Today Is The Day

Today Is The Day

Il tempio del terror-noise-metal

Mai scesi a compromessi, lontani dal music-business, i Today Is The Day hanno contribuito ad elevare la musica pesante al rango di forma d'arte "totale", influenzando miriadi di band. Nonostante sia ancora avvolta da una certa oscurità, la band di Nashville resta, comunque, una delle testimonianze più alte della potenza espressiva dell'heavy-sound, scavando, senza limiti, nel terrore e nella frustrazione che spolpano, subdolamente, la carne viva dell'animo umano

di Francesco Nunziata

"Finora ignoravo cosa fosse il terrore: ormai lo so. E' come se una mano di ghiaccio si posasse sul cuore. E' come se il cuore palpitasse, fino a schiantarsi, in un vuoto abisso." (Oscar Wilde)

"Io dovrei avere un mio inferno per l’ira, un mio inferno per l’orgoglio, - e l’inferno della carezza; un concerto d'inferni.
" (Arthur Rimbaud)

"Attacca, agisci, schioda il culo dalla sedia, fa’ qualcosa! Today Is The Day è una filosofia, un modo di vivere." (Steve Austin)



Prologo

Che la musica sia davvero una valvola di sfogo, lo comprendi una volta e per tutte quando scopri una band capace di azzannare la realtà così come una bestia azzanna, senza mai lasciare la presa, un cadavere in avanzato stato di putrefazione. E’ qualcosa che va al di là del semplice piacere dell’ascolto. Qualcosa che riguarda la vita, le sue contraddizioni, il suo dolore, ma anche la sua stessa, innegabile ed inspiegabile, bellezza. Steve Austin, nato nel Michigan nel 1966, ma successivamente trasferitosi a Nashville nel Tennessee, conosce bene questo tipo di sensazioni, lui che nel 1992 fonda i Today Is The Day (destinati a diventare una delle più grandi band della storia del rock) per "camminare da solo, per andare oltre, per amare e per odiare", dopo una vita fasulla, una vita da "piccolo e grasso ragazzo alle prese con un’esistenza da pecora nera". Un’esistenza totalmente stravolta dalla realizzazione di una musica temibile e potente, crossover viscerale di sonorità sempre al limite, con lo sguardo rivolto verso il progressive dei King Crimson, la passionalità urticante dei Laughing Hyenas, l’hard’n’heavy dei Black Sabbath, il death più oltranzista, le acrobazie chitarristiche, in mezzo all’inferno, di Gregg Ginn, il grindcore di scuola Earache, l’industrial e, ancora, le molteplici incarnazioni del guru Steve Albini. Un cammino lungo, ormai, quindici anni, con Austin leader incontrastato di numerose line-up e autore di dischi mai banali, sempre diversi, sempre alla ricerca di quell’experimental terror-noise-metal che, ad oggi, il capolavoro Sadness Will Prevail impersonifica come nessun’altro.

Il terrore è efficace; in un modo o nell’altro, muta la percezione che la gente ha della realtà.
Da quella commistione di stili e di generi, un nuovo mondo veniva codificato, ma con la classe e l’intelligenza creativa di chi, pur non dimenticando le fonti, guardava altrove, verso un macro-genere mutante in cui, progressivamente, ci si dimenticava della riva per veleggiare sempre più in alto mare, verso una forma di avanguardia metal dalle venature noise (l’avvicinamento alle sonorità più pesanti e brutali del metal – death e grindcore – si è sviluppato di pari passo con l’incremento del tasso di sperimentazione) che si serve di tecniche d’avanguardia e delle sublimazioni astratte dell’elettronica (minimalismo, collage di suoni/rumori – con alcune punte di delirio free-noise -, sample cinematografici a sottolineare l’appiglio con una realtà impossibile da cogliere se non nella sua effettiva trasfigurazione) per sviluppare un discorso estremamente personale. Today Is The Day è un erma bifronte (tradizione/avanguardia) che continua a sviscerare tutte le potenzialità insite in un sound spietato e smisurato.  Today Is The Day è una creatura invaghita del terrore e della disperazione, della rabbia e del dolore, trasformate in vere e proprie armi per debellare l’idiozia e i pregiudizi della società americana e dell’umanità tutta.

Di epifanie, alieni e rettili anfetaminici


Figlio di due operai della Chrysler Corporation, Steve Austin mostra fin da giovanissimo una certa inclinazione per la musica. A 12 anni possiede già un 4-tracce con cui si diverte a registrare le sue prime canzoni; a 14 anni si costruisce un rudimentale studio di registrazione. Alla soglia dei venti è già capace di suonare più strumenti, pur prediligendo la chitarra. Nonostante tutto, però, a scuola è un vero portento ("la scuola era la mia vita") e, una volta iscrittosi all’Università del Missouri, fa la sua porca figura, meritando voti molto alti. Gli bastano due anni, però, per mandare tutto a puttane. "Ebbi un’epifania mentre guidavo sull’autostrada, di ritorno da un concerto degli U2, durante il tour di “The Joshua Tree" (...) Improvvisamente, mi raggiunse e mi ritrovai fuori dalla mia macchina. Il vento spirava forte e freddo, ed era come se mi attraversasse da parte a parte. Ed io ebbi questa sensazione, come quando dici: "Devo immediatamente cambiare vita!". Presto fatto! Trova lavoro in un ristorante greco, lavora come un matto e mette i soldi da parte per comprare una chitarra decente ed un amplificatore più potente con cui poter finalmente lanciare la sfida al mondo. Poi, si trasferisce a St. Louis perché, nel frattempo, ha conosciuto dei tizi con cui ha iniziato a suonare in band quali Conspiracy e Dorian Gray ("un incrocio tra Jason and the Scorchers e i Bauhaus"). Contemporaneamente, però, inizia ad interessarsi sempre di più al metal e al progressive ("Stimo molto i musicisti progressive perché si curano davvero poco di quelle che sono le attese del mainstream, cercando, piuttosto, di dipingere una sorta di quadro con la loro musica"). Nascono, così, i Mind’s Eye, che hanno, comunque, vita breve. Era tempo, ormai, di ritornare a casa ("richiamato dalla Nascar – la famosa serie di gare automobilistiche, ndr -, da  Daisy Duke, Johnny Cash, Elvis, e dalla mamma…"). Una volta a casa, trova rifugio tra le fila degli Alien In The Land Of Our Birth (con Brad Elrod, batteria;  Billy Loffler III, chitarra;  Christopher Frey, basso;  Scot Upshaw Carter, voce), autori di un interessantissimo connubio di post-hardcore, noise e cattive vibrazioni lisergiche. Purtroppo, la band non ha lasciato altro che demo autoprodotti (pur avendo vinto, nel 1990, i Nashville Music Awards come miglior compagine d’avanguardia), ma, col senno di poi, brani come "Father Studio" (post-hardcore galattico), "Box" (i Butthole Surfers si danno al thrash), "Gnawing With Dale" (grezzo cingolato di barbare emozioni) e "Life After Slayer" (perfido psicodramma che si scioglie a contatto con le nevrosi degli Scratch Acid) dimostrano che si trattava di qualcosa di più di una semplice promessa.

Tuttavia, Steve mostra subito di non gradire del tutto il sound di Upshaw Carter & co. ("la band aveva anche dei tratti space-rock e un piglio troppo atmosferico – era, in definitiva, qualcosa di differente da quello che stavo cercando"), finendo per abbandonarli seguito dal batterista Brad Elrod, nel frattempo diventato suo grande amico (e non sarà un caso che, di lì a poco, gli Alien In The Land Of Our Birth, dopo un disastroso concerto in quel di Detroit, scompariranno definitivamente dalle scene - Christopher Frey finirà nei Porch, Scot Upshaw Carter e Billy Loffler III, Dio solo sa dove…). Assoldato il bassista Mike Herrell, nel marzo 1992 i Today Is The Day sono finalmente una realtà. "Penso che i Today Is The Day -  per il moniker mi sono ricordato di una scritta sul muro nello scantinato dell’appartamento in cui vivevo quando ero a Detroit - siano stati il giusto premio per tutti i miei sacrifici. Sei anni in giro, cercando di mettere su una fottuta band!". E’ l’Ep autoprodotto How To Win Friends And Influence People (1992) il primo vagito della nuova creatura. La band mostra ancora di essere acerba, ma talentuosa a tal punto che, in breve tempo, si scomodano etichette come la TVT, la Earache, la Amphetamine Reptile e la Alternative Tentacles. "Alla fine, optammo per la Amphetamine Reptile [d’ora in vant AmRep, ndr], perché credevamo fosse l’etichetta più adatta nel sostenerci in quello che volevamo fare". Avevano visto giusto, perché il boss dell’etichetta di Minneapolis, Tom Hazelmeyer (ex chitarrista degli Halo Of Flies), fu da subito un convinto sostenitore della causa. Nel ’93 arriva finalmente il debutto ufficiale, anche se sulla breve distanza. Il 7” I Bent Scared presenta due brani concitati e rumorosissimi, con cui il trio sembra voler bruciare le tappe, facendo terra bruciata in fatto di ferocia e disperazione esecutiva. La title-track e "Come On Down And Get Saved" sono, così, esempi di un suono colto sul nascere, nel grembo di una tradizione noise che sposa la violenza delle esperienze successive al tramonto dell’epoca hardcore. Se è questo il preludio al loro primo disco sulla lunga distanza, è pur vero, però, che le trame tortuose e le strutture pericolanti già guardano al post-metal emozionale e "matematico" di Willpower.

