optare per il moniker Abaddon Incarnate. Era il 1994, ma il debutto ufficiale, “The Last Supper”, sarebbe uscito solo nel 1999, vantando il supporto, in fase di masterizzazione, di James Murphy. A quell’altezza, però, la band era ancora un corpo in divenire, a metà strada tra Cryptopsy e Impaled Nazarene. L’evento che darà uno scossone risolutivo alla loro carriera fu un viaggio in Svezia, dove registreranno (con Cory Sloan al posto di Rob Tierney) Nadir (2001), supportati in cabina di regia da Mieszko Talarczyk dei Nasum.
Il disco è uno dei segreti meglio custoditi del deathgrind europeo, forte di un impatto devastante in cui la primitiva ferocia del grind si sposa alla grande con il groove tellurico del death-metal, mentre il continuo duellare delle due voci (l’una dedita ad un growl cavernoso, l’altra posseduta da uno scream luciferino) non fa che rendere l’ascolto ancora più disturbante. Notevole anche il lavoro delle chitarre, capaci non soltanto di riff nerboruti (su cui s’avverte nitida l’influenza di Jon Levasseur), ma anche pronti a scagliare velenosi fendenti di feedback (ascoltate, per credere, il frastuono rumorista che costituisce l’ossatura della superba “Hunger Allowed No Choice”, dalle cui trame infernali spuntano esalazioni gore) o assoli lancinanti in corsa (“Victory or Annihilation”, “Pogrom”). Quando, invece, le cose si complicano un attimino, come nel caso di “Funeral Procession”, la band passa in rassegna memorie di thrash a passo di pow-wow (qualche volta innervate su epilessi grind con gusto sopraffino: “She Hates With A Marble Heart”), oppure apre su epiche panoramiche post-metal (lo strumentale “Progeny”), chiarendo più di un dubbio circa lo stato della creatività (a tal proposito, prestate orecchio anche all’introduzione di “Seditious Thoughts, Part 2”, dove affiorano addirittura echi jazz). La prima parte di “Traumatic Stress Solution” pesca anche nel calderone sludge, lanciandosi dunque in una trascinante progressione armonica. Quando, invece, il suono s’irrobustisce oltremisura, sembra di ascoltare i Carcass di “Reek Of Putrefaction” rifatti dai Fear Factory con degli strumenti malandati. E’ una musica devastata da spasmi paurosi, sottoposta ad una pressione emozionale a tratti smisurata.

CEREBRAL TURBULENCY - Impenetrable (2001; Repubblica Ceca)

1239879159_coverL’ex Cecoslovacchia ha sempre avuto una scena grindcore piuttosto viva e stimolante, capace di regalare agli appassionati del genere formazioni di un certo interesse: tra le altre, Ahumado Granujo ("Splatter-Tekk"; 2003), Jig-Ai (l'omonimo del 2006), Alienation Mental ("Ball Spouter"; 2002), Carnal Diafragma ("Space Symphony Around Us"; 2006), Ingrowing ("Cyberspace", (1998); "Sunrape", 2003). Una delle più interessanti resta, comunque, quella dei Cerebral Turbulency, nata nel 1993 dalla passione per il metal estremo di due adolescenti di Ostrava (nell’odierna Repubblica Ceca), il batterista Michal Cichy e Mirek, in seguito raggiunti dal chitarrista Dan Vajico e dal bassista Robert Šimek. Il primo demo, “Right to Choose” del 1995, declinava un verbo sostanzialmente thrash-death, ma quando esordirono ufficialmente con “As Gravy” (1997), la matrice thrash del loro sound sarà completamente spazzata via dalla passione per il grindcore, un genere che li aveva lentamente sedotti. Il disco propone così un deathgrind robusto e a tratti morboso. Nel frattempo, per meglio controllare la loro musica e il processo di distribuzione, decidono di fondare una label. Nasce così la Khaaranus Productions, il cui primo frutto sarà rappresentato dalla pubblicazione del loro secondo disco, “Forces Closing Down” (2000), fortemente influenzato dal goregrind dei Last Days Of Humanity (dai quali riprendono anche l’idea di filtrare la voce con pesanti dose di pitch shift) ma anche memore degli schizzi oltranzisti degli Anal Cunt, la cui eco, oltre che nella cover di “Radio Hit”, per l’occorrenza ribattezzata “Radiohelium Hit”, si avverte forte e chiara nei momenti più distruttivi e rumorosi. Tra i ventisei brani, caratterizzati da convulsi blast-beat e da un suono chitarristico sempre saturo e potentissimo, c’è posto anche per altre due cover, quella di “Ill-Neglect” dei Brutal Truth e quella di “Enough” degli Agathocles. Alcuni momenti, invece – “Smash the Nazi Shitheads”, “Unknown Idea” – già prefigurano le soluzioni più trascinanti ed innodiche di Turbulency. Quest’ultimo, da molti considerato il loro disco migliore, fu realizzato da una line-up che, oltre a Michal Cichy e Robert Šimek, annoverava il chitarrista Adam e il cantante Robin, i cui grugniti animaleschi si sposano perfettamente con le strutture rocciose di una band che, a quest’altezza, è un generatore di brutalità trascinante. Nei suoi trentacinque minuti, il disco regala innodia e maniacalità gore (“Yes! Legitimate”), progressioni frenetiche che fanno pensare ai Nasum di Inhale/Exhale (una delle loro influenze dichiarate) in vesti meno massimaliste (“My Inner Mate”), controcanti zombie (“Fear of Indifference”), epici assoli che si inalberano come moniti a resistere, ad ogni costo (“Adios a las Corridas”), schizzi putrescenti (“For Money but From the Heart”) e qualche eccentrico divertissement con samples e scratch (“Development”).
Con l’Ep “Germ Of Error”, vireranno, quindi, verso soluzioni più minacciose e assordanti, a tratti evocando una versione più umana dei Berzerker. Per l’occasione, la band parlerà di "hyper grind roll” e come definizione ci può sicuramente stare per un disco che si abbatte come un tornado sulle nostre orecchie, rievocando i Napalm Death del controverso “Diatribes”.

PIG DESTROYER - Prowler in the Yard (2001, USA)

