Quella di Pan•American è una storia un po' strana. Quando, nell'estate del 1997, il chitarrista e cantante dei Labradford, Mark Nelson, decise di mettersi in proprio, si sarebbe potuto pensare a un progetto estemporaneo, da porre in disparte quando i Labradford sarebbero tornati a incidere un nuovo disco. Alla luce dell'ormai più che decennale carriera solista di Nelson, verrebbe da dire che ci si era sbagliati di grosso: cinque dischi, il cui sound si stacca in modo deciso dalla band madre, mettendone a fuoco, paradossalmente, una continuità di intenti.
Ma, in definitiva, come suonano i dischi di Pan•American? Semplificando, si potrebbe dire che si rifanno a stilemi ambient; ma è negli ingredienti, nella miscela, nel risultato finale che Pan•American si dirige verso un suono piuttosto originale, prodotto e conseguenza di diverse influenze che varieranno da disco a disco. Indubbi capisaldi dell'approccio di Nelson sono la kosmiche muzik tedesca targata anni Settanta (si pensi a Schulze e ai Tangerine Dream), l'ambient – con ovviamente Eno quale maestro indiscusso – la scuola minimalista e inoltre, quale elemento di maggior novità, la commistione di dub ed elettronica minimale, che tanto successo ebbe negli anni Novanta (si pensi ad Aphex Twin).
L'opera prima, Pan•American, uscita nel 1998 sotto l'egida della Kranky, presenta una struttura fortemente influenzata dai lavori dub-elettronici che riscuotevano proprio in quel periodo grande successo. L'affermarsi di un sound sinuoso, lisergico si fa ben sentire nel self-titled. Nelle nove tracce che compongono l'album, per una durata totale di circa una cinquantina di minuti, si respira un'aria rarefatta, povera d'ossigeno. Nelson tratteggia paesaggi senza soluzione di continuità, che si disperdono oltre una sottile coltre di nebbia che rende il tutto fluttuante di fronte ai nostri occhi. E poco importa che timidi tepori dubsvelino qualche raggio di sole (“Lent”), perché da quella cortina di droni pare difficile districarsi.
Gelide brezze analogiche, a colpi di synth, ricoprono di ghiaccio la terra.
Il mondo dipinto da Nelson nella sua opera prima pare un permafrost senza fine. E chi si illude di ritrovare un po' di sole (in “Lake Supplies” o nei funambolismi di ”Tract”) si rassegni al roboante finale: “Part One” è un muro di droni neri come la pece, dark-ambient torbida che si spegne sotto urla lontane, degne dei migliori Pan Sonic.
Il disco vive di ottimi momenti, risultando a tratti acerbo, ma facendo intravedere ampi margini di miglioramento. L'evoluzione dal post-rock elettronico dei Labradford all'ambient al tempo deldub e dell'elettronica minimale ha avuto inizio.
A due anni di distanza, quasi in contemporanea con una nuova uscita a nome Labradford, in parte influenzata dalla sua esperienza solista (“E Luxo So”), Mark Nelson si ridedica al suo progetto sfornando un disco bellissimo: 360 Business/360 Bypass. Le sei tracce che compongono l'ora di musica del lavoro rappresentano il perfezionamento delle intuizioni presenti nell'opera prima, adesso sorrette da trovate che hanno del geniale. 360 Business/360 Bypass è quello che potremmo definire un disco totale: addolcendo le peraltro lievi asperità del disco d'esordio, Nelson riesce a trovare un amalgama pressoché perfetto tra tensione dub, accennati spasmi jazz, solennità ambientale e tocchi elettronici.