Autoritratto di un cieco sul lago mistico

Basta poco a "Black Dahlia" per mettere le cose in chiaro: Supernova (13 brani, 53:21), debutto sulla lunga distanza targato 1993, è un’opera di una band già matura e decisa a non lasciare niente di intentato. Noise-core esponenziale e multi prospettico, tagliato dalle vigorose, dissonanti sferzate della sei corde e aggrappato alla monumentale sezione ritmica, in una rete di rimandi i cui punti cardine sono King Crimson, Black Sabbath e Laughing Hyenas, quello di Supernova è un sound percorso da una ferocissima tensione sotterranea che destabilizza, di volta in volta, il percorso già tumultuoso, direi quasi agonizzante, dei brani. Si diceva, dunque, di "Black Dahlia": un flusso disarticolato e mutante di passione e disperazione (riecheggiato dall’ossessiva, maniacale crisi di nervi di "Adult World"), con strappi jazz-noise, black-out repentini e gorghi esistenziali che in "6 Dementia Satyr" sviluppano le loro tenebrose contraddizioni mediante un continuo altalenare di scosse e accelerazioni. La voce di Steve è un pozzo senza fine di oscene pulsioni omicide (da qualche parte tra David Yow e John Brannon), un grido sedizioso che sbatte violentemente contro le pareti dell’anima, più e più volte, fino alla lacerazione; e, mentre la chitarra macina riff opprimenti, il tutto assume connotati caustici e, per il tramite delle apocalissi dei Fudge Tunnel, si risale al post-hardcore più inverecondo e creativo. Insomma, lo strazio psichico e la tortura apocalittica, nell’imminenza della fine ("Rise", ovvero la demolizione esasperata, il martello sull’incudine - quando serve, quando ce n’è bisogno). Ma c’è anche la scientificità dell’azzardo, la razionalità dello sterminio, come quando il gioco di specchi si fa vorticoso e imprendibile in "Silver Tongue", dove la compenetrazione tra avanguardia (dissonanze in libera uscita, conciliabolo di voci, discese pianistiche en passant) e potenza espressiva (hyper-thrash-tornado improvvisi) tocca uno dei primi vertici.

Per dare uno scossone alla scena, c’è dunque bisogno di giocare la carta dell’eclettismo, mettersi in posizione privilegiata, sorprendere e sorprendersi. Sono i brani strumentali, allora, a scavare il vero solco tra il trio ed il resto della combriccola che insegue affannata. "Blind Man At Mystic Lake" (glissando psichedelico e carillon meccanico ascensionale, con dentro le anime di morti che continuano a blaterare cazzate che nessuno vuole più ascoltare), "The Begging" (soundscape di un mondo tecnologico preda di un romanticismo gotico), "Timeless" (asteroidi saettanti nel cielo-cervello) e "The Guilt Barber" (frippertronics decomposti in un caleidoscopio futurista di timbriche distorte e feedback modulati) stanno lì, dunque, a dimostrare che il gioco vale la candela, che Hazelmeyer ha un fiuto della madonna, che la redenzione non passa solo attraverso gli sfoghi oltranzisti, ma che necessita anche di una certa dose di intelligenza strutturale. Le staffilate truculenti di "The Kick Inside" (ne ritroveremo traccia, nove anni dopo, in "The Descent") preludono al caos immondo in cui, pur sempre, si precipita: le propaggini di morte che ci solleticano, i sussulti sismici che degradano il corpo a puro istinto di autodistruzione. E’ uno dei momenti più alti del disco, l’attimo moltiplicato fino all’eccesso di una vita che si avvia verso la fine, senza ostentare eroismo, senza farsi illusioni sulla salvezza, anzi disperdendo la sua eco tra un gruppo di pecore belanti e la dolce, vomitevole melodia di un qualche dimenticato carillon da quattro soldi…

Degnamente, allora, "Goose Is Cooked" segue con una pièce mortuaria, tutta buchi neri e distensioni tentacolari che, in un corto circuito temporale, veste gli Eyehategod con gli stracci del fantasma dei Khanate, un decennio prima della sua fuga dal manicomio. Culmine sperimentale del disco, "Self Portrait" è, infine, l’autoritratto di un’artista straordinariamente sopra le righe: dieci minuti scarsi che mettono, uno dietro l’altro, Peter Green/Jerry Garcia in una free-jazz wonderland e l’ultimo allungo verso la meta, con un vessillo alto nel cielo: la potenza è niente senza controllo…

Le recensioni entusiastiche non si contano, ma piuttosto che cullarsi sugli allori, la band parte per il Clusterfuck Tour (43 date in giro per gli States) insieme con Chokebore e Guzzard, evento immortalato dall’Ep Clusterfuck ‘94, che vede la band alle prese, tra le altre cose, anche con le inedite "Hand And Knees" (jazz-core e colossali scosse telluriche) e "Pipedream Zero" (grottesco tête à tête tra la Penguin Café Orchestra e un gruppo di zombie alticci). 

“Dal vivo, in diretta dal cuore…”


Today Is The DayIl periodo in cui venne registrato Willpower (1994; 9 brani, 30:24) inaugurò uno dei momenti più tormentati della vita di Steve. “Trovavo così difficile essere felice, sentirmi bene, godermi la vita. Così, scelsi la “fottuta strada chimica”: niente t’importa quando senti che non c’è alcun modo per uscire dal tunnel”. Aggiungete a tutto questo la morte violenta del padre (in un incidente automobilistico) e avrete, al completo, il palcoscenico su cui si svolge, in nove atti, la tragedia emozionale del primo capolavoro della band.
Willpower è math-metal suonato con il sangue agli occhi, il lucido ribollire del dolore contemplato con una freddezza inumana, l’atto dell’autocontrollo portato alle estreme conseguenze, contro il montare delle rovine della psiche, quotidianamente tentate di farci la pelle. Nella sua perfezione formale, questo disco dimostra, qualora si avessero dubbi in merito, che la sofferenza e lo strazio sono il più grande carburante per quell’illusione pestifera che chiamiamo arte. La tensione che scuoteva da cima a fondo Supernova viene qui sfaccettata e radicalizzata (ne sono spie evidenti le dinamiche ancora più imprevedibili e le variazioni di volume che accompagnano il dipanarsi dei vari brani) anche se, nel contempo, le improvvise fioriture melodiche lasciano che la musica respiri, come attraversata da un vitalismo psichedelico tutto nuovo. Ma è una psichedelia passata nella candeggina, sfigurata col veleno: “Per me, è un suono acid-metal”, rivelerà Steve. Si completa, poi, il salto verso la rabbiosa, sfiancante tragedia vocale di Brannon (venerato fin da quando prestava l’ugola ai deraglianti hardcorers Negative Approach), tanto che, anche nelle parti vocali più “rilassate”, si avverte, vivo e bruciante, come fuoco sotto la cenere, un senso di disfacimento imminente.

La title-track nasce da un collasso (“I look into your eyes and I know that you're lying”, grida una donna al suo uomo…) e arriva in faccia come un pugno, severo e spietato. La band è cresciuta, lo si avverte subito: Steve traccia linee diagonali di metallico furore (distorsioni voraci, minimalismi esagitati e punti di fuga fulminei lo mantengono in bilico tra Gregg Ginn ed il precipizio del post-core psichedelico) e sbraita come un appestato lapidato; Brad pesta geometrico e puntuale, sottolineando le arterie del dramma; Mike regge la baracca con un walking-bass mefistofelico. Lo svolgimento è narrativo, procede per strappi ma tende verso un climax, verso una confessione, ora si! chiaramente sofferta, quasi auto-estorta con tutta la forza possibile: “I don't want you/ because I need someone/ ‘till the day we die”; e, tutt’intorno, la decompressione in atto: corde accarezzate distrattamente, pelli ordinate con cura, un anelito melodico anemico, sfiatato… Sceglieresti la rassegnazione, non schioderesti più il culo dalla sedia, tireresti lo sciacquone consegnando al dimenticatoio quella filosofia, quel modo di vivere. Ma, come si sa, i momenti di abbandono sono fatti per essere stravolti, per essere disossati dalla rivalsa, dall’acredine turpe che maciulla il riff bluesy che introduce “My First Knife”. Poi, l’apocalisse, buona per farsi spazio tra la folla, dire “figlio di puttana” al mondo, riprendersi i ricordi, abbattere il tempo. “I wish you were with me/ instead of far away” è il distico dell’uomo ormai privo di pudore, maschio ridotto a marionetta, buono al massimo come comparsa di se stesso per un refrain che torna come un pianto maldestramente dissimulato: in mezzo, a tagliare in due l’epopea, violenti fermenti matematici e una chitarra che schiamazza smisurata come in un baccanale Sonic Youth/Rapeman, ma con la disciplina imposta dal Re Cremisi e la voce di una belva in gabbia che sbava adrenalina…

Ma quello stesso riff, quella stessa baldanza la si ritrova sudicia, deformata e abbruttita in “Nothing To Lose”. Il canone è, ora, inverso: dalla melodia al frastuono, dalla rassegnazione (apparente) all’assalto senza remore. E’ la batteria che squadra il campo (rullare vertiginoso strapieno di sé), il basso suo segugio fidato; ma è la chitarra che ne difende i confini, distorcendo l’ira di Dio pur se con uno strano, degradato piglio intellettuale. Lo si noti, allora, questo passaggio: non più la pesantezza straziata di Supernova, il distorsore nelle mani di un maniaco, ma l’uso (lo studio…) cinico, para-razionale della violenza e dello sdegno. Quanta malvagità repressa, allora, quanta disperazione costretta a calci in culo nel perimetro della distensione quando parte “Golden Calf”! Sono gli Scratch Acid morenti che affidano, scorati, le ultime memorie al mormorio maligno del demone che ci portiamo dentro. Solo che, poi, quel mormorio si trasforma in desiderio assoluto di vita: le spirali post-punk del basso, il crescendo epico di chitarra e batteria, le parole liberate con voluttà svigorita… Con l’intro in medias res di “Sidewinder” siamo nel bel mezzo del noise-metal disumanizzato dalla tecnologia. Le complicazioni strutturali (gradi successivi di fratture emo), l’intermezzo come una luce smorta che illumina a malapena l’attore sulla scena vuota di un teatro inesistente, la sublimazione schiacciata sotto il peso di una creatività debordante, assatanata. I Today Is The Day suonano, in Willpower, emo-progressive assemblando i rottami del noise-metal.

