Crescent

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Anime alla deriva

I Crescent sono anima alla deriva dell'Occidente industrializzato. La loro voce sommessa e scostante, calda e distante è la materializzazione acustica del grigiore della britannica Bristol. Una sperimentazione costantemente protesa alla codifica di un linguaggio che riuscisse a sintetizzare i retaggi del “vecchio rock” con le nuove istanze delle varie musiche “post”

di Antonio Ciarletta

Senza eccessivi strombazzi né attese particolari, l’8 agosto Fat Cat ha licenziato Little Waves, nuovo album dei Crescent, band-cardine di quella Bristol alternativa che da metà anni Novanta balzò all’onore delle cronache per essere crogiolo di una delle scene musicali più eccitanti dell’epoca.
In sordina, dicevamo, come l’intera carriera di Matt Jones del resto, mai destinatario di un consenso critico che ne riconoscesse unanimemente il valore, o ne decretasse quantomeno il talento visionario.
Eppure proprio Little Waves, forse il lavoro meno audace dei Crescent, benché ampiamente sopra la sufficienza, anzi buono diremmo, restituisce la cifra di un suono talmente personale da costituire uno dei pochi sguardi brillantemente focalizzati sull’evolvere della modernità. Chi segue la crescita del gruppo avrà certamente cognizione dell’ansia di ricerca del multistrumentista bristoliano. Di una sperimentazione costantemente protesa alla codifica di un linguaggio che riuscisse a sintetizzare i retaggi del “vecchio rock” con le nuove istanze delle varie musiche “post”.
Hanno spesso brancolato nel buio, i Crescent, tuttavia ci pare non sia mai venuto loro meno il coraggio di osare, di misurarsi con le più disparate sorgenti sonore. Fattore importante, se consideriamo l’implosione coatta di molta della musica attuale, intrappolata in un’eterna transizione da un “post qualcosa“ verso un “chissà cosa”, che in sostanza significa revivalismo. Ecco, è proprio in questo senso che i detrattori del gruppo dovrebbero rivalutarne la proposta.

Accennavamo alla Bristol alternativa (al trip-hop), a quell’insieme di formazioni che riuscirono (non tutte in verità) a porsi come punto di raccordo tra diversi generi, ossia la musica ambientale, l’isolazionismo alla Talk Talk/Main/Seefeel, un’elettronica quasi sempre mid-tempo, lo shoegaze di Spacemen 3 e Loop soprattutto, e il kraut-rock. In un contesto che vedeva crescere artisti della caratura di Flying Saucer Attack, Third Eye Foundation, Amp, Movietone - includendo per affinità stilistiche anche gli Hood, sebbene di Leeds -  i Crescent, almeno nei loro album migliori, si dimostrarono tra più equilibrati nell’attuare tale sincretismo.

I Crescent muovono i primi passi a partire da metà anni 90, nel ’94 precisamente, quando Planet Punk uscì con i singoli “Lost” e “Sun”. L’ossatura della band è costituita dai fratelli Jones, Matt (la mente del progetto) già con Amp e Movietone, e Sam (chitarre) che aveva collaborato con i Flying Saucer Attack.
La prima uscita discografica di un certo spessore è l’Ep Crescent, altrimenti conosciuto come "The Sun Ep", del ‘96, da recuperare soprattutto per la chilometrica “Unit System”: quasi 14 paranoici minuti tra sincopi di batteria in lontananza, e visioni luminescenti in alternanza ad atmosfere da incubo.

Segue a stretto giro, appena qualche mese dopo, Now, Lp d’esordio sempre su Planet Punk, a tutt’oggi uno dei lavori migliori di Jones e compagni, ad affermare un non indifferente salto di qualità rispetto a premesse che li davano per semplici riciclatori di Spiritualized e shoegazer vari. Abulici, minimali, malinconici, dall’appeal fortemente lo-fi, i Crescent offrono un buon compromesso di melodie, spesso abortite, forma canzone spuria, rudi escursioni noise, seguite da collassi psichedelici e ipnotiche trance alla Sonic Youth. Le distorsioni suonano stilizzate, o meglio presurrizzate, come a tentare di librarsi in una latta di metallo. Non di rado, il melange assume l’aspetto di collage rumoristico da “buona la prima”. In alcuni frangenti pare d’essere proiettati in una dimensione parallela in cui gli Swell Maps incontrano Spacemen 3.
Attraversato da una tensione sottocutanea che raramente trova sfogo, Now s’avvicina a ciò che in quel periodo il resto dei bristoliani stava sperimentando, ma se ne discosta in quanto a intensità. Allo stato dell’arte i Crescent sono essenzialmente una rock band, acida quanto si vuole, ma capace di spingere sull’acceleratore, abile a dar vita a momenti meno concitati, dove emerge tutta la maestria di Jones nel gioco delle citazioni. Ed è proprio nella struttura intrinseca dei pezzi la carta vincente dei Crescent. Se “Sun”, ripresa dall’Ep d’esordio, pare un’outtake degli Spiritualized, viene allora da indicare “Supercostellation” come modello del Crescent-sound prossimo venturo, con quell’incedere claudicante ben supportato dal canto tenebrosamente subsonico di Jones. Ancora protagonista, il talentuoso multistrumentista bristoliano, nella bellissima “ Song”, a urlare rabbioso su di un caotico tappeto di distorsioni. Ma l’intero disco si mostra senz’altro personale nel suo essere disturbato, malato a tratti, reso ancor più nervoso da una produzione non certo accomodante.