3267028Quando il chitarrista Scott Hull, a margine dell’avventura con gli Agoraphobic Nosebleed, decise di formare i Pig Destroyer, disse che a spingerlo c’era soprattutto il desiderio di ritornare all’essenza prima del genere. Non più esperimenti digital-cibernetici, insomma, ma una sana dose di violenza, unita ad un approccio psicotico e altamente distruttivo. Ad accompagnare Hull in questa nuova avventura c’erano il cantante J. R. Hayes e il batterista John Evans. I primi vagiti dei Pig Destroyer furono fortemente influenzati dagli Anal Cunt, formazione con cui Hull aveva suonato all’epoca di “40 More Reasons to Hate Us” (1996). Così, “Explosions In Ward 6”, il loro primo sforzo discografico, è un disco fatto di assalti grind-noisecore piuttosto caotici ma comunque non disprezzabili, per quanto penalizzati da una produzione non proprio all’altezza della situazione. Tra le curiosità, la presenza di un sample tratto da “Salò o le 120 giornate di Sodoma” di Pasolini. Passano tre anni e la band pubblica quello che è probabilmente il suo disco più rappresentativo, quel Prowler In The Yard in cui la violenza e la velocità del grindcore si sposano con influenze thrash, metalcore e sludge, dando vita ad una formula assolutamente intrigante capace di sdoganare il genere presso un pubblico più ampio. Dopo l’intro per voce digitalizzata di “Jennyfer”, il disco riversa nelle nostre orecchie tonnellate di bile, tra schegge impazzite (“Cheerleader Corpses”, “Ghost of a Bullet”, “Tickets to the Car Crash”), mid-tempo Dark Angel ricontestualizzati (“Trojan Whore”, “Strangled with a Halo”), rigurgiti death-metal via Mortician (“Heart and Crossbones”), ombre Slayer che si aggirano minacciose dietro partiture più strutturate (“Mapplethorpe Grey", "Preacher Crawling") e rasoiate dopate di groove malsano ("Naked Trees", “Snuff Film at Eleven”, “Sheet Metal Girl”).
Mancando il basso, la chitarra di Hull si fa carico di infettare questa musica con fraseggi onnipresenti e poderosi, mentre la batteria puntella ogni fotogramma del delirio con una precisione chirurgica, pur dando sempre l’impressione di essere ad un passo dallo sfascio brutalista. A completare il quadro, la voce disumana di J. R. Hayes, uno dei migliori vocalist del genere. Dopo i primi diciotto brani, la magnifica “Hyperviolet” segna uno stacco netto. E’, innanzitutto il primo brano lungo del disco (gli altri, fino a questo momento, si erano spinti al massimo fino al minuto e mezzo), ma è anche una costruzione sonora più incline alla sperimentazione, lasciando che la furia matematica dei Discordance Axis e la visceralità dei Today Is The Day, dopo aver pomiciato duro, si dissolvano lentamente in un sudario drone-psichedelico. C’è spazio, quindi, per lo sludge-doom di “Starbelly”, per il thrash-grind geometrico di “Junkyard God” e per il carrarmato di “Piss Angel”, a completare un poker finale perfetto per incorniciare un disco molto importante, le cui staffilate di furia incontrollata saranno radicalizzate dal successivo "Terrifyer" (2004), comunque complessivamente meno originale del suo predecessore. “Phantom Limb” (2007), invece, presenterà numeri mediamente più cadenzati e “umani”, con l’orecchio ben teso al canzoniere degli Slayer. Apprezzabile, ma nulla più, anche l’ultima loro fatica, “Book Burner” (2012).

AGORAPHOBIC NOSEBLEED - Frozen Corpse Stuffed With Dope (2002; USA)

5204202Gli Agoraphobic Nosebleed fecero scalpore quando nel 2003 pubblicarono Altered States Of America, un disco in cui avevano stipato ben 100 brani in poco più di ventuno minuti di musica. Non era un record (per dire, anni prima, gli inglesi Sore Throat erano arrivati a 101 su Disgrace To The Corpse Of Sid), ma a stuzzicare l’interesse degli amanti delle musiche più estreme ci pensarono schegge di cybergrind sparate alla velocità della luce, in un clima tra l’assurdo ed il surreale. A dominare la scena, oltre ai campionamenti, era il duello senza esclusione di colpi tra la drum-machine (non di rado molto simile ad una vera e propria mitragliatrice) e la chitarra di Scott Hull, che si produceva in riff taglientissimi pronti a trapanare le orecchie di noi poveri ascoltatori. Gli “stati alterati” non erano soltanto, geograficamente parlando, quelli di una nazione ormai sull’orlo del collasso (come confermavano le liriche dedicate al marciume della società a stelle e strisce), ma anche quelli delle menti di musicisti che, giusto per non lasciare dubbio alcuno, si producevano altrove in pure deformazioni sintetiche, più vicine ad un’ambient-noise malsana (per gradire, “Rectal Thermometer", “Bombs with Butterfly Wings" , "The Fag vs. the Indian", "Keeping a Clean Kennel" o "Firearms for All Faiths" ) o a forme deviate di techno-industrial ("4 Leeches (40,000 Leeches)", “Absurd Boast”, “Obi Wan Kaczynski"). Quel disco non nasceva comunque per caso, anzi traendo linfa vitale soprattutto dal suo predecessore, Frozen Corpse Stuffed With Dope. A detta del critico del Village Voice, Phil Freeman, questo lavoro fu il “Paul’s Boutique” (Beastie Boys) del grindcore, per il suo denso profluvio di sample, blast-beat e sproloqui spesso al limite dell’incomprensibile.
A quell’epoca, Scott Hull era coadiuvato da Richard Johnson (basso), Carl Shultz (voce) e da Jay Randall (voce, sampler, sequencing, electronics). Nei 38 brani che costituiscono il disco, per complessivi 33 minuti di musica, trionfa un cybergrind sperimentale, caratterizzato da sovratoni industriali, riff come proiettili, voci sovraeccitate, campionamenti caotici, perversioni elettroniche e drum-machine imbizzarrite. Alcuni amici offrirono i loro contributi per la riuscita di un disco che assomiglia sempre più, secondo dopo secondo, ad una seduta di elettroshock: Pete Ponitkoff presta la sua voce per l’offensiva di “Repercussions in the Life of an Opportunistic, Pseudo-Intellectual Jackass", Dan Lilker dei Brutal truth scorrazza idiota sulla cover della “sua” “Hang The Pope”, Killjoy prende a morsi “Machinegun” mentre Lenzig Leal dei Cephalic Carnage si materializza tra gli ingranaggi insanguinati di “Razor Blades Under The Dashboard”. Rispetto al suo più famoso successore, Frozen Corpse Stuffed With Dope è un disco in cui molte delle influenze della band sono più manifeste, a cominciare dagli echi Godflesh che si ascoltano su “Doctored Results" e gli influssi thrash-death che attorniano "Ceremonial Gasmask", passando per i fraseggi hardcore di “Manual Trauma” e "Time Vs. Necessity", i Black Sabbath ricontestualizzati di “Grandmother with AIDS" e “Organ Donor”, la powerviolence di "Hungry Homeless Handjob", la ambient satanica di “Chalking The Temporal God Module” e quella deforme di “Narcissistic Stimulant", gli Slayer allucinati di “North American Corpse Desecration", il goregrind rifatto dai Ministry di “5 Band Genetic Equalizer" e, per finire, la techno di “Fuckmaker". Serve altro?  