“Many Happy Returns” ha il delirio nelle vene, l’effervescenza dello sfacelo interiore, perché portare tutto al limite è conseguenza inevitabile delle frustrazioni che non sappiamo gestire. Mirabolante l’avvio, superiore ed inarrivabile lo svolgimento: ingranaggio spasmodico di urla crudeli, mulinelli chitarristici, pattern ritmici disabilitati poco alla volta, collassi brutali in your face, dispersioni dissonanti gettate oltre l’ostacolo. Non si può reggere ancora per molto a tutto questo. E, allora, la melodia che non t’aspetti, il falsetto efebico, il trasporto quasi svenevole di una “Simple Touch” che segna l’apice melodico della band. Perfetta, anche se inattesa (o forse proprio per questo?), prima dell’ultima catabasi di “Promise Land”, ancora introdotta da un sample cinematografico. Inizialmente, sembrerebbe voler suonare il requiem definitivo, mettere la parola fine, quasi incespicando tra le note e le parole; ma Willpower è un disco di metamorfosi costanti, di virate improvvise, di tagli netti e senza appello. Perciò, se la via d’uscita è lastricata di immagini acroniche, cullate come in un sogno/incubo Green-iano in cui rivive l’inno di “Amazing Grace”, l’approssimarsi della fine merita un altro colpo di coda della bestia in gabbia. Dopo, anche il silenzio non sarà più lo stesso. (1)
Registrare Willpower è stato come suonare dal vivo, in diretta dal cuore….
La marcia della morte verso la nera prigione di ferro

Steve Austin non è certo tipo da bagnarsi due volte nello stesso fiume. La sua musica è un flusso continuo di idee, un reticolo inestricabile di intuizioni, una ricerca costante dove la vita e l’arte si fondono senza soluzione di continuità. Le sue liriche lo testimoniano: un diario di bordo da cui, in controluce, si diffondono i contorni di un'animo profondamente inquieto ma, non per questo, meno desideroso di combattere a viso aperto, di mettersi, sempre e comunque, in discussione. Questa tensione al nuovo è di certo alimentata anche dalla sua passione per il jazz, soprattutto nella sua variante “free”: “La creatività del free-jazz è simile a quella del verso libero: sempre fluttuante e mutevole; insomma, mai suonare due volte la stessa cosa!”.

Detto questo, però, prima di entrare in studio per la registrazione dell’omonimo terzo lavoro, l’impulso al cambiamento venne fornito da un fatto del tutto accidentale: l’abbandono di Mike Herrell. “Dopo che Mike ci lasciò, io e Brad incontrammo molte difficoltà a trovare un degno sostituto. Fu così difficoltosa la ricerca che, alla fine, optammo per un approccio completamente diverso, perché per noi era impensabile proseguire in quel solco senza il modo così pazzo di suonare di Mike. Chiamammo, dunque, un nostro amico [Scott Wexton, ndr] che suonava le “tastiere del male”, anche se, dopo un paio di tour, ci rendemmo conto che le cose, tra di noi, non andavano proprio alla grande”. (2) Nonostante le divergenze di carattere, però, Today Is The Day (1996; 12 brani, 36:43), primo loro disco ad essere registrato nello studio privato di Steve – l’Austin Enterprise –, in quel di Nashville, è un'altro grandissimo esempio di creatività allucinata: il baricentro si sposta verso un sound che, già alterato stilisticamente per la mancanza del basso e per la presenza di tastiere e campionamenti, veleggia verso una digitalizzazione di quell’ibrido noise-metal-progressive fino ad allora sviluppato. I timbri, le sfumature, le tonalità finiscono, così, per apparire deformate da una lente di dolorosa, caustica glacialità. Eppure, questa landa de-umanizzata è continuamente scossa da emozioni crudeli, tanto che il contrasto tra gelida superficie e rovente sottosuolo sembra rispolverare la lezione degli Iceburn (nomen omen…) per trasferirla in una dimensione aliena e vagamente gotica, seguendo il solco profondo di un avant-metal quanto mai rumoroso e raffinato nei suoi esasperati contrasti espressivi, resi ancora più infernali dalla distorsione sempre più crudele della voce e dal sapiente uso di texture ambient-industriali.

Ecco, quindi, che “Kai Piranha” e “Realization”, incanalando il death-metal dentro una rigida struttura meccanica (il primo passando dai Voivod, il secondo mettendo mano nella mano i primi Neurosis e i Black Sabbath), anticipano la pesantezza impenetrabile di In The Eyes Of God e la disturbante, stordente claustrofobia di Sadness Will Prevail. In questo senso, lasciando che passato e futuro collidano violentemente, prima di spostare ancora oltre gli obiettivi, quest’opera rappresenta un punto di passaggio essenziale per gli sviluppi sonori della band. Nelle tenebre della follia più fitta, s’inabissa, invece, “Marked”, la cui coda innesca la miccia di un caotico, quanto glorioso tornado di urla abominevoli e barbara anarchia rumorista. E’ il climax definitivo del disco, raggiunto nel breve volgere di qualche minuto dopo l’inizio, a chiarire, insomma, che da queste parti non si fanno sconti a nessuno. Tutto è volubile, sottoposto alle leggi del cambiamento (esentati giusto il bozzetto acustico di “A Man Of Science” e la mini ballata dolente di “I Love My Woman”), costretto da una forza inconscia a spingersi oltre, verso mete sempre più ardue. Se, quindi, “Bugs – Death March” parte a razzo con un micidiale uno-due di tetro grindcore, lavorando poi di cesello con le armi della nevrosi jazz-metal, invero, di lì a poco, finisce per squarciare l’orizzonte con un vascello di diseredati già oltre le colonne d’Ercole (“The sky is black / The fire is coming down”), il tutto sottolineato dalle ventate maligne delle tastiere e destinato a dilapidare la sua stessa temerareità tra le pieghe di un mondo spettrale, impalpabile, come quello evocato dal rituale esoterico di “Black Iron Prison”.

Le cacofonie libere e gli incastri progressivi scuotono costruzioni solidissime come quella di “Mountain People”; abissi esistenziali scolpiscono il simulacro dell’angoscia tra le pieghe di “Ripped Off”; “She Is In Fear Of” cammina sull’orlo della nevrosi più crudele, mentre in "Dot Matrix" un filo di voce abbatte il confine tra umano e demoniaco, raggiungendo livelli psicotici preoccupanti. Ma, più di ogni altro, è probabilmente “The Tragedy” il luogo in cui questo suono algido e digitalizzato sfocia in qualcosa di davvero inaudito, giungendo, senza mezzi termini, alla vera essenza sonora del disco: il momento del contatto è rappresentato dall’allestimento di un nastro trasportatore ritmico contro cui (o su cui…) scorrono le figure chitarristiche filtrate dalle diavolerie elettroniche di Wexton. E’ la visione “industrial-oriented” di un fantascientifico metal d’avanguardia. La profezia più nitida del sound “terribile” di Sadness Will Prevail.

Nel tempio dell’uomo che amava ferirsi

Today Is The DayTerminata l’avventura con l’AmRep, è la Relapse Records di Philadelphia ad accogliere i Today Is The Day tra le sue braccia. Il passaggio non è, ovviamente, privo di ripercussioni sul tessuto sonoro. A partire da Temple Of The Morning Star (1997; 17 brani, 50:52 - il titolo deriva dal nome di una Chiesa Satanica di Denver, in Colorado) vengono, infatti, definitivamente a galla i germi di quel metal estremo e sperimentale che fino a quel momento aveva dovuto spartire la scena con le reminiscenze noise-core su cui la band aveva, in gran parte, edificato la sua leggenda. Ma è una preminenza che agisce a livello di superficie, poiché questo è innanzitutto il disco in cui l’esperienza maturata fino a questo momento raggiunge, per la prima volta, un livello di sintesi sconvolgente, cui la produzione conferisce una compattezza visionaria, direi quasi pregna di un misticismo negativo. La pesantezza opprimente di Supernova, la tensione psichica di Willpower e l’uso destabilizzante dell’elettronica, che tanto peso aveva avuto sull’omonimo predecessore, convergono in un granitico e opprimente blocco di efferatezza e tormento.

Ancora una volta, viene rivoluzionata la line-up. Inizialmente, la scelta per il bassista ricadde su Jason Dietz, il cugino del quale, Mark Hyde, fu in seguito scelto come batterista. “Steve aveva già pronte alcune canzoni prima che arrivassi io. Una volta entrato nella band, provammo numerosi batteristi. Certo, la decisione finale spettava a Steve, ma dopo molti tentativi andati a vuoto, alla fine decisi di contattare mio cugino Mark Hyde che superò l’audizione! Nel frattempo, Steve ci aveva comunicato che delle tastiere si sarebbe occupato Christopher Reeser. Mentre stavamo iniziando a registrare i demo delle canzoni, fui, però, costretto ad abbandonare la band, dato che l’altra band in cui suonavo (i Serotonin) sarebbero dovuti andare in tour proprio in quel periodo: i membri della band erano come dei fratelli per me, così non ebbi altra scelta”. Al posto di Dietz, subentrò lo stesso Reeser: “Chris prese il mio posto, come “bassista” – prosegue Dietz -. Tuttavia, potrei sbagliarmi..., ma ho sempre avuto l’impressione che egli non abbia fatto altro che campionare con le tastiere le mie linee di basso presenti sui demo. Così, il “basso” che ascolti sul disco non è altro che il suono del “mio” basso campionato…”.

