Immergetevi comodi in una schiumosa vasca da bagno mentre assaggiate dei simpatici funghetti allucinogeni, narra la leggenda mediatica che gioca sul titolo dell’album per creare ulteriore hype, manco fossimo in un territorio burlesque dominato da Dita Von Teese. La realtà, come sempre, è molto meno visionaria e più banale, e suona come un invito a lasciarvi trascinare dal ritmo e dai suoni vintage dei synth analogici: armi di distrazione di massa che gli Hot Chip sanno maneggiare come pochi.
Benvenuti, se volete, alla fatidica settima fatica del supercombo inglese, guidato saldamente dai deus ex machina Alexis Taylor, detto il nerd, e Joe Goddard, meno nerd e più dj. Il tratto distintivo della saga, iniziata nel lontano 2004, è ormai cristallizzato e quest’ultimo "A Bath Full Of Ecstasy" non sfugge alla regola del lovely danceable synth-pop, perché ok i Daft Punk, Prince e Stevie Wonder, vanno bene gli Lcd Soundsystem, Four Tet, Roisin Murphy e pure l'anziano Felix da Housecat, vanno bene tutti ma alla fine, pur con robuste (a volte, altre con dosaggi minimi) iniezioni di funk, soul e house, la musica degli Hot Chip è semplicemente pop elettronico altamente ballabile, nonostante spesso si faccia a gara per svilire il genere nascondendolo dietro etichette molto più cool.
E sarebbe pure bellissimo questo ritorno se non si fosse messa di traverso la tragedia di Philippe Zdar, aka metà Cassius e Motorbass, protagonista indiscusso del cosiddetto French touch (termine che funge solo da enorme contenitore dove l’unico tratto davvero in comune è quello geografico), e qui in veste di coproduttore.
La morte di Zdar, il giorno prima del lancio mondiale del disco, fa sì che quest'ultima produzione divenga in pratica il testamento dello smanettatore transalpino, cui il sottoscritto sarà grato in eterno per il missaggio de "La Ritournelle" di Sebastien Tellier, ovvero uno dei pezzi più belli di tutti gli anni 2000.
La non perfetta riuscita del precedente "Why Make Sense" del 2015, disco assai moscio, privo di particolari spunti creativi e passato sotto traccia, aveva indotto i Nostri a mettere in naftalina il gruppo per 4 anni, dedicati a progetti paralleli, in attesa di ripartire di slancio affidandosi, per la prima volta, a un produttore esterno. Ecco spiegata la scelta di Zdar appunto, ma anche dello scozzese Rodaidh McDonald per quanto riguarda liriche e forma-canzone, aspetto quest'ultimo da sempre secondario nella loro musica.
E’ divertente leggere in rete le recensioni di "A Bath Full Of Ecstasy", perché sembra quasi di avere a che fare con una band dalla discografia gotico/catacombale, con il producer francese intento come un novello Einstein a stravolgere il suono regalando una vitalità e una effervescenza tipica delle bollicine di champagne (siamo o no a Parigi, dove in larga parte è stato registrato il disco?).
In realtà, niente di così geniale o rivoluzionario: qua e là, tra chitarre ridotte all'osso, qualche campionamento e introduzione del vocoder a sostituire in parte la consueta voce in falsetto, riaffiorano reminiscenze di quello che a cavallo tra i Novanta e i Duemila era il movimento più cool della scena internazionale.
Impossibile non andare con le orecchie ai Phoenix, persino a quelli di "Ti amo", ascoltando la title track (ovviamente sempre Zdar in console lì come qua), o al kraut-rock ammantato di psichedelia in uno degli episodi migliori e alternativi di tutto l’album, e cioè "Clear Blue Skies", dove no, non sembra di ascoltare gli Hot Chip ma gli Air di "10.000 Hz Legend".
Logico, quindi, che i 48 minuti del disco abbiano più di uno sguardo rivolto al passato senza particolari novità, esempio perfetto il singolo di lancio "Hungry Child" che presenta una costruzione melodica, doppia voce femminile e ritmica totalmente house anni 90. Sono gli Hot Chip, ma potrebbero benissimo essere gli Inner City 2.0, e lo stesso si può dire per l’altro brano più houseggiante del lotto, "Echo", che pure si apre in un ritornello melodico di livello assoluto.
Immancabili anche gli omaggi agli alfieri del synth-pop, tra una "No God" che appena parte pensi di aver inserito per sbaglio nel lettore un dischetto degli Erasure attuali, e una "Positive" in salsa Pet Shop Boys, e non solo nel bridge. Tastierine vintage simil-Bontempi, melodie leggere e ammiccanti che ti si appiccicano in testa all’istante, ma c'è freschezza e l'aria non è stantìa, perché le canzoni questa volta ci sono.
Che dire poi di "Spell", sorretta dalla combinazione di basso pulsante, ritmica e frasi in loop ad anticipare un ritornello vocoderizzato in pieno stile Daft Punk, con una lunga coda strumentale dove i suoni risalgono in superficie uno a uno fino all’esplosivo finale, tipico dei classici 12' di matrice eighties?
Celebriamo, perciò, un disco riuscito, che ha il pregio di invertire la tendenza al ribasso (graduale, non marcata ma costante) dell’ultima decade, anche se privo del singolone da classifica estiva. Una costante nella storia del gruppo, arrivato più volte a un passo dal gotha del mainstream pop (con la doppietta killer di "Over And Over" - total Devo - e il funky di gran classe di "And I Was A Boy From School", e pure qualche anno più tardi con "Ready For The Floor") per essere poi risucchiato indietro a causa di quei misteriosi meccanismi che regolano il music business.
09/07/2019