“Steel Stars”, di vago sapore Aphex Twin, parte con un loop astrale di limpida bellezza, undici minuti nei quali si respira il profumo di melodie pulite, trasparenti, di immagini che si specchiano nelle gelide acque dei laghi montani. Ma quel loop che emanava tanto chiarore inizia progressivamente a rallentarsi, producendo una tensione cinematica senza pari, fino a scomparire nel finale. “Code”, che a tutti gli effetti può considerarsi la continuazione della prima traccia, fotografa il lato oscuro di “Steel Stars”: incedere pesante, suono denso e cupo e un canto (si registrino qui Alan Sparhawk e Mimi Parker dei Low come special guests) che proietta il suono verso lidi prossimi al trip-hop. E se “Double Rail” aggiorna l'ambient al tempo di jazz in dodici minuti claustrofobici, eppure illuminati da fasci di luce paralleli che paiono scorrere da orecchio a orecchio come lame affilate, l'universo sonoro di “Coastal” immerge in un vuoto cosmico, fatto di piccoli timbri, loop pacati ma ossessivi e fittissime trame soniche, che introducono a “K Luminate”, traccia che si sorregge su solidissimi pattern che prima paiono slegati per poi assestarsi su un beat uniforme con l'evolversi della melodia.
Se esistesse la possibilità di riassumere questo disco in una sola traccia, ecco che la scelta ricadrebbe inevitabilmente sulla conclusiva “Both Ends Fixed”. Undici minuti nei quali Nelson teorizza un vuoto caldo e nel contempo gelido le cui venature jazz tentano di riempire non arrivando mai tuttavia a colmarlo, un vuoto che si scopre universale. Distensione, apertura, conciliazione, dilatazione. Ecco, in quattro parole, descritta l'essenza Pan•American: il vuoto a 360 gradi.
Proprio mentre nel 2001, con “Fixed: Content”, si conclude la parabola artistica dei Labradford, Pan•American, oltre a diventare il principale impegno di Nelson, tende a cercare un ricongiungimento con il percorso della band, diventandone emanazione concettuale e sostanziale prosecuzione artistica.
Le prime avvisaglie della torsione di Nelson su terreni già praticati, ma da sviluppare con il consueto acume, possono riscontrarsi nel successivo The River Made No Sound, che fin dal brano d’apertura, “Plains”, denota un’impostazione maggiormente compassata e dai tratti ambientali più marcati. Non manca, anche qui, il ritmo dub dei primi lavori, sordo e costante nelle due lunghe “Settled” e “Red Line”, ma in prevalenza smussato, reso quasi inerte da dilatazioni visionare e descrittive, costellato da tutta una serie di sonorità processate, che rendono pulsanti le tante sfaccettature del lavoro. La densa coltre di nebbia che avvolgeva le prime composizioni di Pan•American comincia qui a diradarsi, lasciando spazio a paesaggi in apparenza più quieti, la cui articolazione in mille rivoli comincia a delineare i tratti di un “notturno metropolitano” nel quale tutto scorre, convogliando verso un unico fluire insonni sciabordii elettronici e note acustiche arrotondate, come quelle che dominano il finale di “Raised Well”.
Benché non ancora pienamente definito, The River Made No Sound mostra i primi segni di evoluzione del dub ambientale di Nelson verso una musica cinematica, che viaggia sui due binari paralleli dell’uniformità di fondo e della costante inserzione di elementi eterogenei, a creare stratificazioni sonore di sfumata tensione e quiete impalpabile.
Diretto e più compiuto sviluppo di The River Made No Sound è il successivo Quiet City (2004), che segna un marcato ritorno all'uso, accanto ai consueti droni ambientali, di strumentazioni tradizionali, grazie anche alla collaborazione di musicisti di diversa estrazione come Charles Kim (Boxhead Ensemble), Tim Mulvenna (Vandermark 5) e David Max Crawford (Wilco): il risultato è un equilibrato mix tra suonato e digitale, nel quale il pallido tepore, che Mark Nelson ha sempre cercato di rendere in musica, è reso vivido da una più spiccata componente umana, qui arricchita anche dalla sua stessa voce, sussurrata, sommessa o appena accennata, che impreziosisce le composizioni e richiama già al primo ascolto le sinistre emozioni e le affascinanti suggestioni del magnifico album omonimo dei Labradford.
Le otto tracce dell'album (per una durata totale di circa quaranta cinque minuti) costituiscono un flusso sonoro lento e nel complesso omogeneo, coerente con la nuova vena compositiva di Nelson, palesata già dall'iniziale "Before", che cattura l'ascolto con gli elementi essenziali dell'attuale suono Pan•American, ovvero chitarra e voce sospesi su un tappeto liquido di droni che qui non rappresentano più l'elemento portante delle composizioni, ma solo il loro opaco filo conduttore.
