È un incubo. Ci abbiamo messo due anni per completare “Love Like A Sunset”. Aveva infinite possibilità e allo stesso tempo non esisteva. Non riuscivamo a metterci d’accordo.
Sulla strada che va da Versailles a Parigi ci sono questi tunnel degli anni 70 che sono molto ritmici, perché la strada e le luci hanno un ritmo. Ascoltavamo Steve Reich in auto e volevamo ricreare quell’esperienza. E così iniziammo davvero a usare gli stessi pattern strumentali, il che fu davvero un incubo, perché è davvero difficile. (Thomas Mars)
Naiveté, eleganza dissimulata e un forte senso dell’esotico formano lo straniamento che ha connesso i Phoenix, quattro ragazzi di Versailles, a un mondo in profondo cambiamento. Non è un caso se il loro primo singolo, “Too Young”, partecipò alla colonna sonora di “Lost In Translation”. In un ambiente, quello del pop francese, in cui la lingua madre è un requisito necessario, Thomas Mars sbocconcella il suo inglese come cercando di imitare i suoni emessi dal mangiacassette. “Tonight, let me handle this affair...”: chi non ha mai sognato di sussurrarlo al microfono?
Il mondo, alle soglie del nuovo millennio completamente raggiungibile, appare confuso e complicato, e le distanze tra le persone acuirsi, le identità fondersi in un unico magma latteo. La risposta non è più la rabbia, la contrizione dei 90, ma la poesia alienata dei Phoenix, una vacanza extracorporea su una spiaggia virtuale.
L’aria di Versailles
È proprio questa la sensazione che filtra dal primo lavoro della band,
United. Rintanati da quattro anni in un garage della lontana periferia parigina, i quattro Phoenix perfezionano un
sound, prima ancora che una proposta musicale.
Quel che ci piace della dance è che il suono è molto importante, che la produzione è uno strumento, che il modo in cui il suono muove l’aria è molto importante - il fatto che debba far ballare la gente rende questo aspetto della musica cruciale. Il modo in cui suona la cassa, per esempio: se è debole, non va bene, perché alla gente non verrà voglia di ballare. La ricerca della perfezione sonora sarà, nel bene e nel male, uno dei punti focali della carriera della band francese, e
United ne è la prima prova. Un vero calderone pop di cianfrusaglie revivaliste, un negozio di vintage da strapagare. Eppure il tutto funziona, magicamente:
United sembra raccontare la metamorfosi da garage-band dei Novanta in agonia (il parodico tributo di “Party Time”) a uno dei
pop act più importanti dei Duemila, uno dei pochi a saper connettere indie e mainstream, in un mondo della musica sempre più affamato di universalità. Il potere di un accordo in maggiore che racconta una canzone triste: è qui il banale e complicatissimo segreto di “Too Young”.
In un disco di pop caleidoscopico e
Rundgren-iano (il country-pop psichedelico della prima parte di “Funky Squaredance”), i Phoenix mantengono la barra con uno spirito leggero, permeato di una placida, saggia malinconia
Murdoch-iana (“Summer Days”), accompagnando per mano l’indie-pop nel mondo del lounge-pop, del funk e della disco. Al di fuori del singolo da giacchetti di pelle e moto sfumacchianti di “If I Ever Feel Better”, del suo tiro radiofonico, e della coda divertitamente casuale e dilatata di “Funky Squaredance”,
United è un disco di
guitar-pop che non può metter paura.
Il
crooning velato e dolcemente armonico di “Honeymoon”, il pop orchestrale (con tanto di sassofono) di “Embuscade”, e non sembra Murdoch in tuta di
paillettes quello di “On Fire”?
Prodotto da Philippe Zdar, metà dei
Cassius, portato in giro in Inghilterra come spalla degli
Air,
United racconta anche di una scena francese in grande ascesa: il chitarrista Laurent Brancowitz, fratello di Chris Mazzalai, metà delle ascendenze italiane della band, suonava con tali Thomas Bangalter e Guy-Manuel de Homem-Christo, che sarebbero poi diventati i
Daft Punk.
Dato il successo del pur incompleto e acerbo
United, il passo successivo appare abbastanza prevedibile.
“Alphabetical” fu molto asettico. Costruimmo questa stanza, che suonava morta, così da avere un disco morto – la gente avrebbe dovuto suonarlo a volume molto alto per farlo respirare.