Ad ogni modo, con la nuova formazione, il suono matura un impatto poderoso (come dei Zeni Geva oltremodo incupiti dinanzi allo sfacelo del quotidiano), con la batteria di Hyde (che aveva l’arduo compito di non far rimpiangere Elrod, “il più talentuoso e creativo batterista che i Today Is The Day abbiano mai avuto”, parola di Marshall Kilpatric) decisamente in prima linea e la chitarra di Steve affilatissima e maniacale nello squarciare, di volta in volta, questi blocchi infernali di dolorosa costernazione. Racconta Hyde: “Provammo i brani per un mese intero, 6-8 ore al giorno. In studio (all’interno di un merdoso magazzino pieno di crepe) faceva caldissimo. Ma quell’atmosfera ci ha aiutato a tirare fuori dalla nostra mente istantanee malate, contorte”. Istantanee che fissano, per sempre, un dissidio profondissimo tra forma e contenuto, tra le emozioni, solenni e brutali (“è come se ci fossimo privati della nostra anima, simultaneamente!”; “Temple è fatto di emozioni suicide, paura, amore, morte…”, precisa Steve), e la disciplina, parossistica e indistruttibile, del suono (“quello di Temple è metal della precisione – aggiunge ancora Hyde -, ecco perché - come giustamente fai notare - la sezione ritmica guadagna la scena in maniera del tutto inedita; come batterista, volevo portare la band ad un nuovo livello, verso una nuova dimensione – e spero di esserci riuscito!”).
Insomma, il tragitto lungo cui si incammina Temple Of The Morning Star guarda avidamente verso il futuro, anche se la band non fa niente per nascondere che si tratta di un percorso costellato di ostacoli, lastricato di abiezioni e oscenità innominabili. Ecco, dunque, giustificata l’ “estetica del terrore” come unica, vera possibilità per costringere in un angolo le paure più insondabili dello spirito. Nello sforzo di entrare nel “tempio della stella del mattino”, l’artista scopre - deve necessariamente scoprire! - dapprima i sentieri più bui della psiche, dilaniando ogni sentore di rassegnazione e inscenando, altresì, oltre se stesso, la sua maledetta lotta per la sopravvivenza.

“I can't be what you want me to be/ I am dead”: è la prima verità rivelata. La contiene, non a caso, la title-track, posta all’inizio con quel suo scintillare innodico lungo l’asse di un tappeto percussivo. Poi, è un continuo, molesto susseguirsi di immagini sconvolte, a cominciare da “The Man Who Loves To Hurt Himself”, la cui intro è già disturbante: un Johnny Cash d’antan (alle prese con “Good Hearted Woman” di Waylon Jennings) sopraffatto da spettri elettronici senza pace - come dire: la propria terra e tutto ciò che non ne permette un ricordo nitido e pacificante. Siamo altrove, dunque; riconosciamo immediatamente la metafora del viandante. Nelle note di copertina, Steve confermerà il suo male oscuro, lui che, nella foto che campeggia all’interno del booklet, appare barbuto e con lo sguardo tra il torvo ed il vendicativo: è il Charles Manson di se stesso, uno psicopatico deciso a scavare, a mani nude, nella sua stessa melma. L’”uomo che amava ferirsi” ha una veemenza impressionante quando, messo da parte quell’aborto di omaggio, urla le sue parole in mezzo ad un cataclisma avveniristico. Ed è uno spettacolo furibondo di linee chitarristiche guizzanti e rilucenti come acciaio nell’oscurità liquida, grappoli di picconate ritmiche fluidificanti, grandeur pre-apocalisse alla mercé dei disperati e dei dimenticati. “(Temple Of The Morning Star) è un’esperienza umana: qualsiasi realtà sovrannaturale c’entra solo relativamente. E’ un po’ come il massacro di Waco (in Texas; ndr): ha a che fare con le relazioni umane, al cospetto di un’idea di fede. Se c’è fede in quel disco, è la fede di chi crede in se stesso. Temple Of The Morning Star è una dichiarazione d’indipendenza”.

“Blindspot” parte con un fraseggio di basso scolpito nel marmo. E’ un meccanismo perfetto: precisione, potenza, magniloquenza. Un amplesso insieme cerebrale e fisico, ulteriormente dissezionato e ricomposto dalla successiva, terribile visione di “High As The Sky” (In The Eyes Of God è già nella mente di Steve…), con gli affondi inesorabili della voce e i contrappunti imponenti degli strumenti, a liberare istinti bradi, truculenti, inenarrabili. In “Miracle”, l’oltraggio si prodiga di distruggere, dal di dentro, questi corpi rocciosi: l’elettronica spolpa la carne viva del suono, la musica si aliena nelle dissonanze disumane, la digressione diventa strumento di tormentata purificazione: “Dying Blood bath Spiritual Physical Emotional Sexual Chemical Miracle”… La volontà di essere altrove convive con la tensione al suicidio: o forse, semplicemente, sono la stessa cosa (“Kill Yourself”). La richiesta di protezione, il pianto senz’appello, le grida lontane: irrisorie provocazioni contro una realtà fatta di simboli incomprensibili. Dal folk elettrico e scurissimo alla discesa perigliosa verso il fondo più occulto del Male: “Mankind” è la metafora di un’umanità destinata allo scempio di se stessa, al sacrilegio della sua stessa natura. E' un'ascesa travaglita, un supplizio senza fine che trova il suo apice drammatico nel lerciume morale di “Pinnacle”, marziale piano sequenza di pornografia esasperata ed esasperante, lo sputo feroce prima della definitiva e risolutoria perdita di ogni divinità:

Watch me destroy you/ Get out of my path/ I fucked your wife/ Fucked her in the ass/ She loved it/ She sucks me/ That's really funny/ Suck me/ You fucker/ I hate you/ You're nothing…/ (…)/ My ass bleeds for you/ Sincerely".

E’ una cartolina dall’inferno: con affetto. Eppure, in questa via crucis contemporanea, tutto ricava da sè un senso. Il diluvio percussivo, le voci deformate, l’atmosfera sulfurea di “Crutch” non sono altro, allora, che l’inevitabile esplosione dopo l’ultima, deflagrante decompressione psicologica. Successivamente, le cose sembrano privilegiare altri sentieri, mirare nuovi orizzonti, solo all’apparenza meno furibondi e scioccanti nel delineare quell’insanabile tormento. Un’aura meditativa pervade il doloroso psicodramma di “Roots Of All Evil”, a differenza di “Satan Is Alive” che è pura allucinazione blasfemica. In seguito, poi, quando parte “Rabid Lassie”, hai come la sensazione di una rinascita, di un riprendersi per un attimo la vita. E’ come quando, dopo essere caduto in un fosso, ti rialzi, scrollandoti la polvere di dosso, e ti rimetti a camminare. Sei malandato, certo, ma sei di nuovo su due gambe. Di tutto il resto, cosa dovrebbe importarti, visto che, in fin dei conti, l’aria è pur sempre pesante? Lo conferma, nel giro di qualche minuto, “My Life With You”, incorniciata dagli strumentali “Friend For Life” (un rapidissimo sguardo ad Oriente…) e “I See You” (desolato crepuscolo di chitarra acustica e synth prospettico), che dimostrano come questa seconda parte tenti, in un modo o nell’altro, di redimere il carattere generale dell’opera. Fatto sta che, a fare i conti con gli ultimi due movimenti, non troppe speranze riescono a mantenersi intatte. “Hermaphrodite” allunga un’ombra minacciosa con i suoi pantagruelici otto minuti e rotti di maestoso slow-doom Melvins-iano, guidato da un giro di basso velenoso e sventrato dalle stilettate acide della chitarra. Conclude, in grande stile, la ripresa elettrica della title-track: batterismo circolare/aereo, i miasmi chitarristici stesi come un velo opprimente sullo sfondo e quel refrain, “I can't be what you want me to be / I am dead”, in cui l’aggettivo “dead”, pronunciato con tutta lo sdegno possibile, diventa l’epitome di un’opera maledetta, destinata a lasciare il segno su tutto il circuito “heavy”.

Sempre nel 1997, la band partecipa (con una rilettura di “Sabbath Bloody Sabbath”, successivamente inserita anche nella ristampa di Temple Of The Morning Star come hidden track) all’iniziativa della Hydra Head di omaggiare i Black Sabbath con una serie di sei 7” di cover. Tra le altre band che si cimentarono con il repertorio della storica band inglese, ricordiamo, oltre ai Coalesce (cointestatari dello split In These Black Days, vol. 3), gli Anal Cunt, gli Eyehategod, i Converge, i Brutal Truth ed i Neurosis.

Negli occhi di Dio, le tracce dell’angelo nero

“Il nuovo disco dei Today Is The Day sarà del tutto differente rispetto ai dischi che ho registrato fino a questo momento. E’ un’estensione del sound, della pesantezza di Temple Of The Morning Star, con canzoni – della durata media di un paio di minuti o poco più - che sono scudisciate di follia. Si tratta, inoltre, di un album più lungo: 20 canzoni, senza strumentali, (…) scritte in appena un mese, insieme al batterista. Penso si tratti di uno dei dischi di heavy metal più futuristici di sempre”.

Così si esprimeva Steve (nel frattempo trasferitosi a Clinton nel Massachussettes) poco prima della pubblicazione di In The Eyes Of God (1999; 20 brani, 50:38), quinto disco della sua personale saga. Gli faceva eco la campagna pubblicitaria imbastita dalla Relapse, che, con toni apocalittici, dichiarava: “Se col nuovo millennio arriverà la fine del mondo, In The Eyes Of God sarà il funerale dell’umanità.” Le solite previsioni millenaristiche si rivelarono, per fortuna, inesatte, ma con la sua tonitruante carica grindcore, le sue “scudisciate di follia” e i suoi velenosissimi rigurgiti di odio, il nuovo disco della congrega nashvilliana fu un altro assalto all’arma bianca, un’altra dimostrazione di forza e di spaventosa lucidità musicale.

Sostituiti Hyde e Reeser con Bill Kelliher (basso) e Brann Dailor (batteria), entrambi provenienti dai Lethargy, Steve rinnova la sua sfida al mondo guardando ad una delle sue band preferite, i Napalm Death (è netta, comunque, anche l'influenza dei Carcass). Ma lo sfrenato eclettismo della band rende l’attacco grind-core tutt’altro che cieco, arricchito, com’è, oltre che da una vaga atmosfera goticheggiante, da una serie infinita di contraccolpi ritmici, partiture strumentali e strutture aperte.  La linea evolutiva che da Temple Of The Morning Star arriva fino a Sadness Will Prevail, trova in questi poderosi cinquanta minuti un momento di fondamentale ricognizione: molta della devastante potenza del suo successore è qui, infatti, già prefigurata in tutta la sua forza tagliente e corrosiva. Una potenza che si avvale, tra l’altro, di liriche ancora più personali (“sono liriche paragonabili a quelle di Willpower, anche se c’è un livello metaforico più alto”), in cui Bene e Male si confondono, senza scampo (“così come l’immagine di copertina rappresenta l’unione inscindibile di Cristo e del Diavolo, allo steso modo un vero uomo dovrebbe essere capace di rappresentare una commistione di bene e male…”).

