La Tzadik Records, label “indipendentissima” di base a New York è la summa dell’avanguardia e della sperimentazione, condite con accenni e accenti di disparate musiche dal mondo. Oltre 400 sono gli album ad oggi prodotti e il klezmer interseca il free-jazz, così come il punk cozza contro l’elettronica radicale e il dub biascica verso “forme libere” di zappiana memoria.
Ed allora gli artisti “di casa”: Derek Bailey, Otomo Yoshihide, Tim Sparks, Keiji Haino, Merzbow, Time of Orchids, John Zorn (il gran cerimoniere), Wadada Leo Smith, Noah Creshevsky, Marc Ribot, Ikue Mori e ovviamente il nostro Bill Frisell, indubbiamente tra i più versatili e poliedrici chitarristi della scena avant-jazz dagli anni 80 ad oggi. Nel suo registro si ode il post-bop lirico e plastico del suo maestro Jim Hall, ma anche tutte le distorsioni soniche di Jimi Hendrix.
Caratterizzato da una produzione ricchissima e una ancor più vasta sequela di collaborazioni (tipico atteggiamento degli artisti di casa Tzadik) Frisell nel 1993 dà alla luce un album solista meraviglioso quale “Have A Little Farth”, dove il chitarrista di Baltimora rilegge in maniera enciclopedica “l’American Music”, sciorinando Aaron Copland, stravolgendo Charles Ives, imbarbarendo John Hiatt, velocizzando Bob Dylan, sino a Sonny Rollins e Muddy Waters, per lunghi tratti assolutamente non riconoscibili.
Di lì a poco formerà il suo fantastico quartetto con il batterista Joey Baron, il contrabbassista Kermit Driscoll e il violoncellista Hank Roberts con l’aggiunta, talvolta, dello stellare trio d’ance composto da Jiulius Hemphill, Billy Drewes e Doug Wieselman. Dulcis in fundo l’apporto ormai sempre più costante di Arto Lindsay, con la sua chitarra ricercatamente astratta e improvvisata.
E allora, ecco “Silent Comedy”, registrato a New York durante il Natale del 2012. Un disco che nasce al termine di un anno di tournée in duo insieme al suo stretto sodale di improvvisate alchimie, Tim Berne. Il quale ha consigliato al nostro di riutilizzare “vecchi arnesi” del suono che si sentono davvero tutti ascoltando d’un fiato questo nuovo lavoro; il distorsore Rat, il riverbero Alesis, il 16 Second Digital Delay, appartenenti agli anni 80, periodo in cui Frisell accelerò il timbro delle sue innovazioni.
E allora l’iniziale "Bagattelle", con una chitarra lenta, catatonica, che continua lungo i tre minuti e 12 secondi della durata del pezzo, a scandire il respiro di chi l’ascolta. A seguire "John Goldfarb", caratterizzato da un loop infinito, come se gli Opal incontrassero i Pink Floyd di Syd Barrett.
Quindi "Silent Comedy", la no wave di New York rallentata, raccolta con una “distorsione dolce”che segna l’intero brano.
"Proof" e "The Road", ben rappresentano il suono Tzadik di Marc Ribot. Improvvisazione studiata al centimetro. Ogni diversivo, qualunque suono eterodosso fa comunque parte di un unicum musicale. Sonic Youth meets Morton Feldmann. "Big Fish" apre uno squarcio sulle frequentazioni del nostro con Bill Laswell. Ritmi “dubbati” allungati e velocizzati da una decisa tessitura jazz-rock.
Chiude "Lullaby", che ci riporta la brano d’apertura. Un pezzo riflessivo, sinuoso, talvolta interrotto da spigolature elettriche.
Un grande album. Significativo.
09/11/2013