Non che
Alphabetical sia un disco brutto; cade semplicemente nella tentazione di creare un lavoro banalmente elegante, che “suona bene”, magari, ma senza cuore, senza quell’aspirazione un po’ ingenua alla creazione musicale che rendeva così vivace
United.
Quello che esce è, oltre che un successo mainstream senza precedenti (chi non riconoscerebbe “Everything Is Everything” o “Run Run Run”?), un disco di soft-rock, di lounge impeccabile. La suadente chiusura della
title track stende il velo su una collezione di brani ruffianotti, dalla serenata melliflua di “Love For Granted”, in cui Mars dà fondo a tutto il suo repertorio di frasi fatte, ai ripetuti arrangiamenti funk di “Holdin’ On Together”.
Alphabetical sembra fatto da una copia smussata e cinicamente calcolatrice dei Phoenix: “Run Run Run” si sviluppa con rigore matematico, con questo
groove minimalista (un
beat, un arpeggio di acustica, la voce vagamente annoiata di Thomas Mars) che si ammanta di una sensualità posticcia. E cosa dire degli ammiccamenti decadenti di “Everything Is Everything”?
Ritorno al futuro
Quando una strada lastricata di successo (e di morte vivente) sembrava pronta per i Phoenix, Thomas Mars e compagni hanno il coraggio inaspettato di cambiare completamente stile (anche di vita da band), uscendo con slancio dai personaggi che si erano creati.
Passano l’estate del 2005 in uno studio mai visto, fuori da Versailles e dall’ambiente che li teneva sotto stretta osservazione.
Sì, ci piaceva il senso di esilio. Ricordo che avevamo questo grande libro sui Rolling Stones che facevano “Exile On Main St.” in un castello nel sud della Francia, e solo guardare le foto ci faceva sognare di un’esperienza del genere, in cui lasci la tua città natale, vai da qualche parte che sia un po’ abbandonata, e la rendi tua.
Ci ha aiutato a fare il disco più in fretta, perché essere all’estero ha dato a tutti il senso del perché fossero lì. E
It’s Never Been Like That rappresenta un vero e proprio balzo del gruppo in un mondo de-robotizzato, fatto di sentimenti tangibili, da afferrare come il manico della chitarra. Un disco di
guitar-pop Strokes-iano (“la congiunzione tra ‘Last Nite’ e
Tom Petty”, verrà definito) che coniuga una nuova attitudine, istintiva e vitale, con il perfezionismo sonoro ed estetico della band.
Manifesto dell’album è indubbiamente “Consolation Prizes”, in cui lo stoppato d’acustica che è ormai marchio di fabbrica della band si fa frivolo e organico, e Thomas Mars si lascia andare a un’interpretazione finalmente divertita, con tanto di versi e “uh!”. In
It’s Never Been Like That torna l’innocenza indie-pop di
United, rivista alla luce dell’esperienza da popstar maturata in
Alphabetical e che si risolve qui in una compattezza espressiva assai più definita. Insomma un disco di grandi melodie, risaltate dalla produzione che amplifica con effetto prorompente di “pioggia sonora” (scrosci di piatti, rivoli luccicanti e rombi di chitarra) i passaggi più emozionanti dell’album.
E torna anche lo sfarzoso revivalismo
seventies, che allo stesso tempo i Phoenix aggirano, come sui crinali emotivi di “Long Distance Call” e sui più numerosi uptempo del disco, come nella pirotecnica “Second To None”. Thomas Mars non è più in controllo come nei ritornelli costruiti di
Alphabetical: fatica a tenere il passo, si inerpica ansimante su per gli sconsiderati vertici dei brani di
It’s Never Been Like That, ma alla fine emerge ansimante di gioia sulla vetta.
Ed è questa gioia che pervade il disco che dà il senso del regalo che i Phoenix fanno a sé stessi e agli ascoltatori in questo disco, sicuramente meno fortunato del precedente, ma al tempo stesso una promessa di non tornare più indietro.
Il patrimonio accumulato dalla band nel salto compiuto in
It’s Never Been Like That frutta un seguito che forse rimarrà come punto più alto nella carriera dei Phoenix. Per
Wolfgang Amadeus Phoenix, la band francese sceglie di tornare alle origini: non solo a Versailles, ma anche alle mani di Philippe Zdar.