Se la title track semina scompiglio con le sue ferocissime sferzata, è tuttavia la lunga “Going To Hell” (aperta dal canto malinconico di una soprano e mandata in gloria da una lunga coda panoramica) a rappresentare la prima vera micidiale riprova di un’ispirazione che viaggia ancora su livelli altissimi. Nell’immediato, seguono, il testosterone grind di “Spotting An Unicorn”, l’horror-death grottesco di “Possession”, la frenesia assassina di “The Color Of Psychic Power”, il sabba nero marziale di “Soldier Of Fortune” e la carica bestiale di “Mayari” e di “Bionic Cock”. Il grande dinamismo di questi brani è acuito, oltre che dal lavorio incessante di chitarra e basso, anche (e, forse, soprattutto) dall’eccelso batterismo para-jazzato di Dailor (si prendano, ad esempio, “Argali”, con le sue diramazioni improvvise, le sue escalation liberatorie; o, ancora, “Afterlife”, dalle soluzioni quasi math).”Brann è un batterista eccezionale. Ha sempre il controllo della situazione e riesce ad essere dappertutto col suo drumming” (Mark Hyde). Che il tutto sia nato da un confronto compositivo tra chitarra e batteria (per molto tempo, Steve e Brad sono stati privi dell’apporto di un bassista), lo dimostrano proprio certi passaggi in cui i due strumenti viaggiano faccia a faccia, entrambi segnando il passo mentre il basso lavora di cesello nel sottosuolo.

Dopo i rimpalli truci di “Daddy”, è ora di verificare fin dove si è spinto il suono nato tra le pieghe di Supernova (“Who Is The Black Angel”), seguirne le discese voluttuose verso abissi torbidi o monitorarne l’angoscia mentre imbocca, a passo di anthem, labirinti psicotici (“Martial Law”). In “False Reality”, gli allunghi vorticosi illuminano la componente hardcore di un suono che, pur chiamando in causa i generi più disparati, continua a rappresentare un ibrido alieno, un mix estremamente personale dove la somma delle parti produce un risultato incredibilmente inedito, e dove, inoltre, l’eclettismo è tutt’altro che una forzatura, rappresentando, invece, una vera e proprio esigenza artistica. Nessuna meraviglia, quindi, se è un balletto dal sapore orientale ad introdurre un’altra delle loro polverizzanti carneficine (“The Russian Child Porn Ballet”), intanto che cresce il senso di disorientamento e di frustrazione e la geometria sembra svelare il segreto di tanta furia (“The Cold Harshness Of Being Wrong Throughout Your Entire Life”). Così come era successo per l’incipit, anche per il finale la band si muove su un duplice livello. Se, quindi, “Honor”, con la sua epica cavalcata e la sua armonizzazione incalzante, rappresenta il culmine ideale dell’opera, è, invero, la lunga suite di “There Is No End” a segnarne il limite ultimo, con un susseguirsi camaleontico di veemenza metallica, progressive Fripp-iano (caos e raziocinio) e oscure danze pellerossa avvolte in un involucro digitale.

Non c’è fine, per l’appunto. Con questo brano, infatti, Steve è già proteso verso l’immediato futuro, lasciando più di una porta aperta e ponendo mille interrogativi. Intanto, però, con i suoi meandri sonici esagitati, In The Eyes Of God si presentava già come un’opera capace di stimolare diverse chiavi di lettura. Eppure, una volta penetrato il suo mistero, inizierà a mostrare il suo volto “umano”, e la sua simbologia, frantumata in mille rivoli, risalirà lentamente alla fonte, illuminando il senso complessivo di un disco nevrotico, furibondo e, ancora una volta, importante.

In costante cambiamento…

Terminato il tour di In The Eyes Of God, Steve si metta alla ricerca di nuovi membri. Ad un concerto degli Slayer, lo avvicina Chris Debari (ex Somniis) che gli propone di fare qualche jam insieme. “Scoprii, così, che Chris era un chitarrista talentuoso, oltre che una persona molto intelligente. Diventammo subito amici e restammo per qualche periodo in contatto. In seguito, quando ebbi bisogno di un bassista, pensai a lui”. Era il gennaio ‘99. Restava, però, ancora l’incognita batterista: “Lo stavo cercando tramite annunci su internet e, un bel giorno, mi contatta Marshall Kilpatric. Lo feci venire nel mio studio e in breve tempo ci conquistò”. La prima prova sul campo della nuova formazione la si ebbe con lo split Zodiac Dreaming (2001), insieme con i californiani 16. Il nuovo trio presenta le prime versioni di “Invincible” e “Breadwinner”. Un anno prima, intanto, era stato dato alle stampe Live ‘Till You Die, un documento dal vivo per fans completisti con brani provenienti da performance del periodo 1997-2000. L’atmosfera è claustrofobica (“Crutch” è roba da ricovero immediato), le esecuzioni sono cariche di malvagità e la band dimostra di essere, on stage, una macchina da guerra. Ma la vera chicca è rappresentata dalla presenza di alcune cover: “Feel Like Makin’ Love” (Bad Company), “Wicked Game” (Chris Isaak) e “Why Don't We Do It In The Road” (Beatles), tutte costrette a subire il (mal-)trattamento Today Is The Day. In versione acustica, troviamo, poi, tra gli altri, il tema di “Temple Of The Morning Star” (con percussioni e bava di synth). L’inedito “TDA”, infine, è uno strumentale conteso tra ambient e dilatazioni spacey.
L’anno successivo, la band condivide un altro split, Descent (questa volta con i Metatron), forte dell'orrendo buco nero di “Tabula Rasa”, in bilico tra voci deformate, magma rumorista e brandelli di memorie dissolute che tentano la carta di un’improbabile redenzione con una coda weird-folk (!).

Fiori fatti di carne. O dell’avvento della disperazione

Tutto ha un senso. Anche nella vita di un’artista così controverso come Steve Austin. In sette anni di attività, l’uomo di Nashville non aveva fatto altro che mettersi a nudo, scoprendosi spesso anche vulnerabile in mezzo all’infuriare di una musica inclassificabile sotto molti punti di vista. Unico punto cardine di una band sempre più rispettata da pubblico (ovviamente, quello di nicchia) e critica (certo, la più illuminata), Steve si è circondato di gente sempre disposta a dare il massimo, perché il massimo avrebbe dato lui, nonostante le sue paranoie e le sue ambiguità. Eppure, era sempre come se fosse isolato, come se cercasse di ripararsi da qualcuno o da qualcosa. Si era ripreso da una tremenda depressione grazie alla sua nuova compagna, Hannah, in seguito diventata sua moglie. Ma, nonostante avesse ormai anche due bambini, erano rimasti dentro di lui i segni del mostro… Perciò, per quello che da molti è considerato come il suo disco più importante, volle avere tutto lo spazio necessario per mostrare, una volta per tutte, la sua dote di paure e angosce.

Today Is The DaySadness Will Prevail (2002; 30 brani, 145:02): un doppio disco, per due ore e mezza scarse di musica. Il monumento all’irrazionale della sua anima. Un affresco potente e senza sconti delle inquietudini, della disperazione e del dolore di un uomo. “Penso si tratti di una delle testimonianze più folli della solitudine del nostro tempo. Le nostre vite si svolgono in modo sempre più isolato. Tutti questi mezzi di comunicazione di ultima generazione ci rendono sempre meno umani, sempre più alienati”. E, ancora: “L’idea mi venne intorno al 2000. Ero chiuso nel mio appartamento e mi sentivo un po’ come Jack Nicholson in “Shining”, pronto ad ammazzare tutti i membri della mia famiglia. Era come una trappola: non potevo scappare e, intanto, provavo a comprendere cosa stesse succedendo giù nel profondo dei miei sentimenti. (…) Così, con questo stato d’animo, scrissi gran parte delle canzoni. Canzoni che sono vere e proprie introspezioni”. Uno scavo continuo, dunque, esasperato dall’uso di ripetizioni sfiancanti, quasi si cercasse il passpartout per un minimalismo rigenerante, terapeutico. Di sicuro, un’arma usata per rendere il messaggio (“la disperazione trionferà”) chiarissimo, inattaccabile. “Mentre il disco precedente aveva cercato di oltrepassare i limiti di velocità e aggressione sonora – spiega Kilpatric - Sadness, più che un vero e proprio disco, è da considerarsi alla pari di un esorcismo. Sebbene ci fossero tutti gli elementi che avevano progressivamente contribuito a creare il suono Today Is The Day, Sadness... è un lavoro volutamente  “minimalista”. E se i passaggi ripetitivi servono per continuare a ripetere, ininterrottamente, al mondo che “la disperazione trionferà”, alla fine sai che, proprio in quel momento, avrai anche l’opportunità, se vorrai, di sentirti ancora vivo… Ecco perché questo disco è anche pieno di sarcasmo e humor nero…”.

