Era in qualche modo inevitabile che Nicolas Godin e JB Dunckel sarebbero divenuti un giorno nemmeno troppo lontano compositori "seriali" di colonne sonore. Così, in effetti, è stato: dopo aver imbottito di vibrazioni cinematografiche la musica degli Air, senza disdegnare tuffi veri e propri nel mondo della settima arte ("Il Giardino delle Vergini Suicide", "Le Voyage Dans La Lune"), il duo di Versailles si è avventurato ulteriormente nel corso degli anni nella sfera delle soundtrack tout-court, prediligendo man mano camminare ciascuno con le sue gambe, in solitaria, lasciandosi alle spalle la gloriosa sigla con cui avevano dato vita a capolavori assoluti quali "Moon Safari".
Capita però, anche, che Godin e Dunckel si avventurino in lavori solisti slegati dal binomio con le immagini. Il primo, in particolare, si è già distinto per fughe in avanti decisamente interessanti con "Contrepoint", album in cui rilegge a suo modo la modern classical, il jazz e l'avanguardia, e "Concrete And Glass", più elettronico e concettuale, con i suoi rimandi al mondo dell'architettura.
Per Dunckel si tratta del quarto album solista al di fuori del mondo delle colonne sonore, ma il suo percorso negli ultimi anni è in un certo senso inverso rispetto a quello del sodale: se in "Carbon" l'ambientazione era quella sintetica e spaziale delle origini, "Paranormal Musicality" torna alla radice di tutto, al minimo comune denominatore, al primo amore: il pianoforte.
Al di là di un titolo piuttosto roboante, infatti, la nuova fatica in studio di registrazione ad opera del parigino è una lunga teoria di improvvisazioni ai tasti (diciotto i brani, un'ora la durata complessiva) senza aggiunta alcuna. Una riduzione ai minimi termini che la copertina, al solito minimale e virata su tonalità bianche e nere, ben sintetizza tramite uno scatto al carboncino del Nostro, di bianco vestito e scalzo, impegnato a tenere a bada un pianoforte dalla forma sinuosa.
Fughe, fraseggi, momenti estatici si alternano in questa scaletta di brani che sgorgano dalle mani di Dunckel, mai così dedito a mostrare il suo lato più malinconico ed emozionale, nel quale è necessario a nostra volta entrare in punta di piedi, lasciando fluire le note che si inseguono. Un repertorio, dunque, che va preso per quello che è, nella implicita natura di improvvisazioni messe nere su bianco, che magari non sempre colpiscono per l'espressività del risultato, ma riescono a raggiungere talvolta risultati significativi ("Playjoy", "Égérie", "Melo Walk", "Sun Stone"...), stagliandosi rispetto al contesto.
31/01/2024