Forte di un’indipendenza espressiva ritrovata, di un’identità più forte, la band di Thomas Mars confeziona un vero tsunami pop di brani travolgenti, un fiume, gorgogliante e luccicante, di
hit impossibili da evitare. In
Wolfgang Amadeus Phoenix il
sound dei Phoenix vede un’ulteriore evoluzione. E’ un lavoro che mostra una compattezza sonora impossibile da non osservare: una sezione ritmica incalzante e spesso in primo piano, irrorata di piogge e maree chitarristiche di rara limpidezza, accesa da motivi sintetici rosa, blu, rossi e neri. Un’onda sonora capace di riempire e inebriare, sorprendendo con repentini cambi d’umore (“Love Like A Sunset”) e di tono (“Countdown(Sick For the Big Sun)”).
La doppietta iniziale porta in dote i pezzi più “lavorati”: a dirla tutta, schiacciasassi veri e propri. “Lisztomania” è un ottovolante: la sospensione iniziale, innervosita dalle rullate avvolgenti, lo sguardo sul baratro mentre tutto (a parte Thomas Mars e una pianola) si ferma… Poi la discesa energica e liberatoria del ritornello, e poi tutto da capo finché rimane fiato. Costruzione da manuale. Si riparte con l’
uptempo di “1901”, altro versetto di questa Bibbia del
catchy che i Phoenix sembrano voler mettere insieme. Scariche di tastiera, ritornello volteggiante che si rigetta nella tempesta di riverberi: un altro tormentone estivo (e non solo). Sembra insomma avverarsi la commistione di scrittura pop e
club culture che rappresentava la missione dei Phoenix, e “1901” ne è la pietra miliare. Gli accordi di synth sembrano esplodere, sostituendo baldanzosi
l’understatement dell’acustica utilizzata fino a quel momento – il brano sembra un getto colorato di strumenti indistinguibili, destinato a sfracellarsi imbrattando le vite di chi ascolta.
Una doppietta iniziale che però non esaurisce lo slancio di
Wolfgang Amadeus Phoenix: anche quando l’innocuo, l’inoffensivo fanno capolino, lo spettro del riempitivo è ampiamente esorcizzato. Magari adagiandosi su soluzioni di pop-rock alternativo meno originali o ricercate (“Lasso”), o su marchi di fabbrica più o meno rodati (“Fences”), ma mai rinunciando ad irretire l’ascoltatore. Se la prima, infatti, si concentra su un motivo di facile, ma sicura presa, la seconda offre momenti di profondità musicale inaspettata, nella coda di chitarra acustica.
Sicuramente il disco più apprezzato dai fan dei Phoenix (divisi fino a quel momento tra una o l’altra espressione della band, qua tutte riassunte e superate),
Wolfgang Amadeus Phoenix è ancora un successo sia di pubblico che di critica. “1901” viene suonata in un intervallo del Superbowl; le apparizioni nei maggiori
showcase televisivi americani non si contano più. Dopo un tour trionfale, arriverà infatti anche il Grammy per “Best Alternative Act”.
Ma il successo può anche dare alla testa. Si potrebbe ridurre a questa banalissima considerazione la valutazione del successivo disco dei Phoenix, una band evidentemente sommersa dalle aspettative che
Wolfgang Amadeus Phoenix aveva creato verso di loro. L’ennesima, attesissima “evoluzione” del gruppo di Versailles è, però, sommergere (appunto) canzoni fragili, inesistenti, sotto spazzate assordanti di
synth ed effetti, trattando la melodia come “roba passata” (“Oblique City”) e ambientando il tutto in una riflessione post-moderna (e retrò al tempo stesso) sull’alienazione nell’America di plastica (“Trying To Be Cool”)...
Addio, insomma, al sublime equilibrio tra composizione chitarristiche e
post-processing sintetico che rendeva “Wolfgang” moderno ma sostanziale. In certi brani si ha l’impressione che Thomas Mars abbia speso un mese a cercare il
sound giusto per la sua tastiera, ma qualche ora per scrivere il pezzo (la tremenda, insostenibile dinamica di “Don’t”).
L’illusione, in
Bankrupt!, o, se vogliamo, la furbizia è credere che per intercettare lo
zeitgeist del popolo del pop indipendente e non sia sufficiente innestare qualche suono accattivante (un po’ revivalista, un po’ inaudito) su materiale di seconda mano (quanti di questi pezzi sembrano scarti di “Wolfgang”...). Si susseguono così i “tramonti” sintetici del precedente, frammisti a esplosioni sconnesse di synth, con la voce di Mars che arranca per trovare un senso. E, purtroppo, il singolo di lancio “Entertainment”, con il suo tema globalizzato e il suo aspetto più canonico, non fa che confermare, più che smentire, questa impressione.