Ma, come dire, se il messaggio è pressoché definito, il medium si rivela essere quanto mai tortuoso, ricco di incognite, costretto a vagabondare spesso senza meta. Così come i dischi precedenti avevano mostrato una compattezza formale più o meno ricercata (con l’apice indiscusso di Willpower), allo stesso modo, ma da un’angolazione completamente diversa, Sadness... onora l’imperfezione, santifica l’incoerenza, mettendo sul piatto una giungla di suoni torturati, martellanti, un reticolo di dinamiche cangianti che hanno l’ingrato compito di cercare l’aderenza ad un vortice emozionale (apparentemente) indecodificabile. Si spiega, quindi, anche il perché della scelta di registrare tutto in presa diretta, con successivi, piccoli accorgimenti di post-produzione. Salvaguardare la veracità dell’atto esecutivo, senza troppi fronzoli.
Se il disco precedente era carico di rabbia e di odio, Sadness Will Prevail è vera pazzia, vera psicosi.
Così, nel grande affresco di spiriti costretti in un angolo, rannicchiati con il volto sconvolto, tutto è visceralmente portato alle estreme conseguenze, in mezzo ad un’atmosfera di irrimediabile decadenza morale. Si scopre, quindi, man mano che ci si inoltra dentro questa “selva oscura” contemporanea, che l’artista non è solo, non è più abbandonato a se stesso con il suo carico di sensazioni, quasi costretto, invece, a trascinarsi dietro i suoi comprimari, per forza di cose, per sovrabbondanza di ispirazione.  “In retrospettiva – prosegue Kilpatric - mi rendo conto che in quel disco siamo stati tutti obbligati ad uccidere un po’ della nostra anima. Abbiamo dovuto scavare nelle zone più oscure della coscienza per metterci al passo, e penso che la musica sia, da questo punto di vista, rivelatrice”. Insomma, se questo è un disco che ferisce è perché, innanzitutto, nasce da ferite profonde, ampiamente condivise. E, allora, l’esecuzione - caotica, impura, informale – trascende la semplice resa musicale, per trasformarsi in metafora di qualcos’altro. Altrove, allora, ci si spinge, alla ricerca di un sovra-senso. E la scorza metal resta solo come punto di contatto verso l’esterno, come segnale relativamente riconoscibile di un suono che continua a fagocitare se stesso, ingoiando, contemporaneamente, tutto ciò che può servire alla causa. “Certo, Sadness è senza dubbio un disco “metal”, però, se lo ascolti per bene, ti rendi conto che non è circoscritto in quel recinto, perché, ad esempio, potrebbe essere visto anche come una versione “estrema” di The Wall dei Pink Floyd. E’, infatti, un disco ampiamente “progressivo” (Marshall Kilpatric).
Si allarga, dunque, lo spettro delle soluzioni. Accanto al classico combo chitarra-basso-batteria (condito, come ormai sappiamo, con elettronica, samples e tastiere), ecco comparire un pianoforte, il violino – acustico ed elettrico - di Kris Force (Amber Asylum), il violoncello elettrico di Jackie Gratz (Amber Asylum), le diavolerie elettroniche di Wrest (Leviathan), la chitarra elettrica di Mark Morton (Lamb Of God) e la voce di Seth Putnam (Anal Cunt). Comparsate che aprono nuovi orizzonti, facendo letteralmente esplodere il suono e ponendo il disco in una dimensione, allo stesso tempo, parallela e “altra” rispetto ai dischi precedenti.
Ogni passo nella vita è un passo nella morte,
e il ricordo non è che una traccia del nulla
(Emil Cioran)
X e Y: così si intitolano i due dischi. Due facce della stessa medaglia. Complementari proprio perché spingono in due direzioni diverse. Il primo, un agglomerato di rabbia omicida, “un attacco ai vostri sensi”; il secondo, una trasposizione di quella stessa rabbia in qualcosa di “vagamente surreale”. Il risultato, uno shock dietro l’altro, intervallato da oasi apparenti in cui si materializzano torbide parvenze di placida rassegnazione. 

L’agguato di “Maggots And Riots”, in apertura, è di quelli che non si dimenticano: sludge-metal acrobatico/geometrico eruttante bestialità da tutti i pori, perfetto per mettere in guardia le mezze seghe, circoscrivere il cerchio degli adepti, scaraventare il cervello sul selciato dell’osceno. La voce di Steve è al suo limite massimo: quello che resta di John Brannon, tra le fiamme dell’inferno, punzecchiato dai demoni più bastardi e inflessibili. Siamo, inutile girarci intorno, isolati; tutt’intorno, le macerie della civiltà, in preda ai fantasmi della tecnologia: “Criminal” (introdotto dal suono di un modem che va in connessione) è un atto d’accusa contro “le persone che sul Web spargono cazzate una dietro l’altra, senza un grammo di verità. Non possiamo sentirci “connessi” l’un altro in questo modo!”. E, così, il suono del modem esplode in una cappa asfissiante di stoner-death pantagruelico, sventrato da fuori bordo prog-math di una precisione sconcertante. E' il suono dello sterminio. L'elogio dello sdegno salvifico. L’arte blasfema dell’eccesso. Grandguignol post-moderno. Tutto si schianta fottutamente contro il suo limite: i sibili lancinanti squarciano la tela, sfociando in ombre orientaleggianti, dietro paraventi harsh-noise, che tempestivamente un grind satanico e chirurgico contribuisce a ridicolizzare (“Distortion Of Nature”). Un gioco pericoloso, illogico, rivitalizzante...

L’avvertimento è già chiaro: ci sono incubi da dover sopportare, prima della luce – ammesso se ne riesca a rintracciare e sopportare lo splendore. Nell’immediato, allora, “Butterflies” troneggia con le sue laide catastrofi interiori. Le urla di Seth Putnam sono il baricentro di un freak-show squassato, crocifisso nel vuoto. Il batterismo circolare, il pianoforte ipnotico, quei finti coriandoli metallici come insetti impazziti sono il montare di una scenografia opprimente, tumulante. Senza dubbio, uno dei più grandi capolavori di Steve (“ricordo che, mentre la stavo scrivendo, la immaginai come la trasfigurazione di un giardino mitico con farfalle ed api svolazzanti tutt’intorno…”). Spezzata in due tronconi, “Crooked” è prima marcia inesorabile guidata da un predicatore pazzoide, poi nastro trasportatore in cui composizione e scomposizione si sovrappongono fino a confondersi. Il gioco delle ripetizioni si carica di sfumature progressive anche in “Unearthed” e “The Descent”, anche se è soprattutto in quest’ultima che il legame tra le complesse strutture ritmiche approntate dalla sezione ritmica e i chitarristici tour de force Fripp-iani (si pensi, ad esempio, a “Lark’s Tongue In Aspic (pt. II)” si evidenzia in tutto il suo splendore di sintesi (connessioni e annessioni)  e superamento (nella meccanica dell’abbandono e dell’estasi, c’è sempre più spazio per sconfinamenti e stratificazioni emozionali, mentre i simboli sonori si accumulano come residui di un tempo latente – Willpower, Temple Of The Morning Star, etc. – nonostante tutto). La solennità ha acquisito i crismi della degenerazione (la dinamite prog-death-core di “Invincible” – con coda disperata e pregna di enfasi espressionista - sconquassa e obnubila, ovvero come ti avveleno ulteriormente le acque torbide di In The Eyes Of God), del grottesco allucinato (i glissando in saliscendi della danza  horror di “Face After The Shot”) tanto che più non è un’utopia l’universo parallelo dove i Black Sabbath suonano col piglio terroristicamente schifato dei primi Swans, intanto che un sample da “Paradise Lost 2” viene disgregato in mille, spermiche scie (“Christianized Magick”).

Nel gioco di citazioni indirette, l’intro Slint-iano di “The Nailing” (che si sviluppa, poi, a mo’ di ballata stralunata e diabolica) dimostra, ancora una volta, che per la conquista di un possibile e realistico avant-metal necessitano sguardi convinti verso il passato e propensioni futuriste prive di tentazioni stupidamente distruttive. Sul versante classicheggiante, questi Today Is The Day sanno essere, però, sinceramente austeri, seppur con tutte le controindicazioni del caso. A cominciare da “Death Requiem”, allora, pianoforte e archi imbastiscono un esempio di musica da camera bifronte: tragico e funerario, ma anche, di rimando, schizoide ed eccentrico, con la voce che insegue furiosamente – in un mulinello impazzito - il flusso velocizzato delle note. Su scenari rarefatti e rassicuranti, si apre, invece, “Voice of Reason: Vicious Barker”, mentre veri e propri interludi sono “Mistake” e “Aurora” (in quest’ultima, lo spirito sinfonico si erge titanico a sottolineare l’approssimarsi del primo, grande compimento). Ma è “The Ivory Of Self-Hate” il punto più alto di questo scontro tra classicismo e avanguardia, con la sua tormentata andatura tribal-meccanica, i suoi echi vocali in proiezioni, l’eleganza distaccata del violino e i tumulti di profondità magmatiche. Ed eccolo, infine, il grande gorgo (il primo) della title track: fatalista e magniloquente grido di speranza/sottomissione, cui la manipolazione di strida maligne conferisce un significato tutt’altro che liberatorio, fosse anche da un punto di vista completamente negativo.

Ma una volta messo su Y, si realizza che tutto ripartirà da capo, che non c’è stata alcuna redenzione e che, anzi, il livello di perversione – morale ed artistica – deve ancora raggiungere il suo picco. L’assemblaggio procede in maniera ancora più indecifrabile e se anche si volesse rintracciare una struttura di fondo, magari per parlare con cognizione di causa di un concept, bisognerebbe dapprima fare i conti con dichiarazioni come questa: “Voglio portare la mia musica a un livello “primale”; voglio, insomma, esprimere le mie idee e le mie emozioni senza essere coerente”. Ci si ricorda, allora, che questa babele di idee e di rivelazioni nient’altro è che la metafora di un’anima più che mai in balia di se stessa. In maniera speculare a quanto fatto da “Maggots And Riots”, “Myriad” apre, così, la seconda parte dell’opera con l'attacco terroristico di un monolitico e meccanico death-core. “In molti passaggi dei nostri brani, tutti gli strumenti suonano all’unisono, producendo quelle che io chiamo “total unity”. Ma questa volontà unidirezionale trova una ragion d’essere proprio perché la band è sempre disposta anche a lasciarsi ammaliare dal sulfureo vortice dell’anarchia (le voragini free-industrial di “Spaceship”). E, per mezzo di questa, rintracciare un filo segreto, un legame sottile, una via maestra e “psicologica”, penetrando nel cuore di un suono definitivamente oltre se stesso.