L'effettivo cambiamento di sensibilità risulta poi evidente nei brani resi più completi e articolati dalla presenza di percussioni e fiati, ad arricchire le chitarre riverberate o filtrate dall'elettronica, come nel caso della visionaria "Het Volk" e di "Skylight", brano dalle frequenze e dai toni insolitamente elevati. "Wing" è invece l'unico brano che si colloca in netta antitesi con quanto detto sin qui: nove minuti di sibilo elettronico monocorde e persistente, sul quale solo a tratti sembrano stratificarsi elementi più strutturati, destinati però presto a scomparire in un suono iterativo, quasi privo di movimenti.
L'essenza del lavoro rimane però pur sempre ambientale e di spiccata ispirazione cinematografica, composta com'è in prevalenza da episodi dilatati e ipnotici, descrittivi di anonimi spazi in penombra o asettici interni - come quelli rappresentati nelle versioni video presenti nell’allegata versione Dvd dell’album - di fronte ai quali porsi in solitudine meditativa. La differenza fondamentale rispetto agli album precedenti è allora da ricercarsi, più ancora che nella strumentazione, nell'approccio, ora più caldo e avvolgente, ma pur sempre incline a emozioni contenute e a una sottile malinconia, nella quale, in fondo, sembra confortevole rifugiarsi una volta che le luci diventano fioche e i rumori della città vanno pian piano acquietandosi.
Abbandonata ormai totalmente l’impostazione dub dei primi album in favore delle splendide derive ambient-acustiche di Quiet City, Nelson muta nuovamente rotta, spiazzando non poco le aspettative di quanti si erano lasciati rapire dalla fioca luce da crepuscolo metropolitano del lavoro precedente. Pubblicato nel 2006 dalla piccola etichetta elettronica austriaca Mosz, For Waiting, For Chasing ripropone l'intreccio tra parti elettroniche e suonate, solo che qui la manipolazione sonora avviene in una prevalente chiave dissonante, che attraversa sette composizioni piuttosto ostiche e dalle strutture complesse, spesso costruite attraverso la graduale stratificazione di drone, rielaborazioni acustiche, ronzii elettrici ed estemporanei field recording (tra i quali quelli del battito cardiaco prenatale del figlio di Nelson, presente in ognuna delle tracce), trasferiti in un contesto nel quale finisce per svanire la stessa distinzione tra note, ritmi, suoni e rumori.
I contorni della musica di Pan•American continuano a essere indefiniti e sfuggenti, il suo incedere lento ma costante, sia quando si innalza a vette di scarna astrattezza (come nel caso di "From Here" e del breve interludio di solo beat e drone in lontananza "Still Swimming"), sia quando recupera alla lontana le fascinazioni di 360 Business/360 Bypass, trasformandole, in "Dr. Christian", in mero accompagnamento a suoni elettronici di sporca rarefazione. Proprio in questo risiede la principale differenza rispetto a Quiet City, poiché mentre in quell'album sonorità compassate ed eteree creavano una profonda e pensosa immobilità post-industriale, qui danno forma a ombre inquietanti, a paesaggi oscuri e angusti, diffusamente accennati e culminanti nella claustrofobica e spettrale "The Penguin Speaks". È invece la conclusiva "Amulls" a segnalarsi quale unica composizione lieve e di più ampio respiro, grazie al contributo delle dolci note stillate da un pianoforte, che, intersecandosi con un placido fondale, conferiscono al brano toccanti vesti da colonna sonora, certamente all'altezza di alcuni dei più emozionanti episodi del lavoro precedente.