Tre anni dopo, Electronic Sound Constructions vede Jones fare tutto da solo, ed è quel salto nel vuoto che a posteriori si dimostrerà, però, step di transizione importante nel pervenire alla caratterizzazione del Crescent-sound definitivo. Il disco gira a tratti, cercando, nel migliore dei casi, appigli in un isolazionismo spinto, ove vengono evocati fantasmi Dome ed Experimental Audio Research. Alla peggio, emerge una sorta di dilettantismo che rimanda a produzioni di elettronica homemade in auge all’epoca, ma oggi ancor di più. L’utilizzo di tape loop e scarti di rumore post-industriale conferiscono all’insieme una patina d’autismo irreversibile, in costruzioni che sembrano occultare più che svelare, che giocano nascondersi tra le ombre, le pieghe di suono e le pause improvvise. Come se il disco fosse stato concepito per essere ascoltato in assenza di gravità, ossia in quelle situazioni dove ogni esperienza sensoriale è frutto d’inerzia. Quasi che la percezione venisse indotta tramite un’osmosi forzosa con l’oggetto d’ascolto.
Il fluire cinematico che contraddistingue  “Quince Flowers” e, non ultima, “Abstract Forms” va a demarcare, invece, quei momenti di maggiore lucidità compositiva, in cui un abbozzo di forma-canzone prende il sopravvento sulla massa informe di frattaglie pseudo-avanguardistiche. Abbastanza fuori contesto la notevole “Philicorda Loops (Excerpt)” - senza alcun dubbio pezzo migliore del disco, nonché una delle vette assolute della sperimentazione di Jones - che si snoda in oltre quindici minuti di loop celestiali, vicina dell’ormai illustre linguaggio basinskiano, tra suoni sfasati e implosioni pressoché sistematiche.
Dicevamo dell’importanza di Electronic Sound Constructions nell’evoluzione del lessico dei Crescent. Qui Jones prova a confrontarsi con l’elettronica in modo deciso, a cimentarsi con suoni minimali, tangenti al silenzio. E quest’incomunicabilità quasi parossistica contraddistinguerà By The Roads And The Fields, anche se verrà veicolata da una grammatica alquanto diversa.

Prima, però, la pubblicazione su Roomtone di Collected Songs, raccolta di pezzi concepiti nel triennio 95-98, da preferire sicuramente a Electronic Sound Constructions in quanto a fruibilità, nonostante una mancanza di coerenza interna dovuta “all’assemblaggio a freddo”. Non scarti, o almeno la qualità complessiva non farebbe pensare ciò.
Ancora una volta l’album testimonia di un suono completamente ripiegato su se stesso, a tratti persino claustrofobico, come nell’ottima “Sleep Well”, o in “Unity”, dove un triste refrain pianistico sorregge il lamento monotono e desolato di Jones.
L’eterogeneità si rivela in definitiva carta vincente dell’operazione, laddove è possibile rintracciare i “vecchi” Crescent (quelli dell’esordio) in “Every Atom Of Your Blood”, o provare ad andare oltre, nel trip-hop alla Bowery Electric di “Star”. Filo conduttore a fornire un minimo di unitarietà è un certo gusto retrò/psichedelico, rintracciabile negli organetti doorsiani di “Shadow” e Light/Eyes.
Per il resto, “Collected Songs” offre una panoramica piuttosto vasta tanto sulle fonti d’ispirazione di Jones, quanto sui processi attraverso cui vengono trasformate, quindi ricontestualizzate nell’ottica di una musica situata a metà del guado tra pop e tentazioni para-avanguardistiche.