All’inizio di “Flowers Made Of Flesh”, una voce leggermente distorta e grottescamente sinistra fuoriesce improvvisa dal tunnel gotico imbastito da archi e piano; in “Vivicide”, la gelida, desolata voce di una donna intona un canto a cappella, aggredita dal vuoto, abbandonata a se stessa. E’ un susseguirsi di strutture costruite col piglio omicida della ripetizione, ora frenetica, ora ragionata. Le linee di pianoforte che scolpiscono, come un carillon al ralenti, “Your Life Is Over” (e che poi si adagiano sul fondo, strato su strato) e quelle, più gravi e solenni, che danno vita al malinconico pannello di “Friend” intrecciano la filigrana di un tessuto sonoro sempre più ambiguo, dove la disperazione, la rassegnazione e lo sconforto nascondono barlumi di rivalsa, tentazioni omicide celate dietro il velo della manipolazione e della traslazione (“Miasma”). Naturale, allora, che, se tutto tende verso l’apoteosi, verso il punto di non ritorno definitivo dell’arte Austin-iana (leggasi “Never Answer The Phone”), il percorso sia contrassegnato da approssimazioni sempre più pregnanti, sempre più cariche di tensione. Dal superomismo Crimson-iano (via Melvins) di “Control The Media” alla sgambata psicotica di “Breadwinner”, passando per le devastazioni prog-cyber-death di “Times Of Pain” (che vanta uno degli attacchi più maledettamente esaltanti della loro carriera), è tutto un mosaico di rettilinei e divagazioni, di schegge metalliche giustapposte come in un ingranaggio sedizioso, proiettato verso il delirio, verso il capolavoro nel capolavoro.

 

steve_austin__today_is_the_day“Never Answer The Phone” è la storia di uno strano, pauroso evento, capitatoci durante la registrazione del disco. Credevamo, infatti, che un fantasma ci stesse chiamando. O meglio, che il fantasma del padre di Steve lo chiamasse. Tutto accadde una notte: stavamo lavorando su del materiale, quando un messaggio venne lasciato sulla segreteria senza che il telefono avesse squillato. Non è molto chiaro, ma sembra che dica: “Don’t be afraid” e “In my Dodge”, che è la marca della vettura nella quale il padre di Steve morì in un incidente. La registrazione fa da sottofondo al brano “Unhearthed”. “Never Answer The Phone” fu un vero e proprio esperimento, un esperimento con “liberi movimenti di pensiero”. Ci siamo, infatti, limitati a suonare, lasciando che il nostro subconscio venisse lentamente a galla…”.
(Marshall Kilpatric).

Mare magnum
di tormento, paura ed esaltazione, “Never Answer The Phone” è la summa, in ventitré minuti, di un decennio di esperimenti, buco nero terminale, scrittura automatica in preda agli spasmi ineffabili del terrore, sorpasso da ubriachi a fari spenti, terror-noise-metal anfetaminico, lavacro sommamente pagano. Si parte con una carrellata di spoken-word malsano e feedback catacombali, con punto di fuga-voragine sullo sfondo. E’ la deriva di un incubo, il galleggiare stranito di un pensiero fisso, l’evocazione del negativo. Come un maniaco che pregusta lo strazio della sua prossima vittima nella penombra della sua mente, al tramonto. Poi, il break, l’ascesa strumentale estenuante, le cadenze panzer, le convulsioni reiterate fino a lambire un collasso che non c’è, che non può esserci, perché qui non conta la risoluzione, quanto, piuttosto, il trip, il percorrimento dell’estensione tra due estremi mortiferi. E lo percepisci che dietro l’interplay c’è l’accecante bagliore dell’estasi, quasi che il trio stesse davvero portando a termine un esorcismo, liberando un’energia pazzesca, sputando riff e dissertazioni con sdegno epico e rabbia annichilente. Una rabbia che si tramuta in sconquasso sonico allorquando frequenze disturbanti, nastri in reverse, delay in fuga verso lo spazio, feritoie gestuali e zone d’ombra ambient-metropolitane sempre più sommerse declassano il trip a incubo nero, dentro una notte infinita: e un messaggio, allora, (la cattiva novella) viene a consumarsi per il tramite del medium cinematografico (“Rosemary’s Baby”?): “God is dead!”. Tutto il resto è nota a margine. Stupida illusione. Cazzate per mantenerci assuefatti, perché “Never Answer The Phone” è il viaggio al termine della notte: contromano, ad occhi chiusi, in attesa della fine…

In questo clima di nichilismo opprimente, è ormai chiaro che la speranza è LA bestemmia e la danza sfrenata delle streghe in “I Live To See You Smile” ne è conferma assoluta. La disperazione ha prevalso, come da copione. Il tema della title-track ritorna, allora, a sottolinearlo, con piglio malinconico e straziante. Anche se, solo oltre la siepe del silenzio, le voci, i rumori, gli scricchiolii e gli sfarfallamenti di un inconscio condiviso perpetrano quello che è il vero e proprio requiem del nostro tempo, nascostamente (ma fino a che punto?) in balia del caos. (2)

"Ne ho abbastanza di questa merda!"

Al nuovo materiale si inizia immediatamente a lavorare dopo la pubblicazione del live Temple Of The Morning Star Live (2002). “Sadness era stato il nostro disco “prog”. In seguito, sentii il bisogno di reinventarmi e, così, tentai di rinvigorire il metal estremo, quello, per intenderci, sorto nell’orbita della Earache a cavallo tra ’80 e ’90”. Nel frattempo, dopo la breve parentesi con John Gillis degli Anal Cunt, dietro le pelli arriva Mike Rosswag (Circle Of The Dead Children), batterista dal tocco veloce e brutale, perfetto per assecondare la sterzata grind di Kiss The Pig (2004).
“Il titolo mi venne in mente un giorno, mentre osservavo mio figlio Hank giocare col suo maialino-salvadanaio. Pensai, tra me e me: “Ironico! Tutti noi, dal giorno in cui siamo nati, non facciamo altro che pensare ai soldi, sebbene questi siano la rovina del genere umano.” Per loro, uccideremmo. Combattiamo guerre. Fottiamo la gente. I soldi decidono quali film e quale musica deve essere ascoltata. (…) Kiss The Pig è una violenta accusa verso quello che sta succedendo in questo momento in America. (…) Ne ho abbastanza di questa merda!”

Fin dal rumore del grilletto che introduce “Why They Hate Us”, le cose sono fin troppo chiare: questo è il disco più scopertamente violento della loro carriera, anche se, a conti fatti, è anche quello meno interessante, privo, com’è, di quella schizofrenia al vetriolo che da sempre è marchio di fabbrica della band. Se, dunque, il disco precedente aveva percorso sentieri più astratti, Kiss The Pig ritorna al nervo scoperto della vendetta, concentrandosi quasi esclusivamente sul carattere essenzialmente polverizzante del genere, nel solco dei padri Napalm Death e Carcass (la title track, “Outland”, “Sympathy Junky”, “Train Train”, “Mother’s Run”): doppio pedale a mille, rifferama indiavolato, blastbeats frenetici. Contribuisce alla resa poco incisiva anche la scelta di una produzione lo-fi, magari necessari per la creazione di un’atmosfera nevrotica ma, in definitiva, superflua dato il carattere già poco corroborante dei vari brani. Di contro alle barbare fucilate, però, non mancano momenti più elaborati, dove, anche se solo per brevi frangenti, la musica assume connotati più sofisticati. “This Machine Kills Fascists” è segnata, quindi, da cadenze più…ehm… umane e da dinamiche cangianti; in “Don’t Thread On Hope” e “Platinum Pussy” ritornano gli echi maligni del grandissimo predecessore, mentre “Bee’s Wax And Star Wars” elabora un discorso più chiaramente progressivo. Tuttavia, è solo con “Birthright” che la band sembra avvicinarsi ai fasti del passato, con una lunga, disturbante parata di agonia chiusa da un delicato arpeggio di chitarra. Niente di così eclatante, comunque, da non indurci a sottolineare come questo disco sia il primo e, a tutt’oggi, unico passo falso della saga Today Is The Day.

Passano due anni e, quasi per divertimento, Steve imbastisce il progetto Taipan (con Debari al basso e Patrick Kennedy degli Ironboss alla batteria), a nome del quale pubblica 1002 – A Rock Odyssey, lavoro disomogeneo e davvero sottotono. Brani come “Clairvoyant IX”, “My Big Dick In Your Mouth”, “Manzig”, Angel Dust”, “Epiphany”, “Baby Loves Daddy” presentano un suono lontano anni luce dalla potenza deflagrante dei Today Is The Day, in qualche caso anche spavaldamente mainstream. Un vero e proprio divertissement, insomma, quasi che il Nostro avesse finalmente trovato il coraggio di mettere da parte, anche se solo per poco, le sue inquietudini. (3)

“Se vuoi la pace, preparati per la guerra”

Dopo la pubblicazione di Kiss The Pig, erano in molti a credere che Steve Austin avesse esaurito la sua scorta di energia creativa. Manco a dirlo, però, tre anni dopo il “reverendo” se ne esce fuori con un’opera che rilancia ancora una volta le quotazioni della sua creatura. Assoldato Derek Roddy (ex batterista di Nile, Hate Eternal e Malevolent Creation) dopo aver suonato dal vivo con Jeff Lohrber, Graham LeDuc e il tastierista Aaron Kotilainen, i “nuovi” Today Is The Day sembrano voler ripercorrere a ritroso la strada fin qui intrapresa, risalendo la corrente con quel piglio avant-metal che ormai li contraddistingue.

Perciò, incrociando Sadness… ed In The Eyes Of God (e chiamando direttamente in causa anche Temple Of The Morning Star nei momenti più cadenzati), Axis Of Eden (2007) addita, con la giusta dose di saggezza, un passato glorioso e spaventosamente ricco di grandi opere. La formula è pressoché intatta, anche se il drumming di Roddy porta in dote un impatto (brutal-)death metal niente male, che, se in un primo momento poteva destare qualche “sospetto”, va rivelandosi, man mano, come una delle componenti fondamentali per l’ennesima ricodificazione di un suono che proprio non vuole smetterla di mantenersi costantemente al di sopra del compromesso. Perciò, se “I.E.D.” avrebbe fatto la sua porca figura accanto a gioielli come “Maggots And Riots” o “Myriad” (con quel suo ritmo spaccaossa ed un’alterazione/radicalizzazione quasi cyber di quel sound già al limite) e la desolata “Free At Last” rinnova tutta una tradizione interna di solenne/rassegnata discesa agli inferi, un brano come “Broken Promises And Dead Dreams” esalta proprio questa neo-prospettiva con passo granitico, cadenzato e con il doppio pedale su di giri.