Nonostante la consueta attenzione di Nelson per i particolari, For Waiting, For Chasing risulta un lavoro un po' troppo cervellotico e a tratti criptico, collocandosi su un diverso piano emotivo rispetto al suo predecessore: laddove quello colpiva dritto al cuore, ispirando un caldo abbandono al pacifico fluire dei pensieri e delle emozioni, For Waiting, For Chasing tende invece a insinuarsi lentamente tra i meandri delle terminazioni nervose, distillando note e rumori, la cui mirabile sottigliezza richiede maggiore gradualità e un certo sforzo di concentrazione per essere assaporata. Forse per questo l'intenso ed etereo romanticismo di "Amulls" brilla, quasi per antitesi, come una gemma inattesa in un lavoro che, al di là di un aspetto solo superficialmente freddo e complesso, non fa altro che segnare l'ulteriore passo del suo autore nell’ininterrotta ricerca di varie e mai banali contaminazioni elettronico-ambientali che ha sempre costituito l’essenza della musica di Pan American.
Trascorsi tre anni, Nelson ritorna alla casa-madre Kranky e a una dimensione ambient-acustica non così distante da quella di Quiet City con il suo sesto album solista White Bird Release. Non si tratta però di un ritorno sui propri passi, quanto invece di un'evoluzione nel segno della continuità: l'album, dalla struttura al solito assai ricercata, i muove con le abituali movenze smussate, alternando fluttuanti passaggi da soundtrack a sinuose timbriche jazzy, che in un paio di passaggi rispolverano primigenie incursioni dub. A completare l'ampia rassegna di cadenze e modulazioni che costella l'universo sonoro di Nelson, si sussegue senza sosta lungo tutto il corso dell'album un insieme omogeneo e al tempo stesso cangiante di ritmiche reali, esili distorsioni elettriche e suoni acustici di basso e vibrafono.
Incrociando variabili la cui natura ricorda tanto la sua impronta consolidata quanto i paesaggi sonori più recenti, la formula del musicista americano si sviluppa in un moto placido e uniforme, increspato da beat soffusi e da ampie scie astrali, oscillante tra drone, fascinazioni acustiche e placide reminiscenze dub, tutte compendiate in una materia musicale fluida e omogenea.
Con White Bird Release, Nelson prosegue la sua parabola di trasformazione fornendo un'ulteriore chiave di lettura di una produzione solista che offre una nuova, sigificativa prova di pacifica ed elegante compiutezza.
L'ambient fluido e sinuoso delle origini è infatti arrivato, di album in album, ad assumere tutta una serie di increspature, che in Cloud Room, Glass Room (2013) prendono la forma di pennellate di tempera dai colori vivaci e brillanti, impresse su un acquarello livido e dissolto.
Già dal titolo, la devozione alle forme più tradizionali del genere è rispettata nuovamente, seppur con una nuova accezione: la stanza di vetro, ambiente intimo e delicato, suona quasi come una riduzione ai minimi termini dell'aeroporto da cui tutto nacque. Ma quella nuvola che aleggia nell'aria riesce a segnare al contempo uno strappo con il mondo di Brian Eno, in favore di un brulicare di sussurri ritmici e microsuoni sospesi.
La partenza suona dunque come un decollo progressivo in piena regola, con tanto di indugio del caso: “The Glass Room” è un flusso sintetico à-la-Stars Of The Lid che scorre dapprima limpido, spinto da un ritmo dub sublunare, prima di iniziare a essere circondato da nebulose in stato gassoso, pronte a solidificarsi in gracili stalattiti nel finale. Dai rivoli più fumosi di questo manifesto iniziale prendono le misure le nubi di vapore che avvolgono “Fifth Avenue 1960”, limate da crepitii elettro-acustici in riverbero ancor più rarefatti (Loscil docet), mentre il torpore di “Relays” trasforma le stesse in forma liquida nascondendo i primi sintomi di nostalgia nelle distorsioni chitarristiche del fondale.
Il buio cosmico di “Laurel South” segna l'unico inchino di Nelson alle sue prime esplorazioni ambientali, mentre le sinistre scintille dub di “Glass Room At The Airport” - trait d'union concettuale ma non sonoro con Eno – e la pioggerella fra bagliori luminosi di “Project For An Apartment Building” arrivano a portare i suoni della stanza nella terra natia dell'ambient music e a progettare un'espansione della stanza di partenza. Chiude, laconico, il crescendo dilatato e mansueto di “Virginia Waveform”, le cui distorsioni passatiste vengono incorniciate nell'ennesimo ritmo livido.