ANTIGAMA - Intellect Made Us Blind (2002; Polonia)

3740808Nati a Varsavia nel 2000 su iniziativa del chitarrista Sebastian Rokicki e del batterista Krzysztof "Sivy" Bentkowski, i polacchi Antigama esordirono un paio di anni dopo con un micidiale concentrato di math-grind impreziosito da accenti jazz e racchiuso in pericolanti strutture progressive. Pubblicato dalla The Flood di Milano, Intellect Made Us Blind è un disco che fa leva su un drumming debordante, sempre in bilico tra caos e geometria, una chitarra che frulla claustrofobia e alienazione come se piovesse e una voce (Łukasz Myszkowski) che assomiglia al rantolo di un pazzoide che cerca disperatamente di trovare il bandolo della matassa nella sua mente. Una produzione asfissiante e malsana, che non disdegna sfumature psichedeliche, contribuisce a fare il resto. La partenza è in sordina: “Pendemorphia”, un cinematico volo radente che sembra attraversare le rovine di una città fantasma. La giusta dose di tensione, insomma, prima della tempesta, che inizia a manifestarsi con “A Tendency To Sleep”, un ingranaggio spaccatimpani che procede tra blast-beat d’acciaio, architetture titaniche, riff di chitarra che sembrano mimare il rumore stridente di una sega elettrica e scariche atonali di nevrotico ardore che faranno sentire la loro eco anche tra le pieghe di “Filth And Pain”, caratterizzata da un decelerando da incubo in cui la voce mima in pratica l’agonia di un malato terminale rinchiuso in una cella gelida e vuota… Il minute e mezzo di “Come And Go” sputa bile a più non posso, mentre “Spare Some Change” è il suono di una strana creatura tirata su in laboratorio, metà carne viva (il grindcore), metà roba sintetica (un ibrido di crust-punk e industrial-metal). Più cadenzato e relativamente meno criptico, il disegno di “Synthesis”, che rimugina tra stop and go e grappoli di blast-beat. Caratterizzata da una poderosa struttura, “Everything Is Normal” trasforma, quindi, il deathgrind in un’odissea fantascientifica con tanto di coda in tregenda cyber-horror. Per il primo minuto e mezzo, l’intelaiatura di “Savior-Vivre Mastas” rimanda sicuramente ai padri putativi del genere (pensate ad un incrocio tra Napalm Death e Brutal Truth), ma quello che segue fa piazza pulita di ogni nostalgia, aprendosi il varco verso un atmosferico e trionfale epos metallurgico.
Con la cover di “Fala” (brano dei conterranei Siekiera) si getta, quindi, un ponte verso le radici hardcore, mentre l’improvvisazione finale è una tribolazione ambient-jazz-noise in cui la nevrosi dell’intera opera si scioglie in un barile di acido. Ancora oggi la band è una delle più apprezzate del panorama grindcore, grazie ad una vena sperimentale sostanzialmente rimasta intatta. All'occorrenza, quindi, si recuperino anche "Discomfort" e “Zeroland”, comunque inferiori a quello che resta ancora il loro capolavoro.

BENÜMB - By Means Of Upheaval (2003; USA)

6559_216Nell’ambito dei terrificanti incroci tra grindcore e powerviolence, i californiani Benümb rappresentano una delle realtà musicali più minacciose e convincenti. Attiva fin dal 1994, la band ha vissuto numerosi cambi di line-up, pubblicando numerosi split-album e partecipando a diverse compilation di genere,  prima di esordire sulla lunga distanza con un intenso ma ancora acerbo “Souls Of The Martyr” (1998). Withering Strands Of Hope farà meglio, disinnescando lungo i suoi 32 brani (per poco più di ventitré minuti di musica) ordigni sonici che solo in un paio di casi superano il minuto di durata, a confermare una volontà distruttiva tutta protesa a far valere le proprie ragioni subito e ad ogni costo. Nel 2003, è la volta del loro capolavoro, By Means of Upheaval, non a caso registrato negli studi Tsunami Sound di Moss Beach. Come definire, infatti, il bombardamento messo in atto dalla band se non riferendosi ad una vera e propria catastrofe naturale? Mentre le liriche si concentrano sui temi del neocolonialismo americano e sulla sua violenta opera di oppressione, soprattutto economica, volta a diffondere sempre più il germe di un capitalismo senza freni, la musica di By Means Of Upheaval esplode nelle orecchie come un tornado di chitarre grattugiate e stratificate a formare una cappa asfissiante di terrore, intanto che la batteria martella indiavolata e la voce si attacca con tutte le sue forze al vortice di note e di pulsioni ritmiche. Insomma, l’iniziale “Cesspool of Human Sewage” non mentiva: siamo all’Inferno e probabilmente ci resteremo per sempre. Non è facile darvi conto delle singole tracce, perché questo è il classico disco-esperienza, da gustare dall’inizio alla fine, lasciandosi attraversare dalle sue schegge di rabbia, dal suo oltranzismo virulento. In ogni caso, giusto per lanciarvi qualche amo, “Mesmerized By The Insignificant” si sfalda in un ghirigoro dissonante di corde, “Judicial Failure” rallenta e sbanda paurosamente come un carrarmato fuori controllo, “Devour, Discard, Advance” ci dice, in ventotto secondi netti, perché si mette su una band quando si è incazzati col mondo e perché la musica può salvarci la vita (per quelli che non ci credono, inutile spiegarlo: sono già morti), “Swallow Conviction/Defecate Guilt” gigioneggia con un riff che sa di presa per il culo, i dodici secondi di “S.A.N.D.E.R.S.” innescano un cortocircuito di feedback, maciullati mentre “Medicated Into Submission” ci informa circa le loro idee sul doom. Inutile dirvi che dovete alzare il volume fino a tirare giù le pareti.

CURSE OF THE GOLDEN VAMPIRE - Mass Destruction (2003; Inghilterra)

mass_destruction_bigJustin Broadrick non ha mai dimenticato l’esperienza con i Napalm Death e il virus del grindcore è ritornato spesso a far sentire le sue ragioni. Nel 2003, esortato da un’altra mente superiore, Kevin Martin, si ritrova coinvolto, sotto la bandiera del progetto Curse Of The Golden Vampire (che aveva già dato alle stampe cinque anni prima, complice quell’altro terrorista di Alec Empire, un esordio a cavallo tra breakcore e free-jazz), nella realizzazione di  uno dei dischi più eretici del cybergrind. La musica di Mass Destruction è stata definita “scum’n’bass”, dove “scum” non è altro che un modo velato per dire che il primo disco dei Napalm Death ha girato spesso nella mente dei due ragazzacci inglesi durante le registrazioni. Il titolo, invece, non le manda di certo a dire, perché quello che i due approntano in questi trentasei minuti e rotti di musica è una vera e propria macelleria sonora, messa in atto per distruggere, almeno idealmente, il sistema capitalistico. Parte "Total Annihilation of Self" e si resta sommersi da martellamenti, lacerazioni nichilistiche ed esalazioni miasmatiche. “Parasite” è sorretto, invece, da un riff thrashcore in monolitico circolo, mentre le voci collidono in un turbine di ferite sanguinolenti. I gorghi disintegranti e le radure di angoscioso tormento di “Iron Ghetto Man Crusher”, i deliri e gli incubi frullati di “The Myth of Democracy” e "United Snakes of America", le scudisciate infernali di “Mind Vs. Body” e le frenesie surreali di “Vermin” fanno il paio con i fantasmi free-jazz che volteggiano dietro le muraglie digital-core di “Manslaughter”, le partiture sempre più caotiche e totalizzanti di “End Civilization” e “Insecticide”, lo sputo grind risolto in una violenta espettorazione robotica di “Sewer Life” e le pantagrueliche movenze di “Oil Money”. Un disco che, potete starne certi, farà esplodere il cervello agli appassionati di Berzerker, Agoraphobic Nosebleed e Genghis Tron.