Nel 2017, dopo quattro anni di silenzio, esce "
Ti Amo".
Pura e deliziosa come il fior di latte la musica dei
Phoenix lo è sempre stata. Forse lo è diventata ancora di più con il passaggio da "It's Never Been Like That" a "
Wolfgang Amadeus Phoenix", quando le chitarre hanno lasciato il palcoscenico ai sintetizzatori. Che la band francese, poi, inserisca elementi provenienti da altre culture e da contesti estranei, anche questo è tutt'altro che insolito. Lo hanno fatto con l'Oriente in "
Bankrupt!", con la musica classica nel già citato "Wolfgang Amadeus Phoenix" e ora lo fanno con l'Italia. Scarnificando il contenuto, in realtà, il risultato è rimasto immutato. La musica dei Phoenix è sempre stata la stessa, che citasse Mozart e Liszt o che mostrasse dei samurai nel videoclip del singolo di lancio.
"Ti Amo", per non tradire le aspettative, di italiano non ha nulla. È il nuovo album dei Phoenix che suona come ogni altro recente album dei Phoenix, solo che stavolta nomina
Battiato, Lucio (
Dalla o
Battisti che importa?),
Sanremo e il gelato. Solo a cagione di uno sforzo disumano si è evitato di inserire la pizza, il mandolino e la mafia. "Ehi baby, ti faccio vedere come vincere il mio Festival di Sanremo", dice Mars nella seconda traccia. È così che nasce e muore il tributo che i Phoenix sono in grado di rivolgere all'Italia. Si prova anche a cantare qualche parola nell'idioma di Dante e la loro fortuna - loro ne sono coscienti - è che se un italiano prova a cantare una canzone usando un inglese scorretto o banale risulta un inetto; se uno straniero, invece, mette in fila un paio di frasi in un italiano scadente (perché scrivere un brano intero sarebbe impegno davvero troppo gravoso e un omaggio fin troppo sincero) fa la figura del figo. Non solo, rischia pure che gli italiani, abituati a starsene ai margini dell'ambiente musicale internazionale, lo ringrazino, accompagnando l'inchino con un pizzico di lusinga. "Non posso vivere. Troppo bisogno di te" è lo struggente messaggio che vola da un cellulare all'altro, da chissà dove fino a Hollywood, nella conclusiva "Telefono".
In mezzo a questo coacervo di luoghi comuni riesce a trovare spazio pure la "spocchiosità", un termine troppo italiano per essere capito da Mars. Ascoltando "Ti Amo", infatti, è arduo immedesimarsi e provare una minima dose di empatia per chi canta della mancanza per sua moglie - regista pluripremiata e figlia di Francis Ford Coppola - per le scorribande in motoscafo e per lo shopping tra le luccicanti vetrine di Via Veneto. Era mille volte meglio quando di Roma se ne parlava in termini più sottili, paragondando lo
status delle sue rovine a quello di un rapporto amoroso in avviata consunzione ("
Rome" da "Wolfgang Amadeus Phoenix", 2009).
I Phoenix sono sempre stati spudoratamente ammiccanti e anche in questo aspetto si è celata la loro forza. Il problema è che, al di là dell'atteggiamento, negli ultimi anni - a parte il cambio di direzione già citato sopra - il modo in cui la band di Versailles ha strizzato l'occhio al pubblico non è cambiato di molto: chitarre
à-la Strokes e fraseggi di synth che si sovrappongono, disegnando ritmi e melodie ballabili, orecchiabili e presto cantabili; divagazioni lisergiche e strumentali (o quasi-strumentali) che pennellano sfumature più variegate, dando un leggero tocco di complessità all'album. Lo hanno fatto in "Wolfgang Amadeus Phoenix", con la versione studio di "Lisztomania" o, in modo più deciso, con "Love Like Sunset"; lo hanno fatto in "Bankrupt!", con il brano omonimo; lo fanno ora, nella coda di "Fior Di Latte" o nella vaporosa "Via Veneto", che assume sembianze quasi
chillwave. A dirla tutta, "Ti Amo" è orfano di quel brano meramente strumentale che tanto piace ai Phoenix, aspetto che dà al disco il merito di essere più leggero e scorrevole di quanto già non lo sia di per sé, vista la sua esigua durata (poco più di mezz'ora).
