E' uno scazzo divertito, la trentatreesima uscita a nome Melvins – centododicesima, se si contano anche i singoli, gli Ep, le compilation e via discorrendo. E senza contare i progetti paralleli. Soltanto a scriverli questi numeri, verrebbero in mente inopportuni parallelismi tra la band di Buzz Osborne e i Sonic Youth, i Residents o persino Frank Zappa. Si tratterebbe tuttavia solo di similitudini quantitative più che qualitative. Se infatti, aprendo la pagina italiana di Wikipedia a loro dedicata, ad accoglierci c'è un'altisonante dichiarazione di Kurt Cobain nella quale si sostiene che i Melvins siano "il passato, il presente e il futuro della musica rock", in altri contesti, la band di Seattle non farebbe un disco degno della sufficienza dal lontano 1996. Abbiamo fatto già noi il calcolo per voi: sono diciassette insufficienze su diciassette uscite. Dall'epocale “Stoner Witch”, per intenderci.
Dove sta la verità? Come sempre, nel mezzo. Proprio come quando si parla dei Sonic Youth, dei Residents e perfino di Frank Zappa. Il trio composto dal suddetto Buzz, Dale Crover e dal bassista dei Mr. Bungle Trevor Dunn (al posto di Jared Warren e Coady Willis) registra qui il loro voler ostentare uno spirito giovanilistico a prescindere. Cambiano per finta il loro nome in The Melvins Lite, Dio solo sa perché, e ci danno dentro tra groove hard-rock, improvvisate jazzy e sludge metal ante litteram. Ci buttano in mezzo una cover pazzesca di Sir Paul McCartney con i Wings (“Let Me Roll It”), una traccia scritta ed eseguita durante il tour con gli Unsane (“A Growing Disgust”), sperimentazioni rock varie ed eventuali (che vanno dai novanta secondi tutti con gli archi di “Inner Ear Rupture” ai quasi nove minuti di “Tommy Goes Berserk”) e campionamenti ameni, voci robotiche e persino alcuni fiati qui e lì. Tutto dichiaratamente, ma neanche tanto, sotto l'influenza dell'amicone di sempre, Mike Patton.
L'idea conclusiva è quella di un disco di passaggio. Di un mezzo side-project nel quale, dopo essere stati presi a modello da bravissimi discepoli (parliamo di Fantomas & C., ovviamente), i maestri ricambiano la cortesia, ma senza quelle capacità in grado di far cambiare faccia a Mike Patton ogni cinque dieci secondi, come se a guidare il rock monolitico dei Melvins ci fosse un cantante death metal di ritorno da una clinica psichiatrica. Con Buzz Osborne la scala della voce non riesce mai passare dall'umano all'ultraterreno, fermandosi (come sempre) al massimo a Glenn Danzig dei Misfits o a Dickie Peterson dei Blue Cheer. Così l'idea truce e sanguinolenta si ferma spesso ai soli titoli. “Freak Puke” avrebbe avuto bisogno di ben altre aperture, invenzioni e ricchezze di arrangiamenti. Nel suo viaggio da “Inner Ear Repture” a “Tommy Goes Berserk”, lungo “A Growling Disgus”, “Worm For Waltz” e “Holy Barbarians”, i Melvins si ripetono, scopiazzano molto e incantano poco. Finisce il disco, vorremmo essere esausti e invece, tutt'al più, siamo divertiti.
Il titolo del primo brano, un omaggio tutto loro ai Beatles psichedelici, si potrebbe tradurre con un “Mr. Fregatura”: la conclusione per questa recensione servita su un piatto d'argento. Ma noi a Buzz gli vogliamo bene da sempre e crediamo che la cosa sia reciproca. Quindi vogliamo credere che “Freak Puke” sia solo uno scazzo divertito.
24/11/2012