THE LOCUST - Plague Soundscapes (2003; USA)

locust_coverNonostante la diversità delle loro ispirazioni (lo screamo, la powerviolence, la new-wave, il death-metal, il japanoise, finanche qualche traccia di Rock In Opposition), gli americani The Locust possono a ragione essere considerati come una evoluzione deviata del cybergrind. Anzi, se proprio volessimo seguire le indicazioni degli stessi membri della band, dovremmo essere più precisi e scrivere: spazz-(cyber)noise-grind, ovvero un grindcore rumorosissimo e caotico, fatto di improvvisi cambi di tempo, follie sintetiche assortite e un’aggressività quasi insostenibile. E’ una musica che, secondo quanto ebbe a dire una volta il chitarrista Bobby Bray, tende a rispecchiare il funzionamento del nostro cervello al cospetto di una società sempre più veloce e complessa. Guidati dal bassista e cantante Justin Pearson, The Locust amano esibirsi dal vivo vestiti con tute che li trasformano in veri e propri insetti umanoidi, pronti ad abbattersi sugli astanti con una serie di brani condensatissimi, tra fantascientifici rigurgiti di Moog, chitarre scorticate, spastiche linee di basso, blast-beat ottusi, urla lancinanti e dosi massicce di humor nero.
All’inizio della loro avventura – siamo nel 1995 in quel di San Diego – la band è ancora in piena infatuazione powerviolence, come testimonia lo split condiviso con i Man Is The Bastard. Sarà solo con la pubblicazione dell’Ep “Locust” del 1997 e dell’omonimo Lp che il loro sound prenderà una piega “definitiva”, quella che qui ci interessa trattare. Sull’Ep, comunque, c’era ancora poco spazio (nemmeno dieci minuti) per dare sfogo ad una creatività debordante che, appena un anno dopo, scuoterà l’underground americano. Venti brani in poco più di sedici minuti, dagli inserti di computer-music in mezzo ai blast-beat come cazzotti in faccia di “Moth-Eaten Deer Head” alle danze-moderne iper-tecnologiche di “An Extra Piece Of Dead Meat”, dall’andamento geometrico di “How To Build A Pessimistic Lie Detector” alle cadenze mongoloidi di “Twenty-Three Full-Time Cowboys” (del resto, con quelle uniformi, un po’ ai Devo avranno pensato!), dagli inserti electro di “Dog Without A Collar (Run Over Red Rover)” agli annichilimenti noisecore di “Normal Run Of The Muck (Compensation For Conversation)” e “Well I'll Be A Monkeys Uncle”, passando per i Naked City in versione sci-fi di “Nice Tranquil Thumb In Your Mouth”, gli scazzi wave-sinfonici di “The Perils Of Believing In Round Squares” e i contrappunti idioti di “Kill Roger Hedgecock”. Un manicomio.
La formula sarà perfezionata dal successivo Plague Landscape, un disco per certi versi ancora più folle e imprendibile, in cui The Locust si esibiscono in prove strumentali che giustificano ampiamente le definizioni che, durante gli anni, sono state usate per parlare della loro musica. Plague Soundscape è, quindi, un perfetto esempio di quello spazz-(cyber)noise-grind di cui si diceva all’inizio, qui sicuramente più sperimentale e futuribile, quasi come se si trattasse di un incrocio tra Discordance Axis e Melt Banana chiusi in una DeLorean. Anche a livello di produzione, il disco risulta più curato rispetto al suo predecessore. Con l’aiuto di Alex Newport (già all’attivo con Melvins e Sepultura), la band, infatti, modificò radicalmente il suo approccio alle tecniche di registrazione, lavorando molto più tempo in studio. “Almeno all’inizio, fu davvero folle – ricorda Pearson – impiegare tre giorni per scegliere il suono più adatto della batteria, laddove in passato, durante lo stesso arco di tempo, avremmo registrato e missato un intero disco…”. Quello che ascoltiamo, dunque, è un ottovolante sonoro (anzi, un rovinoso incidente stradale, ma con le tastiere (!), per parafrasare le loro stesse parole) che nei suoi circa ventuno minuti di durata schiaffeggia le nostre orecchie con fulminei scambi matematici, giochi di synth sempre più insani, irregolarità ritmiche, scariche improvvise di pazzia, accelerazioni vertiginose, stop and go istantanei, flash robotici nello spazio siderale, contro i mostri che attaccano la terra (è il caso di “Pickup Truck Full of Forty Minutes”), cantilene sbilenche, fino al puro delirio astratto di un brano come “Can We Get Another Nail in the Coffin of Culture Theft?”. Difficile chiedere di più!

HEAD HITS CONCRETE - Thy Kingdom Come Undone (2004; Canada)

2063404_01"La musica è la guarigione. Lo è. La nostra guarigione, ovviamente... Suonare con tutta l'energia, farlo nel modo più intenso possibile, per noi è tremendamente liberatorio.”
Sono parole di Darcy Bunio, chitarrista degli Head Hits Concrete, formazione canadese che, tra il 1999 e il 2004, scrisse alcune delle pagine più viscerali, caotiche e annichilenti del grindcore. La band, fondata in un seminterrato di Winnipeg dal cantante Mike "Soiled Depends" Alexander, non riuscì mai a registrare un vero e proprio album, accontentandosi di pubblicare una cassetta demo, tre Ep e un paio di split-album (con gli olandesi My Minds Mine e con gli americani Bodies Lay Broken). Materiale che è possibile recuperare in blocco grazie a Thy Kingdom Come Undone, compilation assemblata, giusto qualche mese dopo lo scioglimento della band, dalla Crimes Against Humanity Records. E, in effetti, sarebbe stato proprio un crimine contro l’umanità lasciare che quel materiale potesse finire per essere dimenticato.
Tra tutte le formazioni qui prese in esame, probabilmente quella degli Head Hits Concrete è la più misconosciuta, quasi come se la marginalizzazione vissuta dalla band (anche a causa di una radicale ideologia politica) all’epoca della sua prima incarnazione (la band, infatti, si riformò prima per un tour con i Brutal Truth e quindi per pubblicare, l’anno scorso, il 7” “Hollowed Out Human Husk”) non avesse ancora rinunciato a far sentire tutto il suo peso. In ogni caso, per quanti hanno avuto o avranno il piacere di incontrarli sulla loro strada, basterà la musica a spezzare la barriera del silenzio, grazie al trionfo di una brutalità anarchica e selvaggia che non di rado evoca, lungo il canale uditivo, una gloriosa liaison tra i Discordance Axis (la complessità strutturale oltre la superficie impenetrabile, il chitarrismo dissonante ma incline alla geometria, le liriche vomitate più che cantate) e i Blowhole di “Free Metal”. Pensare alla musica degli Head Hits Concrete (nome che i Nostri scelsero mentre ascoltavano l'omonimo brano di The Locust) significa fare i conti con un fragore assordante organizzato secondo diversi blocchi di senso. Come a dire, insomma, che dietro le loro partiture apparentemente disarticolate e prive di una direzione precisa si nasconde del raziocinio, per cui l’orecchio deve essere bello teso e affilato, quasi quanto la loro stessa musica. Da miscugli turbolenti di pelli, corde e sillabe straziate, emergeranno quindi nebulose interrogative o infinitesimali tentazioni melodiche (“Letter To The Editor”), mulinelli minimalisti (“Racial Warrior”), stordenti rallentando (“Apparatus”) o fraseggi scanditi all’unisono (“Disgrace Land”), accelerazioni nevrotiche (“Dead Children, He Laughed”, “The Practical Impossibility of Denying Emotion”), i vorticosi giochi chitarristici di “Of This Divide”, i blast-beat soffocanti e le fiammate di agonia di “(Your Name Here) Eats Fucking Lead”, ma anche le scomposizioni “math” di “Stabbed at 6, News at 11” e “Hole In The Head” (quest’ultima con sovratoni sludge-doom), i collassi armonici di “Intent Action Effect” e anthem insanguinati come quello di “Mechanical Separation”. Altrove, invece, il suono diventa più scuro e claustrofobico, prendendo di mira una versione inviperita degli Assück (“Day One”), oppure assestandosi su posizioni garagiste (“Bottom Lining”), che qualche volta rimandano direttamente ai primordi del genere, quando ancora la parola “grindcore” era solo un miraggio nella mente di Mick Harris (“Fraud History and Market Economies”, “Penal Abolition”). Il rumore proteiforme (la sua estatica trascendenza, ad un passo dal caos) di “The Pastors Cock Is in My Mouth (Hooray!)” anticipa, tra le righe, l’estremismo harsh-noise di “Jubilee” e il puro sfascio nichilista di “Mitakuye Oyasin Demo” e “Neo Nazi Public Execution” (qualcosa a metà strada tra Fear Of God e gli Harry Pussy). Però, ecco, nonostante tutto questo baccano, i ragazzi non si prendono troppo sul serio. Non è forse una pernacchia quella in fondo all’ultima traccia?

