Con “Animal Mother”, Steve si riappropria in tutto e per tutto della sua creatura, laddove per “Pain Is Warning” (non a caso il disco peggiore della sua storia, almeno fino a questo momento) si era affidato al comunque quotatissimo Kurt Ballou. Ma il fatto è che i Today Is The Day sono una questione privata, troppo privata. Certo, durante gli anni, Steve si è circondato di tantissimi musicisti (a questo giro, sono della partita il bassista Sean Conkling e il batterista Jeff Lohrber, con Marc Ablasou a dare giusto qualche tocco di elettronica in un paio di brani), ma il pallino del gioco è sempre stato nelle sue mani. Questo disco lo ha costruito con cura e, prima che arrivasse nei negozi, Steve si è spinto addirittura a sostenere che si tratta della sua opera migliore. Massimo rispetto, ma su questo non posso convenire. Assolutamente. Sono d’accordo, invece, quando si dice che si tratta di un ritorno all’energia e alla violenza di dischi quali “Temple Of The Morning Star” e “In The Eyes Of God” (la title track, all’inizio, parla chiaro, con le sue sinistre introspezioni miste a scariche noisecore/grind), ma, suvvia!, le vette di quelle opere restano lontane.
Per cui, si dica anche, senza mezzi termini, che “Anima Mother” è un disco onesto, suonato con sincera passione, fatto di canzoni belle toste, ma è soprattutto quello che un fan si aspetta per ricaricare le batterie dopo la delusione del disco precedente. Solo che, poi, quelle batterie si riscaricano e, allora, per evitare di fare avanti e indietro, si finisce sempre per riandare con la mente e con il cuore ai bei tempi andati… Si diceva, comunque, del ritorno in auge dell’heavyness e della violenza, una violenza, non lo si dimentichi, sempre controllata, “ragionata”, mai fine a se stessa. Nei quattordici capitoli del disco, questi Today Is The Day ci conducono, quindi, lungo progressioni in upbeat (“Sick Of Your Mouth”), si scaldano con lo sludge matematico di “Masada” e “Heathen” o con lo stoner vigoroso di “Godcrutch”, mentre Steve deforma la voce con l’high-pitch, aggredendoci con sferzanti scansioni Black Sabbath, oppure proietta le sue truci visioni verso dimensioni spacedeliche (“The Last Strand”).
Un bel sentire, per carità, soprattutto quando il confronto è con i Melvins di “Zodiac”, la cui cover chiude la versione in vinile dell'opera. Poi, però, ti accorgi che in questo mucchio selvaggio le ballate acustiche di “Outlaw” (verso la fine del disco, se ne ascolta anche la variante truculenta) e “Bloodwood” ci stanno bene come i cavoli a merenda. E, allora, o ci si accontenta oppure si dia pure inizio al conto alla rovescia per il prossimo disco.
(26/11/2014)