Succede ormai raramente di essere colpiti da una musica per il fatto di sembrare appartenere solo a se stessa, dalla sua capacità di vivere e creare una dimensione solo sua. È accaduto, a parer di chi vi scrive, lo scorso anno grazie agli Xiu Xiu, vale a dire Jamie Stewart, Yvonne Chen e Lauren Andrews (il bassista Cory McCulloch ha lasciato la band) con il loro splendido "Knife Play", da molti considerato uno dei dischi più importanti dell'anno. Anche per gli Xiu Xiu si può guardare alla new wave, immenso solaio da dove i gruppi più disparati continuano a rimestare senza sosta, per le percussioni metalliche e dissonanti, l'elettronica ossessiva che tocca sonorità industriali e cacofoniche, per la voce di di Jamie Stewart, nevrotica e disperata, capace di essere spesso il nucleo che catalizza l'attenzione dell'ascoltatore. Un ruolo che il cantante ripropone anzi in maniera accentuata su questo "A Promise" e che si dimostra punto di forza ma anche possibile tallone d'achille del disco.
Il primo brano "Sad Pony Guerrilla Girl", però, ci regala uno Stewart inedito, che si fa accompagnare dalla chitarra per una memorabile ballata solo verso la fine squarciata dalla lame dei synth, che si confermano marchio di fabbrica del gruppo; colpisce la dimensione musicale in parte inedita, ma presto si ritorna alle atmosfere consuete. L'isteria generata dallo stridore delle tastiere e dalle percussioni che ora battono in maniera ossessiva guardando all'industrial prima maniera, ora ci offrono una varietà di bizzarrie e di inventiva che ricorda la ritmica dei grandi This Heat, si offrono come scenario per il declamato di Stewart, che spesso assume le sembianze di un monologo teatrale.
Chi ha amato "Knife Play" ritroverà in questo "A Promise" lo stile ben conosciuto, anche se "Sad Redux-O-Grapher" e "Brooklyn Dodgers" aggiungono, anche grazie agli archi, uno spazio più ampio alle rappresentazioni consuete del gruppo, quasi come a voler cercare un'apertura al mondo esterno. Non si tratta però di una pretesa di universalità, le angosce rimangono ripiegate su se stesse, e gli ultimi brani ne sono la dimostrazione: la cover di "Fast Car" di Tracy Chapman, ridotta all'osso con la voce bisbigliante, e il pezzo di chiusura "Ian Curtis Wishlist", un omaggio al grande leader dei Joy Division, ma anche una dichiarazione di intenti: Jamie Stewart non vuol scendere a patti con se stesso, ma ha probabilmente la fortuna di vivere in un'epoca abbastanza disincantata da evitargli la ricerca della fine assoluta.
Se qualcuno ha paragonato la sua voce a quella di Mark Hollis per la sua capacità di esprimere dolore e per i chiaroscuri del suo timbro, le differenze tra i due non sono di poco conto e non riguardano solo il contorno musicale. Se entrambi vivono il dolore e lo guardano in faccia, Hollis riesce a sublimarlo con la spiritualità e l'elevazione verso qualcosa che, se non purifica, perlomeno dona una qualche salvezza; Mark Stewart, invece, canta il dolore di chi è chiuso nella desolazione e nella speranza mal esaudita. Hollis vede la luce in alto davanti a sé, Stewart ne vede tante accendersi e spengersi senza dargli tregua lasciandolo solo con le paranoie e con il sarcasmo come mezzo per la sopravvivenza.
30/10/2006