BLOCKHEADS - Shapes of Misery (2006; Francia)

1661333.jpgI francesi Blockheads provengono da Nancy, dove si formarono nel 1992. Inizialmente attratti dal death-metal, si avvicinano poco alla volta al crustcore, virando quindi verso il grindcore sotto l’influenza dei Napalm Death. Molti mesi di prove produssero un demo (“Haashaastaak”) che inizia a far circolare il loro nome negli ambienti giusti, tanto che nel ’94 si ritrovano sul palco, in qualità di band di supporto, con Loudblast e Carcass. L’anno dopo, esce “Last Tribes”, l’esordio che la band si autoproduce rilasciandolo sulla propria etichetta, la Blockheads Tribe. Il disco è un assalto punk-grind all’arma bianca, mentre le liriche mostrano che i ragazzi sono tutt’altro che immaturi, prendendo feroci posizioni contro le atrocità del mondo moderno. Dopo “Watch Out”, nel 2002, firmato un contratto con la Bones Brigades Records, “Human Parade” segna l’inizio della fase più matura di una formazione che nel frattempo si è assestata in un quintetto costituito da Xav (voce), Antoine (chitarra), Nico (batteria), Pay (basso) e Fred (chitarra). Al grindcore si sono aggiunti spezie hardcore, mentre sopravvivono le inclinazioni crust, che danno all’insieme un respiro spesso imponente e claustrofobico, con brani che non disdegnano costruzioni in mid-tempo, come accade in “It Will Eat You” o in “(…)”.
Sarà, comunque, solo con Shapes Of Misery che i Blockheads potranno dirsi davvero soddisfatti, grazie ad una ventina di brani in cui tutte le loro influenze vanno a comporre un mosaico devastante e furibondo, a cominciare dai massacri ad oltranza di “Bow Down”, “Borders” e “Misery”, che si spingono verso i confini del genere, grazie ad un approccio massimalista che, mentre non concede spazio ai ripensamenti e alle mezze misure, impreziosisce i brani con febbrili stacchi in corsa (“Fuck Off And Die”), epici defaticamenti che si materializzano giusto per qualche secondo in mezzo alla burrasca (“Despair”) o barricate innodiche che invitano a non demordere, mai (“Business Intelligence”). Dovranno, quindi, passare ben sette anni prima di rivederli all’opera. E se “This World Is Dead” è un disco di assestamento, di certo non annoia e non fa alcuno sconto, gridando a denti stretti il nome dei Nasum.

GENGHIS TRON - Dead Mountain Mouth (2006; USA)

1998357Pur essendo stati spesso ricondotti nell’alveo del cybergrind, gli americani Genghis Tron rappresentano, anche all’interno di quel genere, una mina vagante, muovendosi tra territori sonori anche piuttosto lontani tra di loro. L’unico ad essere cresciuto a pane e metal (grindcore e black-metal, per la precisione) è il chitarrista Hamilton Jordon, mentre, se Mookie Singerman (voce e tastiere) ha trascorso la sua adolescenza concentrandosi soprattutto su roba post-hardcore, con una certa passione per i Drive Like Jehu, Michael Sochynsky (tastiere e drum machine) è stato per lungo tempo un appassionato di IDM ed elettronica in generale. Quando i tre decisero di condividere le loro passioni, spontaneamente sentirono, quindi, il bisogno di suonare qualcosa insieme. A quel punto, l’unica cosa che poteva venire fuori è una roba tipo electro-cyber-grind/spazzcore! Insomma, quello che potete ascoltare su Dead Mountain Mouth, loro disco d’esordio rilasciato nel 2006 dalla Relapse Records. A far girare il loro nome nei circuiti che contano, ci aveva già pensato, comunque, l’Ep “Cloak Of Love”, ma il sound non era ancora veramente maturo.
Oltre a far pensare ad una versione IDM degli Agoraphobic Nosebleed, il disco guardava sicuramente anche a The Locust, ricavando da entrambe le band l’idea di un mix esplosivo di brutalità elettrica e delirio sintetico, come dimostra il primo cazzotto in pieno volto dell’opener “The Folding Road” che, in rapida successione, lancia sul tavolo un brevissimo preludio di bleep elettronici, scosse irrefrenabili di grind-atomico, piani sequenza dominati da sinuose onde di Moog e un pulsare techno. Con “Chapels”, gli azzanni spazzcore fanno pensare a dei Frodus intrappolati in un frullatore, mentre sorprende il disagio emozionale della ballata paranoica di “From The Aisle”, incredibilmente sospesa tra i Neurosis più abulici e il Neil Young alienato che vegetava in certi oscuri universi Grifters. Tra screamo disperato ed electro-clash di quarta mano si muove, invece, la title track; hyper-grind e mitragliate di beat, invece, fanno di “White Walls” un concentrato mozzafiato di ferocia, capace di inquietanti aromi Atari Teenage Riot, in parte diluiti da una coda electro con tanto di trasalimenti melodici. Collocata a metà dell’opera, la strumentale “Badlands”, con i suoi fraseggi più rilassati, taglia in due un monolite sempre più temibile e spaccasassi. L’oltranzismo di “Greek Beds” prosegue, quindi, il viaggio infernale mettendo, una dietro l’altra, scariche adrenaliniche, thrash-beat e industrial/death, solo in parte scarnificate dall’intro in perfetto stile synth-pop e, poi, dal rimuginare doom di “Asleep On The Forest Floor”, comunque infestato dalle deliranti urla di Mookie. Il gran finale è affidato, invece, a “Lake Of Virgins”, ultimo baluardo di una violenza che sa molto di malinconia disperata. Due anni dopo, “Board Up The House” presenterà soluzioni meno schizofreniche, accentuando la verve melodica del loro songwriting.  