Ma è solo con “If You Want Peace, Prepare For War” che davvero si fanno i conti col presente, concentrandosi su quelli che potrebbero essere i prossimi sviluppi della band. Vero capolavoro del disco, ed ennesima vetta del canzoniere di Steve, “If You Want Peace, Prepare For War” spezza in due tronconi questa voglia matta di sperimentare, sempre e comunque. Aggiornata, dapprima, la ferocia di In The Eyes Of God al post-Sadness..., improvviso, come una luce madida di speranza, si apre uno squarcio di world-music che – incredibile ma vero! – materializza il Don Cherry del trittico “Relativity Suite”-“Orient”-“Blue Lake”. In qualche intervista, Steve lo aveva prefigurato. Ma, come dire, fa comunque un certo effetto sentirlo declamare, quasi ipnotizzato, in mezzo alle linee orientaleggianti del synth e alle coloriture tribali di Roddy. Magico, davvero.

Poi, è ancora la volta della ripetizione, di un minimalismo carico di odio e rancore (“No Lung Baby”), di oltranzismi vocali, accelerazioni in corsa, strutture marziali morbose, ossessive ed ossessionate (“Black Steyr Aug”). E’ l’epica di un quotidiano andare-a-puttane (“My Wish Is Your Command”), la marcia di diseredati annichiliti ma non colpiti a morte (“My Wish Is Your Command”), l’imponenza della crudeltà che si scioglie in un rumore di fondo forse anche più efferato, solcato, com’è, da tensioni impercettibili (“Total Resistance”). Complicazioni Crimson-iane e citazioni di “Pinnacle” infervorano “The Worst Thing That Ever Happened To Me”, un death-grind claustrofobico e dal retrogusto “robotico” si impossessa della title-track, una drum-machine scorrazza nell’electro (!) di “Desolation”. Un gioco di variazioni e di rimandi che continua ad esaltare, gettando ulteriore luce su una delle discografie più esaltanti degli ultimi tre lustri.

Nel 2008, Derek Roddy lascia la band, sembrerebbe a causa di una disputa finanziaria con Austin. Così, per il tour viene reclutato nuovamente Mike Rosswog.

An epitaph for freedom...

todayisthedayband2011_01Con il batterista Curran Reynolds e il bassista Ryan Jones (entrambi provenienti dai Wetnurse), nel 2011 Austin registra Pain Is A Warning (9 brani; 43:24), rilasciato dalla Black Market Activities (etichetta fondata dal vocalist dei The Red Chord, Guy Kozowyk) e prodotto dall'amico Kurt Ballou, chitarrista dei Converge.
"Conosco Kurt sin dal 1997. Siamo sempre stati buoni amici. Mi chiese di produrre "When Forever Comes Crashing" dei Converge e lo accontentai. Così, quando ho iniziato a pensare al nuovo disco, con tutte le cose che avevo da fare, ho pensato a lui per la produzione...". Rilasciato a metà agosto, il disco è dignitoso ma sicuramente lontano dalle vette del passato. Violenza e rabbia sono sempre della partita, ma vengono filtrate da partiture ormai stanche e risapute, quando non addirittura obliterate da un mood dimesso e desolato, come nel caso delle ballate (!) di “Remember To Forget” e “This Is You”, quest’ultima definite da Steve come un incrocio tra Nick Cave e i Nirvana
"In questo disco - aggiunge Steve - ho raccolto le sofferenze e i trionfi degli ultimi tre anni". E, in questa esposizione ora impietosa, ora venata da una rassegnazione indomabile, il disco era partito dalla furia geometrica di “Expectations Exceed Reality”, che qualche sommovimento dell’anima pure riesce a causarlo, grazie alla sua chiara discendenza Sadness Will Prevail. Ma è un caso isolato, perché tra spirali di odio e staffilate grind-noise (“Death Curse”), un mid-tempo che lentamente guadagna di intensità (la title track, definita "un epitaffio per la libertà"), una “Wheelin’” che s’accende di ardore punk, la sferzante ed epica “Slave To Serenity” e una “The Devil’s Blood” dal backgroung hard-rock e sludge, l’opera (probabilmente, la meno riuscita di una carriera ormai ventennale) si spegne lentamente senza lasciare molte tracce di sé.

Coadiuvato dal bassista Sean Conkling e dal batterista Jeff Lohrber, con Marc Ablasou a dare giusto qualche tocco di elettronica in un paio di brani, nel 2014 Austin - che nel frattempo si è reimpossessato della cabina di regia - dà alle stampe Animal Mother (15 brani; 49:23). Rispetto al disco precedente, il suono torna crudo e violento, e la stessa qualità media delle canzoni è decisamente migliorata. Certo, non è - come dirà un po' troppo entusiasticamente lo stesso leader - il miglior lavoro mai partorito dalla sua creatura, ma è quantomeno un ritorno alla furia e alla passione delle origini, da qualche parte tra Temple Of The Morning Star e In The Eyes Of God (la title track, all’inizio, parla chiaro, con le sue sinistre introspezioni miste a scariche noisecore/grind). Un disco complessivamente onesto, suonato con sincera passione, fatto di canzoni belle toste, ma privo di colpi decisivi. Si diceva, comunque, del ritorno in auge dell’heavyness e della violenza, una violenza, non lo si dimentichi, sempre controllata, “ragionata”, mai fine a se stessa. Nei quattordici capitoli del disco, questi Today Is The Day ci conducono, quindi, lungo progressioni in upbeat (“Sick Of Your Mouth”), si scaldano con lo sludge matematico di “Masada” e “Heathen” o con lo stoner vigoroso di “Godcrutch”, mentre Steve deforma la voce con l’high-pitch, aggredendoci con sferzanti scansioni Black Sabbath, oppure proietta le sue truci visioni verso dimensioni spacedeliche (“The Last Strand”). Un bel sentire, per carità, soprattutto quando il confronto è con i Melvins di “Zodiac”, la cui cover chiude la versione in vinile dell'opera. In questo mucchio selvaggio, però, le ballate acustiche di “Outlaw” (verso la fine del disco, se ne ascolta anche la variante truculenta) e “Bloodwood” ci stanno bene come i cavoli a merenda.

Epilogo

Mai scesi a compromessi, lontani dal music-business, i Today Is The Day hanno contribuito ad elevare la musica pesante al rango di forma d'arte "totale", influenzando miriadi di band (Converge, Knut, Mastodon, Cave In, Dillinger Escape Plan, Lamb Of God, etc.) spesso e volentieri osannate dagli appassionati senza la giusta dose di riconoscenza che pur si deve ai padri. Tra le testimonianze più alte della potenza espressiva dell'heavy-sound, la band di Steve Austin continua imperterrita a scavare senza limiti nel terrore e nella frustrazione che spolpano, subdolamente, la carne viva dell'animo umano.

(01/09/2007 - 25/11/2014)

L'autore desidera dedicare questo scritto a Mario Subiaco e Stefano Villa: vi si riconosceranno...

Note:

1) La ristampa in cd del 2005 aggiunge la bonus track “Execution Style” (altro complesso mix di cuore e cervello), già pubblicata su Dope-Guns-'N-Fucking In The Streets: vol. 10 (1995), uno split condiviso con Steel Pole Bath Tub, Chrome Cranks e Brainiac.

2) L’edizione giapponese presenta due bonus tracks: “You Gotta Give A Man A Mile” (sorta di musica tradizionale giapponese, via via sempre più rapsodica) e “The Good Life".

3) Altri side-projects cui Steve ha collaborato sono i KGB – con Rob Fusco alla voce, Chris Debari al basso e Jonah alla batteria – e i Cyclops – con i batteristi Dave Witte e Brann  Dailor e Aaron King al basso. Di entrambe le band esiste solo materiale inedito.

Today Is The Day

Discografia

Ep, 7", 10", live, split:
How To Win Friends And Influence People (autoprodotto, 1992)
I Bent Scared (Amphetamine Reptile, 1993)
Clusterfuck '94 (Amphetamine Reptile, 1994 - tour split con Guzzard e Chokebore)
Dope-Guns-'N-Fucking In The Streets: Volume 10 (Amphetamine Reptile Records, 1994) - Split 7" with Steel Pole Bath Tub and Brainiac
In These Black Days: Volume 3 (Hydra Head, 1997) - Split 7" with Coalesce
Live ‘Till You Die (Relapse Records, 2000 - live)
Zodiac Dreaming (Trash Art Records, 2001 - split con 16)
Descent (This Dark Reign Recordings, 2001 - split con Metatron)
Temple Of The Morning Star Tour (Blue Blood Records, 2002 - live)
CD:
Supernova (Amphetamine Reptile, 1993) 7.5
Willpower (Amphetamine Reptile, 1994)8
Today Is The Day (Amphetamine Reptile, 1996) 7.5
Temple Of The Morning Star (Relapse, 1997) 8
In The Eyes Of God (Relapse, 1999) 7
Sadness Will Prevail (Relapse, 2002)8.5
Kiss The Pig (Relapse, 2004)6
Axis Of Eden (Supernova, 2007) 7
Pain Is A Warning (Black Market Activities, 2011) 5,5
Animal Mother (Southern Lord, 2014)6
DVD:
Recollection: Relapse Video Collection (Relapse, 2003) - include "Pinnacle"
Dope, Guns And Fucking Up Your Video Deck, Vol. 1-3 1990-1994 (Amphetamine Reptile, 2004) - include "6 Dementia Satyr" e "Realization"
Relapse Records Contamination Fest 2003 (Relapse, 2004) - include varie esibizioni live della band
Recollection 2: Relapse Video Collection (Relapse, 2004) - include "The Descent"
Recollection 3: Relapse Video Collection (Relapse, 2005) - include "Mother's Ruin"
Willpower Live (Supernova, 2006)
Today Is The Day Live (Supernova, 2006)
Pietra miliare
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