"Ti Amo", in conclusione, ribadisce per l'ennesima volta chi sono i Phoenix: abilissimi creatori di successi dance-pop (e ce ne sono anche nell'ultimo lavoro: la bella "J-Boy" e la dolce/erotica "Fior Di Latte" su tutte) che non sanno - e forse neanche vogliono - spingersi oltre. Scrivono "Ti amo" sui muri, se lo tatuano addosso, ma quando parlano di Italia non hanno interesse a immedesimarsi nella cultura autoctona e nella sua musica, né a trovare un luogo che possa raccontare qualcosa di un popolo; non confrontano guide del posto, non chiedono suggerimenti a chi lo abita. Sono come studenti che scrivono un tema a tirar via, sfiorando il contenuto della traccia solo per dire di averlo fatto. È sufficiente sedersi al ristorante di fronte al Colosseo e chiedere una
pasta all'Alfredo, per poi baciarsi la punta della dita con le labbra unte ed esclamare: "belisssimo". Nulla di male, solo che io al tavolo di questo ristorante preferisco non sedermi.
Autunno dl 2022. Dopo aver compiuto una sorta di giro del mondo passando per la Mitteleuropa d'antan di “Wolfgang Amadeus Phoenix”, i miraggi orientali di “Bankrupt!” e il buen retiro italiano di “Ti Amo”, i Phoenix hanno riportato tutto a casa con l'album Alpha Zulu. Una scelta, diciamolo pure, anche un tantino obbligata dalla situazione contingente, alias il lockdown che ha chiuso il mondo in casa fino a nuovo segnale. “Costretti” a restarsene fermi in quel di Parigi (beati loro), i quattro hanno però ottenuto una possibilità non da poco: registrare il nuovo album all'interno del Musée des Arts Décoratifs, a un passo dal Louvre. “C'era così tanta bellezza attorno a noi in quelle sale deserte – ha raccontato Christian Mazzalai – che non riuscivamo a smettere di produrre musica. Nei primi dieci giorni abbiamo scritto praticamente tutto l'album”.
Più che – di nuovo – con l'Italia, la copertina Botticelliana (particolare della “Madonna col Bambino con otto angeli”, dipinta nel 1478 e invero custodita in un'altra capitale europea, Berlino) sancisce dunque il legame con l'Arte, cornice e al tempo stesso fonte di ispirazione dei francesi. Tra una folgorazione e l'altra viene pure il sospetto che, forse a livello puramente inconscio, i Phoenix abbiano voluto omaggiare o lasciarsi guidare spiritualmente dall'amico-maestro Philippe Zdar, scomparso in circostanze tragiche nel 2019, dando vita a quello che è senza dubbio il loro lavoro più “ballabile”. Non più le metriche in levare di “Wolfgang Amadeus”, bensì una piccola costellazione di uptempo in cassa dritta che qua e là (“All Eyes On Me”, l'irresistibile “Alpha Zulu”) sanno di techno alla francese, l'humus culturale dal quale sono sbocciati i quattro di Versailles.
Una nuova declinazione che spinge ancora più in là il synthpop di cui ormai il combo transalpino si fa autorevole portavoce, come già potevano far intendere i singoli pubblicati con largo anticipo: più “Identical” (pubblicato addirittura nel 2020), ieratico nella sua essenza sintetica, o “Winter Solstice”, un algido loop che rifugge la struttura della forma-canzone, che una “Tonight” dal sentimento più caldo e colorato dall'intervento mai banale di un ospite del calibro di Ezra Koenig. Rimane una quota di tracklist in cui i Phoenix si limitano a fare i... Phoenix, e rimane quella più divertente. “Artefact”, un midtempo agrodolce che sembra sbucare direttamente dalle registrazioni di “Ti Amo”, è uno di quei numeri di alta scuola che i Nostri ripetono senza mai stancare dai tempi magici di “United”. Nulla da ridire nemmeno su una “My Elixir” che abbassa ulteriormente i toni senza scalfire di una magia dettata dalla inconfondibile voce di Thomas Mars. “I want to be forever young”, canta in “The Only One”: più che un desiderio, una condizione ormai acquisita.
Contributi di Federico Piccioni ("Ti Amo"), Fabio Guastalla ("Alpha Zulu")