Registrato a New York, ma profondamente calato nelle dimensioni più misteriose della tradizione letteraria russa, “Razinrimilev” segna il rinnovarsi della collaborazione tra i musicisti russi Leonid Fedorov (voce, chitarra) e Vladimir Volkov (contrabbasso) e gli americani Marc Ribot (chitarra), John Medeski (piano) e Ches Smith (batteria).
“Razinrimilev” è titolo che rimanda direttamente all’opera del poeta futurista russo Velimir Khlebnikov, il cui omonimo testo trasferiva in versi, fatti tutti di palindromi, le gesta del ribelle cosacco Sten’ka Razin, nel XVII secolo a capo di una sanguinosa ribellione contro la nobiltà e lo Zar. Fonte di ispirazione sia per le liriche di Fedorov che per la musica del quintetto, il testo di Khlebnikov è un esempio lampante del suo “zaum”, linguaggio “trans-razionale” basato su innumerevoli neologismi. Allo stesso modo, la musica di questo quintetto (già all’opera, tre anni fa, in “Devushki Poiut”) vuole porsi come progetto di sintesi delle tendenze avanguardiste della popular music russa e di quella occidentale.
In tal senso, quindi, “Razinrimilev” è un magnete che attira a sé echi di jazz, folk balcanico, musica tradizionale russa e rade ombre di elettricità “rock”, come evidenzia, da subito, “Utro”, i fraseggi briosi del cui pianoforte costituiscono lo sfondo ora melodico, ora gioiosamente amelodico contro il quale si muovono le percussioni arrembanti, i duetti delle due chitarre e i bordoni del violoncello. Sofferta ed enfatica, la marcia di “Boi” sfocia in una bolgia controllata di archi austeri ma frastornanti e schianti percussivi. L’eccellente livello di compattezza esecutiva è oltremodo sottolineato da composizioni ricche di sfumature, come la desolata serenata di “Trizna”, la frenetica e irrefrenabile danza di “Plaska”, sciolta in un groviglio di corde che introducono il pathos chiaroscurale e “metropolitano” di “Son”, a sua volta cullato da docili arpeggi e puntellata dal contrabbasso.
Alla fine, anche la più energica e (hard-)rockeggiante “Delez Dobichy” nasconde squarci di pura dissacrazione vocale e sonora che, nel caso specifico, potrebbero far pensare a una versione costipata dei Residents. Al lato più sperimentale appartiene, invece, “Pitka”, i cui brutalismi free-form e gli squassi concretisti sono sparsi come cocci di vetri rotti lungo tutta la stentorea e grottesca dissertazione di Fedorov.
Un disco che merita più di un paio di ascolti "distratti".
24/12/2010