... so come to me when I'm asleep
we'll cross the lines and dance upon the street
Duran Duran o Spandau Ballet? Rebus ancora oggi di difficile soluzione. Chi c'era negli anni Ottanta ricorderà bene come questo interrogativo abbia turbato i sonni di un'intera generazione, ma sa altrettanto bene che dietro a un quiz molto comodo al marketing e all'industria discografica si nasconde una risposta, qualunque essa sia, di elevata qualità musicale. Spesso bollati come idoli per
teenager, i due gruppi più chiacchierati e fraintesi del decennio con il tempo hanno ottenuto giustizia e credibilità, con i dovuti interessi. Ma se sappiamo praticamente tutto dei
wild boys di Birmingham, vuoi per un'attività in studio più intensa vuoi per una carriera più longeva, resta ancora qualche punto oscuro, sul quale cercheremo di fare luce, nella storia di queste talentuose "anime soul d'occidente", come li definì nel 2014 la cineasta John Henken in una pellicola imperniata sulla loro vicenda biografica. A cominciare dal nome del gruppo, dietro al quale si nasconde un macabro significato.
Fine anni Settanta: da Islington al Blitz
Spandau oggi è una verde zona pedonale situata dieci chilometri a Ovest di Berlino, alla confluenza dei fiumi Havel e Sprea. In passato la cittadella ospitava un penitenziario tristemente noto per la detenzione dei criminali condannati a Norimberga, demolito definitivamente nel 1987 alla morte del suo ultimo recluso, Rudolf Hess, per evitare che potesse divenire una sorta di meta di pellegrinaggio dei movimenti neo-nazisti. Il "balletto" secondo alcuni è quella straziante serie finale di spasmi e contorsioni dei corpi degli impiccati appesi alla corda, ultimo anelito alla vita un attimo prima che essa finisca. Secondo altri, invece, i cadaveri sarebbero quelli squassati, sempre durante la Prima Guerra Mondiale, dalle raffiche sparate dalle mitragliatrici Maschinegewehr 08, prodotte in una fabbrica che aveva sede nelle vicinanze delle carceri. Di certo c'è che il giornalista musicale britannico e dj per Bbc Radio London Robert Elms, di passaggio nel 1979 a Berlino, lesse sulle pareti del gabinetto di una discoteca la scritta "Spandau Ballet" e la suggerì subito ai ragazzi, di cui era molto amico ancor prima che fan. Un nome davvero
cool per una band, devono aver pensato immediatamente Tony Hadley, Steve Norman, John Keeble e i fratelli Martin e Gary Kemp, che a quel tempo si stavano facendo le ossa con una miriade di nomi provvisori prima di appropriarsi definitivamente dell'appellativo che li avrebbe consegnati alla storia.
Entrambi alunni della "Dame Alice Owen's Secondary School" di Islington, sobborgo nella parte Nord di Londra, Gary e Steve decidono di fondare una band dopo aver assistito nel 1976 a un concerto dei Sex Pistols. Gary Kemp (16 ottobre 1959) proviene da una famiglia della
working class e, dopo aver accumulato una significativa esperienza da attore in una compagnia di teatro per bambini e in alcune pellicole della "Children's Film Foundation", si appassiona da adolescente a glam rock e progressive. Steve Norman (25 marzo 1960), invece, cresce a Stepney, un quartiere situato nell'area Est della capitale inglese, ed è considerato un autentico prodigio, visto che sa suonare chitarra, tastiere, percussioni e sassofono. A loro si uniscono subito altri tre compagni di scuola: John Keeble (6 luglio 1959), batterista atletico con un passato da promessa del cricket, il fascinoso
vocalist Anthony Patrick "Tony" Hadley (2 giugno 1960), figlio di un ingegnere elettrico del Daily Mail, e il bassista Michael Ellison, che completa una
line-up che in questa fase embrionale si fa chiamare The Roots (dal nome di una delle primissime composizioni di Gary Kemp intitolata "I've Got The Roots" che il neonato quintetto usa proporre nell'aula di musica dell'Istituto durante le pause pranzo insieme ad alcune cover di gruppi che vanno per la maggiore, tra cui "I Wanna Be Your Man" dei
Beatles, "Silver Train" dei
Rolling Stones e "We've Gotta Get Out Of This Place" degli
Animals).
Ellison lascia pochi mesi dopo e i Roots diventano The Cut, Steve Norman intanto ci mette una pezza al basso finché non viene ingaggiato in quel ruolo Richard Miller: è il 1977 e ora nascono The Makers, che ricevono i favori della stampa specializzata e si fanno strada nel circuito locale con un divertente power-pop in stile anni Sessanta.
La svolta vera però arriva circa un anno dopo, nel 1978, quando il loro manager Steve Dagger, anch'egli fuoriuscito dai banchi della Dame Alice Owen's School, consiglia che Martin Kemp (10 ottobre 1961), fratello minore di Gary, assai belloccio e aitante, prenda il posto di Richard, dopo aver notato un certo entusiasmo del pubblico femminile nei suoi confronti. Martin difatti si era spesso aggregato da
roadie al resto della comitiva, che dopo il suo ingresso in squadra si ribattezza Gentry ed esordisce ufficialmente il primo luglio 1978 con una serata al Middlesex Polytechnic di Cockfosters.