Un disco che tende a soffrire forse dal punto di vista emotivo della sua perfezione formale, che lo rende almeno a tratti troppo freddo e calcolato. Si tratta, ciò nonostante, di una prova di coraggio notevole, nonché dell'ennesimo risultato di qualità per un musicista che dal 1998 non ha ancora subito una vera battuta d'arresto.
Chiusa almeno temporaneamente l'avventura, Mark Nelson richiama a sè l'ex-compagno d'avventure dei Labradford, Robert Donne, oltre al batterista Steven Hess, per varare il nuovo progetto Anjou. Il primo Anjou (2014) però non fa molto per distinguersi dalle ultime emanazioni dei Pan American.
Il secondo Epithymia (2017) alza la posta per tre piccoli colossi d'arte ambientale: "Culicinae", aperto da una staffetta di glitch, non riesce a superare lo stereotipo ritmico del minimalismo Terry Riley-iano. Lo sfacelo di scie intergalattiche che ne segue, in un apogeo Popol Vuh, implode in una semplice sonata romantica. La landa di brume che apre "An Empty Bank" ospita un distratto duetto di trombe, una militaresca, l’altra in sordina, da cui s’alzano bordate di fuoco, mentre in sottofondo il cosmo intona un inno alla trasformazione in corso. Il terzo, "Georgia", apre grandiosamente su dissonanze d’organo e distorsori elettronici sfreccianti alla velocità della luce. Il duello si fa fin troppo cervellotico quando poi attacca uno sciame di percussioni tribali ridotto a ticchettii. Tipica album Kranky senza sbavature ma anche senza sconvolgimento, che comunque sa intervallare acquerelli a incubi grazie a un folto, alchemico interplay tra i tre.
Nel 2019 ritorna il progetto Pan American con A Son (Kranky), album eclettico che trattiene vari spunti e spinte stilistiche e umorali. Il 2022 è l'anno di un'opera più omogenea, oltre che struggente ed emozionale. The Patience Fader (Kranky) è quieto come una meditazione, articolato come un pensiero ponderato, emozionato come qualcosa che non si provava da tempo, attento come un dialogo intimo tra persone che si amano. L’album si compone di tante istantanee tra neo-folk e slowcore che avvicinano lo stile di Nelson a quello di David Wingo, autore di diverse colonne sonore dei film di David Gordon Green. Lo stile chitarristico del musicista è vicino anche a Ben Chasny/Six Organs of Admittance e William Tyler, a ridisegnare con la chitarra elettrica clean, più che con l’acustica o la parlour, le geometrie di un American songwriting moderno che non necessita di parole. Tra la ricerca di una quiete estatica (“Swimming In A Western Hotel”, “The North Line”) e un lirismo struggente (“Outskirts, Dreamlit”) si insinuano echi di ambienti (“Corneil”, “Wooster, Ohio”) e suoni del mondo (“Baitshop”), crepe (“Memorizing, Memorizing”) o tracce di una narrazione epica (“Just A Story”) che lasciano la sensazione di un deja-vu (“Harmony Conversation”).
Contributi di Matteo Meda ("Cloud Room, Glass Room"), Michele Saran (Anjou) e Maria Teresa Soldani ("The Patient Fader")
PAN AMERICAN | ||
Pan•American(Kranky, 1998) | 6.5 | |
360 Business / 360 Bypass (Kranky, 2000) | 7.5 | |
The River Made No Sound (Kranky, 2002) | 7 | |
Quiet City (Kranky, 2004) | 7,5 | |
For Waiting, For Chasing (Mosz, 2006) | 6 | |
White Bird Release (Kranky, 2009) | 7 | |
Cloud Room, Glass Room (Kranky, 2013) | 7 | |
A Son (Kranky, 2019) | 6,5 | |
The Patience Fader (Kranky, 2022) | 7 | |
ANJOU | ||
Anjou (Kranky, 2014) | 5 | |
Epithymia (Kranky, 2017) | 6 |
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