LAST DAYS OF HUMANITY - Putrefaction In Progress (2006; Olanda)

lastdaysofhumanityputrefactioninprogressfrontGli olandesi Last Days Of Humanity meritano un posto di rilievo nella storia della musica estrema per la realizzazione di uno dei dischi più violenti di sempre, Putrefaction In Progress, capace di fissare un punto di non ritorno nella definizione del cosiddetto gorenoise, avamposto ultimo del lungo scambio di favori tra grindcore e noisecore.
Il primo nucleo della band si costituisce nell’autunno del 1989, quando il bassista Erwin de Wit e il cantante Hans Smits, assidui frequentatori del centro giovanile Soos Plock di Volkel, dove entrano in contatto con la cultura grindcore, decidono, ispirati da Fear Of God, Napalm Death, Anal Cunt e Seven Minutes Of Nauesa, di sperimentare in proprio con quelle aberranti sonorità. Proprio al Soos Plock, il 30 dicembre di quello stesso anno, i due hanno modo di esibirsi dal vivo. I Last Days Of Humanity erano ufficialmente nati. A quell’epoca, la loro musica non era nient’altro che un terribile concentrato di voci e chitarre filtrate con pitch-shift, come testimoniano i primi demo, soprattutto “Human Atrocity”,  registrato con l’altro bassista Dennis Dekkers e con il batterista Glenn Jagers nello studio di un bluesman che dovette far ricorso a molte birre per capacitarsi di quello che stava ascoltando: più o meno una roba che trasformava istantaneamente i Napalm Death in una boy-band. A spaventare erano soprattutto le voci filtrate da un pedale Digitech Whammy FX, che ne abbassava le tonalità di una o due ottave, trasformandole in un latrato infame:“Proprio quello che stavo cercando! Una voce che suonasse come l’urlo di un maiale”, dirà in seguito Smits. Dopo aver registrato split con i tedeschi Vulgar Degenerate, i belgi Confessions Of Obscurity e gli svedesi Rakitis, la band riuscì a pubblicare il suo primo disco ufficiale solo nel 1998, registrandolo in appena due giorni.
“The Sound Of Rancid Juices Sloshing Around Your Coffin” è una delirante e bestiale ode ai Carcass di Reek Of Putrefaction, che si traduce in una musica ottusa e volutamente brutta, fatta di atmosfere scurissime, riff malsani, voci gorgoglianti, blast-beat caotici e pure esplosioni noisecore, come quelle di “Submassive Obliteration”, “Liquidized Disgorgement” o “The Smell Of The Dead”. In qualche caso (“Slithered Limbs”, “Hacked Into Red Mush”, “Consumed In Gore”) la band tenta anche di strutturare con più dovizia di particolari il suo urlo di schifo e dolore, magari facendo leva su memorie Impetigo (“Cannibalistic Remains”, “Putrid Mass of Burnt Excrement”, “A Reeking Pile Of Septic Brainfluid”). In coda, invece, “Festering Fungus Infection”, con il suo groove più pronunciato, sembra anticipare quanto, due anni dopo, ascolteremo su Hymns Of Indigestible Suppuration. Con Smits fuori dai giochi per problemi personali, a quell’altezza la line-up comprendeva oltre al solito de Wit, l’altro cantante Bart Bouwmans, il batterista Marc Palmen e il chitarrista William Van De Ven. Perfezionando la formula del disco precedente, Hymns Of Indigestible Suppuration presenta brani più rifiniti e meglio prodotti, caratterizzati da una scrittura più coerente. Non per questo, comunque, il livello di brutalità si è abbassato, anzi! Proprio la cura dei dettagli finisce per far risaltare la forza dirompente dell’insieme, lasciando emergere ogni strumento in modo appropriato, senza sommergerne l’apporto sotto colate di distorsioni o grappoli di frequenze fuori controllo. I primi quaranta secondi del disco sono assolutamente memorabili: il grugnito di un maiale (insomma, la voce filtrata…) e i mugolii lascivi di una donna lasciano presagire un amplesso fuori dall’ordinario, salvo essere sepolti da uno scossone gore-grind che travolge tutto senza remore. “48th Cut” è un vero e proprio anthem, se il goregrind ne ha mai avuto uno! L’odio sconfinato della band trova degni corrispettivi sonori nelle movenze epiche di “Intoxicated”, “The Taste Of Festering Vomit”, tra i gironi infernali sempre più disturbanti di “From Flesh To Liquid Mess”, “Orgasmic Abortion” e “Purulent Odour In Stoma”, mentre qualche passaggio più…ehm…amichevole riesce a farsi largo, nonostante i titoli facciano di tutto per ingenerare un senso di nausea, in “Acute Palatable Hemorrhage” o “Perforated Festered Scrotum”. Tutti i brani nascono dall’incrocio tra le accelerazioni vertiginose dei Napalm Death, le cadenze groovy dei Cock and Ball Torture e il noisecore degli Anal Cunt. I successivi cinque anni trascorsero tra split, partecipazioni a compilation varie e la pubblicazione di un disco dal vivo (“The XTC of Swallowing L.D.O.H. Feaces”, consigliato solo ai fan veramente accaniti).
Sono anni in cui la band va maturando una nuova direzione sonora, perfezionando in pratica gli stilemi del gorenoise, una spietata deformazione del goregrind che si risolve in un flusso sonoro al limite dell’atonalità. Anche se gli stessi Last Days Of Humanity erano stati, magari inconsciamente, tra gli anticipatori di questo sottogenere con il demo “Human Atrocity”, i primi esempi consapevoli di gorenoise risalgono alla metà degli anni Novanta, periodo in cui Adam Rotella (da Hauppage, nello stato di New York) iniziò a produrre ripugnanti scorie musicali con il moniker Anal Birth. Dischi come “Infant Butchering” o “Chopped Up Infant Cunt” sono veri e propri inferni in musica dove ogni sorgente sonora è letteralmente sfigurata da un ghigno nichilista. Non mi meraviglierei se molti dei protagonisti della scena harsh-noise dell’ultimo decennio li avessero ascoltati di nascosto, magari al cesso. Quanto ai Last Days Of Humanity, sarà soprattutto la passione del batterista Marc Palmen a spingerli verso il totem del gorenoise. A partire dal 2002, Palmen inizierà a registrare, infatti, alcune cassette di culto con i moniker Biocyst (del 2002 è “Gastrojejunostomy”, tre quarti d’ora di digestione in presa diretta), Faces Of Gore e Urine Festival. Questa nuova direzione si concretizzerà innanzitutto nello split del 2004 condiviso con i brasiliani Lymphatic Phlegm, anche se i risultati furono mediocri. Un anno dopo, sarà la volta dell’Ep “In Advanced Haemorrhaging Conditions” (2005), annunciato come l’ultimo parto prima dello scioglimento della band. In scarsi otto minuti, i Last Day Of Humanity presentano la loro violentissima versione del gorenoise, ma è solo un antipasto di quanto, un anno dopo ascolteremo sul leggendario Putrefaction In Progress, che stipa 41 brani in scarsi venticinque minuti di musica (tranne che in un caso, tutti i brani (?) si aggirano tra i 6 e i 55 secondi di durata). Pur avendo annunciato lo scioglimento mesi prima, la Bones Brigade riuscì a strappare la promessa di un ultimo disco in studio. Per l’occasione, il cantante Erwin De Groot fu messo alla porta e fu richiamato Hans Smits.