Il capolavoro sembra a portata di mano, e data 2003. Si chiama By The Roads And The Fields, ed è senza mezzi termini uno dei dischi-cardine di quest’inizio millennio, da qualunque punto di vista lo si voglia guardare. Anzi, a valutarlo in retrospettiva se ne coglie ancor meglio la portata, considerato, soprattutto, il momento di stanca che sta vivendo la scena musicale attuale. Come si diceva all’inizio, davvero uno dei pochi (ultimi?) album a viaggiare a braccetto con la modernità, a svelarne i virus e le idiosincrasie, a rendere vivido il senso di straniamento e di disagio, ossia le nevrosi relative a paesaggi urbani in mutamento, alla solitudine che regna nelle aree metropolitane. E Matt Jones ne narra dolorosamente le lacerazioni, ulteriormente isolato in posizione fetale, come a difendersi simulando una sorta di protezione materna, a cercare di riacquistare una verginità morale irrimediabilmente corrotta dal relazionarsi compromissorio con la società dello spettacolo. Un canto di dolore e rassegnazione che viene dall’interno, che fa pensare a una seduta di autoanalisi in cui il subconscio preme prepotentemente per gridare le violenze subite. Un disco alieno, ancora oggi, nonostante siano passati quattro anni dall’uscita.
I Crescent si trasformano in una specie d’orchestra chamber jazz, dove le varie componenti trovano sinergie perfette in un interplay “autistico” con la voce di Matt Jones, seguendone l’andamento volutamente monotono, e reagendo con marce funebri che presagiscono la caduta in un abisso di pece rovente. L’iniziale “Spring” esibisce una forma rotonda, pop, pur nella suo essere veicolo di prostrazione. Forse per invogliare all’ascolto, per permettere di varcare il guado ed entrare nel baratro. Perché i pezzi successivi risucchiano dentro come un'idrovora, avviluppano morbosamente, e si attaccano all’anima come carta moschicida. Perché quell’incedere acustico rimbomba nel cervello più di mille chitarre che stridono in contemporanea, e affresca sinistre atmosfere dub, benché di dub, tecnicamente, non ve ne sia. Così ”New Leaves” prosegue il funerale, con echi di tribalismo in lontananza, mentre “Straight Line” batte come una campana a morto, con strings impazzite in sottofondo, che vorrebbero realizzare free-jazz, ma emettono invece strimpellii acuti, fastidiosi nella loro indefinibile precarietà. Ancora caducità in “Mimosa”, dove suoni trovati, chitarre, fiati, organetti e strumenti autocostruiti(?) marciano al tempo di navi fantasma alla deriva.
Alla fine ti aspetteresti, se non una catarsi, almeno uno sfiato di luce, un fioco bagliore in lontananza, ma niente. “Structure And Form” cala il velo sul cadavere della modernità, lasciando spazio a una nuova stagione in cui la musica ricicla se stessa con troppa cognizione del passato e poca aderenza all’humus della contemporaneità.

Se i Joy Division fossero nati nel 2003 a Bristol, probabilmente avrebbero suonato in questo modo. Perché By The Roads And The Fields è uno di quei dischi capaci - insieme ad “A Promise” di Xiu Xiu, a “Drinking Songs” del “cugino” Matt Elliott, e a pochi altri - di chiudere il cerchio laddove l’ansia post-industriale di “Unknown Pleasures” l’aveva aperto, in parallelo con l’ondata di revivalismo new wave che, invece, ne banalizzerà il linguaggio.

Non dev’essere stato facile per Matt Jones rimettersi a pensare musica dopo un capolavoro della statura di By The Roads And The Fields. Gli anni trascorsi e il silenzio artistico in cui s’era trincerato non lasciavano presagire sorprese. Ma evidentemente sbagliavamo. Così, all’improvviso, in una calda giornata agostana, i Crescent ritornano con un nuovo lavoro, e hai quasi paura ad avvicinarti nel timore che la magia svanisca.
Fortunatamente, Little Waves si dimostra disco a cui vale la pena donare attenzione, perciò non badate troppo al voto finale (relativamente basso), di un recensore ancora abbacinato dall’eccitante desolazione di By The Roads And The Fields, per poter dare un giudizio totalmente scevro da condizionamenti… D’altro canto potevamo forse immaginare un ulteriore miracolo? Potevamo pretendere si replicasse la complessità e, soprattutto, il fascino alieno di quella meraviglia in note? Certamente no.
E infatti Little Waves batte percorsi differenti, suonando come un buon disco di malinconico folk al rallentatore, dal songwriting roccioso e dall’umore pacificato, appena rischiarato da raggi di luce che riescono (a fatica) a penetrare nel cuore di tenebra. Comunque sia, ne trovate una trattazione approfondita nella sezione recensioni. In questa sede vi basti sapere che la musica di Crescent continua a emozionare. Non è poco di questi tempi.

Crescent

Discografia

Crescent (Ep, Planet Punk, 1996)

6

Now (Planet Punk, 1996)

7

Electronic Sound Constructions (Planet Punk, 1997)

6

Collected Songs (Roomtone, 2000)

7

By The Roads And The Fields (Fat Cat, 2003)

8,5

Little Waves (Fat Cat, 2007)

6,5

Pietra miliare
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