Da qualche parte ho letto che Putrefaction In Progress non è un disco da ascoltare, ma da subire. Esattamente. Non si può approcciare un disco del genere pensando di poterlo dominare, magari sciorinando le solite banalità cariche di pregiudizio. Bisogna, piuttosto, abbandonarsi al suo disumano e ipnotico olocausto sonoro. Perché è questo di cui si tratta. Un olocausto sonoro che trasforma tutta la tradizione goregrind in un terribile scenario di distruzione, in pratica portando alle estreme conseguenze il suono che i Carcass avevano definito alla fine degli anni Ottanta. Dopo Putrefaction In Progress c’è soltanto l’encefalogramma piatto del genere. No breaks, no lyrics... Only blast, blast and blast: a terrifying wall of noise…: queste le parole che accompagnarono la pubblicazione del disco. Era più di un avvertimento. Come la foto di copertina, del resto: un tronco di cadavere su cui sono più che evidenti i segni della putrefazione. E, allora, la musica di questi Last Days Of Humanity è semplicemente la colonna sonora di quel processo ripugnante. Un processo che inizia nel momento in cui la vita cede il passo alla morte, nel momento in cui il corpo si trasforma in cadavere, in quello che, per dirla con Jankélévitch, non è più un essere umano, ma uno scarto innominabile, un residuo immondo. Seguendo questa logica, quindi, sarà opportuno sostenere che il goregrind della formazione olandese non è più quello che conoscevamo, ma il suo sedimento ultimo, il suo precipitato terminale, la sua rovinosa collisione con il rumore nudo e crudo. I Last Days Of Humanity espongono il cadavere del goregrind, generando una bruta massa sonica, un agonico distillato di meccanica ossessione (il batterismo metronimico e ipercinetico) e caos abnorme (la poltiglia immonda che scaturisce dallo scontro tra una delle voci più terribili mai apparse su disco - che, per l'appunto, non ha più bisogno di parole ("no lyrics"), ma solo di varianti infinite del grido primordiale - e il riffing "totalizzante" della chitarra). Ma è un caos che nasconde strutture, che invita alla panoramica. Ogni singola traccia, quindi, è solo un tassello di un disegno complessivo che in più di un occasione, se si entra in sintonia con questi mostri, spinge addirittura all’esaltazione estatica. Se ne sconsiglia, comunque, l'ascolto in cuffia. Meglio posizionarsi al centro delle casse dell'impianto stereo, perché un disco del genere deve essere "vissuto" con tutto il corpo... e non soltanto ascoltato con le orecchie...
Rispetto all'Ep “In Advanced Haemorrhaging Conditions”, la produzione è più azzeccata, come mostrano subito i quarantadue secondi di “Covered With Faeces As Decoration”, brano manifesto che, pur conservando qualcosa del groove di Hymns Of Indigestible Suppuration (stesso discorso per “The Beauty Of Perfection In Sensible Cruelty”, “Sexually Imminent Perverted Deviant”, “Deliberate Full Corporal Slicing With A Cleaver”, “Continual Septic Waste”), mostra di essere comunque ben oltre quegli standard, indirizzato com’è verso un minimalismo catastrofico che, in ogni caso, non sembra invitare al nichilismo puro e semplice, quanto ad una rovinosa e violenta palingenesi.
Oltre la cinta infernale imbastita dalla chitarra di Van De Ven (accordata su tonalità sempre più basse e per lo più intenta a generare sciami di insidioso harsh-noise, solo a tratti intervallati da qualche figura più riconoscibile), dal basso, comunque pressoché sepolto nel mix, di Rogier Kuzee e dalla batteria (ma forse sarebbe meglio dire dal rullante…) di Marc Palmen (la cui performance appare come una rivincita sui cultori della drum-machine, oltre che come l’apoteosi irrevocabile del blast-beat, in mezzo ad un delirio di piatti presi a sberle – perché, se in principio era il blast-beat, è giusto che al blast-beat si ritorni con "infinita" dedizione - e "Infinitive Putrefaction in Progress" si chiama proprio uno dei brani qui presenti!), si agitano gli inenarrabili latrati-schiamazzi-schianti vocali-urla-growl liquefatti-muggiti orripilanti e bestemmie (cos'altro, ancora?) di Smits, in un vortice inesorabile in cui convergono tutte (ma proprio TUTTE) le efferatezze vocali del genere (qualche nome?: dal trittico Carcass-iano a Robot dei Gore, da Jaro dei Dead Infection ad André Luiz dei Lymphatic Phlegm, passando per Rikard Jansson dei Regurgitate, Edgar dei Disgorge e la coppia Artur/Pierścień degli Squash Bowels). Nel mezzo di queste terribili istantanee/schegge post-mortem, stacchi velocissimi come boccate di veleno (“Visible Stains Slashes & Marks Of Self-Disgust”, “In The Wards Of Large Scaled Decompositions”), ottuse digressioni strumentali (ancora “Infinitive Putrefaction In Progress”), cavalcate-zombie (“A Delightful Scenario Of Depravity”, “A Demonstration In Disassembling The Bodily Numbless”), stop-and-go nel tritarifiuti (“Immersing The Body In A Cesspool Of Lye As A Satisfying Method”), massimalismo satanico (“The General Attributes For Partial Trunk Separation”, “Disconnected The Cranium With A Sense Of Peculiar Interest”), fulminee accelerazioni come epilessi di depravazione (“Fragrant Facial Purulence”), scorci doom che indirizzano su scenari para-sinfonici (“Slithered Limbs (Adorable Congestion Of Body Remnants)”), accumulazioni gutturali prossime alla deriva (“Persuaded In Legalized Cannibalism”, “Behold The Freshness Of Tenderised Human Meat”) e, quindi, LA DERIVA, il punto di non ritorno all’interno del punto di non ritorno, il corto circuito definitivo, il piano sequenza della distruzione, attimo dopo attimo: “A Divine Proclamation Of Finishing The Present Existence”, tre minuti ed undici secondi di purissimo viaggio al termine della notte, con Marc Palmen a polverizzare il suo rullante. Esaltazione estatica, si diceva poco più sopra. Esattamente. Esaltazione estatica, in un disco definitivo. 

DEPHOSPHORUS – Axiom (2011; Grecia)

axiomAstrogrind: detto così, sembra un azzardo, quasi un paradosso. Tuttavia, se siete arrivati fin qui, dovreste esservi accorti, anche solo di sfuggita, che il grindcore non è semplicemente forza bruta e velocità, ma che molte delle sue pagine più interessanti sono state scritte proprio da formazioni pronte ad allargare lo spettro delle soluzioni. Ebbene, i greci Dephosphorus sono soltanto tra i più recenti sostenitori di questo desiderio di riscrivere le regole del gioco, senza per questo rinnegare i padri fondatori. I responsabili di questo progetto ateniese (il chitarrista Thanos Mantas e il cantante Panos Agoros) sono quindi pronti a rivisitare il genere con massicce dosi di postcore, black-metal e noise (Neurosis, Unsane, Leviathan, Swans, Godflesh e Dødheimsgard sono soltanto alcune delle influenze “altre” che amano citare quando sono invitati a rivelare gli ingredienti della loro musica). A rendere unico il tutto, però, c’è un feeling cosmico che emana da ogni loro traccia, un aspetto questo che giustifica anche la scelta del moniker, che rimanda ad una divinità dello spazio il cui scopo è quello di cercare il significato dell’esistenza, finendo per restare imprigionata in un vagabondare senza fine. Ora, all’inizio si dovevano chiamare Phosphoros, poi, ricordandosi di “De Mysteriis Dom Sathanas” dei Mayhem, decisero di aggiungere la particella “de”, risolvendo quindi la questione con un definitivo Dephosphorus. Nonostante abbiano prodotto altri due dischi dopo l’Ep d’esordio (l’interessante “Night Sky Transform" e l’incerto “Ravenous Solemnity”), è proprio a quell’Ep che bisogna ritornare se si vuole avere l’esatta cifra stilistica della band.
Nelle sette tracce che compongono Axiom, infatti, c’è tutto quello che occorre per indagare questa ennesima rielaborazione del grindcore, capace di mantenersi in equilibrio tra la carica adrenalinica delle origini e l’intensità allucinata della sperimentazione post-. Il biglietto da visita si chiama "Collimator": stacchi rocamboleschi, fiumane di distorsioni, guizzi dissonanti e detour astrali. "Continuum" conferma un gran lavoro chitarristico e un batterismo straripante (Nikos Megariotis), mentre il brano eponimo, presa la rincorsa dal thrash, preme forte sull'acceleratore della vertigine postcore. Nel gioco di stratificazioni oltranziste, il capolavoro "Indulge Me In Silence" sghignazza anche sui cadaveri di black-metal e crust-punk, mentre la voce di Agoros (un rantolo brutale che disperatamente erompe in rigurgiti soffocati, a metà strada tra Luc Lemay dei Gorguts e Martin van Drunen dei Pestilence/Asphx) scarica veleno a destra e a manca.  Il disco va in gloria con la chiamata alle armi di "The Long Crossing", che allora sembrava trasfigurare in urla e riff selvaggi la rabbia della piazza di Atene, specchio di un paese sull’orlo del baratro.

A questo punto, tutto quello che posso dirvi è... buon ascolto!

(23/11/2014)

Discografia

Ordine cronologico

Napalm Death - Scum (1987)
Carcass - Reek Of Putrefaction (1988)
Fear Of God - Fear Of God (1988)
Napalm Death - From Enslavement To Obliteration (1988)
O.L.D. - Old Lady Drivers (1988)
Sore Throat - Disgrace to the Corpse of Sid (1988)
Blood - Impulse to Destroy (1989)
Carcass - Symphonies Of Sickness (1989)
Naked City - Torture Garden (1989)
Repulsion - Horrified (1989)
Terrorizer - World Downfall (1989)
Anal Cunt - 5643 Songs E.P. (1990)
Exit-13 - Green Is Good! (1990)
Impetigo - Ultimo Mondo Cannibale (1990)
Nuclear Death - Bride Of Insect (1990)
Righteous Pigs - Stress Related (1990)
Assück - Anticapital (1992)
Brutal Truth - Extreme Conditions Demand Extreme Responses (1992)
Impetigo - Horror Of The Zombies (1992)
Anal Cunt - Morbid Florist (1993; Ep)
Brujeria - Matando Güeros (1993)
Dead Infection - Surgical Disembowelment (1993)
Brutal Truth - Need To Control (1994)
Disrupt - Unrest (1994)
Kataklysm - Sorcery (1995)
Catasexual Urge Motivation - The Encyclopedia of Serial Murders (1996)
Clotted Symmetric Sexual Organ - Nagrö Läuxes VIII (1996)
Hemdale/Exhumed - In The Name Of Gore (1996; split)
Human Remains - Using Sickness As A Hero (1996; Ep)
Anal Cunt - I Like When You Die (1997)
Assück - Misery Index (1997)
Discordance Axis - Jouhou (1997)
Exit-13 - Ethos Musick (1997)
Mörser - Two Hours To Doom (1997)
Cephalic Carnage - Conforming To Abnormality (1998)
Nasum - Inhale/Exhale (1998)
Koreisch - This Decaying Schizophrenic Christ Complex (1999)
Unruh - Setting Fire To Sinking Ships (1999)
Benümb - Withering Strands of Hope (2000)
Cephalic Carnage - Exploiting Dysfunction (2000)
Cripple Bastards - Misantropo a senso unico (2000)
Discordance Axis - The Inalienable Dreamless (2000)
Groinchurn - Whoami (2000)
Last Days Of Humanity - Hymns Of Indigestible Suppuration (2000)
Parade Of The Lifeless - The Anatomy of a People's Bondage (2000)
Reinfection - They Die for Nothing (2000)
Swarrrm - Against Again (2000)
The Berzerker - The Berzerker (2000)
324 - 冒涜の太陽 (Boutoku No Taiyo) (2001)
Abaddon Incarnate - Nadir (2001)
Cerebral Turbulency - Impenetrable (2001)
Pig Destroyer - Prowler in the Yard (2001)
Agoraphobic Nosebleed - Frozen Corpse Stuffed With Dope (2002)
Antigama - Intellect Made Us Blind (2002)
Cephalic Carnage - Lucid Interval (2002)
Human Remains - Where Were You When (2002)
The Berzerker - Dissimulate (2002)
Agoraphobic Nosebleed - Altered States Of America (2003)
Benümb - By Means Of Upheaval (2003)
Swarrrm - Nise Kyuseishu Domo (2003)
Curse Of The Golden Vampire - Mass Destruction (2003)
The Locust - Plague Soundscapes (2003)
Head Hits Concrete - Thy Kingdom Come Undone (2004; compilation)
Blockheads - Shapes of Misery (2006)
Genghis Tron - Dead Mountain Mouth (2006)
Last Days Of Humanity - Putrefaction In Progress (2006)
Dephosphorus - Axiom (2011; Ep)

Ascolta anche:

Sore Throat - Unhindered By Talent (1988)
Macabre - Gloom (1989)
S.O.B. - What's the Truth? (1990)
Dismembered Fetus - Generation of Hate (1996)
Spazz - La Revancha (1996)
Ingrowing - Cyberspace (1998)
My Minds Mine - Between Soothing Consolation and Uncontrollable Madness (1998)
Contrastic - Contrastic (2000)
Exhumed - Slaughtercult (2000)
Birdflesh - Night of the Ultimate Mosh (2002)
Fornicator - Fornicator (2002)
Haemorrhage - Morgue Sweet Home (2002)
Squash Bowels - No Mercy (2004)
Bathtub Shitter - Early Yeah(s) (2005; compilation)
Cadaver Eyes - No Time to Haste + The Acquisition of Power Over Fire (2005)
Rotten Sound - Exit (2005)
Phobia - Cruel (2006)
Insect Warfare - World Extermination (2007)

Pietra miliare
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