Ricapitolando, adesso sono in cinque, Tony Hadley alla voce, Steve Norman alle percussioni, John Keeble alla batteria, Martin Kemp al basso e Gary Kemp alla chitarra. Così riorganizzata, la formazione giungerà praticamente invariata sino ai giorni nostri, salvo l'aggiunta di volta in volta di turnisti e
backing vocals con una doverosa menzione a parte che va all'onnipresente Toby Chapman, sesto membro effettivo curiosamente mai accreditato nel quintetto-base. Fortemente influenzati dalla nuova scena
underground londinese, si pagano a rate un sintetizzatore Yamaha CS10 e ogni martedì sera si ritrovano nei fumosi sotterranei del Billy's, uno squallido night-club di Soho ricavato sotto a un bordello per riccastri, il Gargoyle, che sorge giusto al piano di sopra. È l'habitat ideale per un'orda indisciplinata, composta principalmente da studenti d'arte delle scuole di periferia, che cercano e trovano nuovi stimoli e fermenti nelle notti brave proto-wave organizzate dai futuri
Visage Steve Strange e Rusty Egan. Tra i clienti abituali anche l'allora semi-sconosciuto
Boy George, Marilyn, Siobhan Fahey delle
Bananarama e altri illustri
wannabes che stanno modellando la strada da percorrere gettando i semi di una nuova estetica
glamour.
Credevamo nella moda come fosse una religione. Indossa le scarpe sbagliate e nessuno ti rivolgerà la parola, indossa lo stesso paio per due volte di fila e nessuno ti guarderà mai più
(Gary Kemp)
In quel seminterrato soffocante si mescolano
Roxy Music e
Kraftwerk, cultura rave e ambizione, Mtv e
no future. I nostri respirano quest'aria sovraccarica e la traducono in una nuova avveniristica
dance music europea. Da Soho a Covent Garden, la movida si sposta al numero 4 di Great Queen Street: appuntamento il martedì sera al Blitz senza sparger troppo la voce, solo un tacito accordo di presentarsi acconciati in maniera vistosa. Il punk non è più trendy e i jeans stracciati o a campana restano fuori dalla porta, via libera ad abiti esagerati, gioielli,
eyeliner e pettinature inventive, scarpe kitsch e camicie da pirata, gay ed effeminati: tutto fa tendenza tranne l'anonimato.
L'assist decisivo di Elms arriva proprio in questi giorni, così il 5 dicembre 1979, in occasione della festa di Natale organizzata dal club, tengono il loro primo storico concerto come Spandau Ballet, al quale fa seguito una serie di serate esclusive in
location insolite, ad esempio al cinema Scala o sul Tamigi a bordo della nave da crociera HMS Belfast. Strange intuisce le loro potenzialità e li rende attrazione fissa, così attorno a loro cresce la curiosità. Il passaparola scatena una caccia alla firma, la spunta la Chrysalis Records che ne fa il fiore all'occhiello di una scuderia che all'epoca distribuisce, tra gli altri,
Waterboys,
Ultravox, Generation X e
Pere Ubu.
1981: In viaggio per la gloria
Prodotto dall'ex-mente dei Landscape, Richard James Burgess, il 31 ottobre 1980 esce il primo singolo degli Spandau Ballet "To Cut A Long Story Short" che balza alla quinta posizione in classifica e fa da preludio all'album d'esordio
Journeys To Glory, un monolite autentico che quattro mesi dopo, il 27 febbraio 1981, spiana la strada alla seconda British Invasion. È l'alba di una nuova era che si autodefinisce
new romantic, in omaggio al verso "some new romantic looking for the Tv sound" coniato in "Planet Earth" dai
Duran Duran, con i quali il gruppo di qui in avanti ingaggia un sano dualismo, che nasce tra i poster appesi in cameretta e sfocia in un testa a testa ad alto tasso creativo. Il discobolo con braccio amputato raffigurato in copertina dal
graphic designer Graham Smith rappresenta la chiara volontà di regalare al mondo un'opera marmorea, che non sia di passaggio ma duri per l'eternità, mentre i caratteri cirillici sovraincisi anticipano in qualche modo la matrice laburista dei contenuti, con buona pace di chi, per via del nome, continuava a tacciarli di simpatie naziste.
Sono belli, innovativi e sanno suonare: annichilire i nichilisti, il punk è già alle spalle e il post-punk si veste di una connotazione nuova. Questo l'imperativo di un album che si erge a simbolo di rinascita della vecchia Europa ormai in putrefazione.
I am beautiful and clean and so very very young
to be standing in the street to be taken by someone
("To Cut A Long Story Short")
"To Cut A Long Story Short" è la storia di un militare di ritorno dalla guerra, attorno c'è ancora vita e gli Spandau Ballet non se ne vogliono stare certo con le mani in mano. Il 1981 è un anno particolarmente fertile per l'intero movimento, nel giro di pochi mesi escono infatti "
Non-Stop Erotic Cabaret" dei
Soft Cell, "
Rage In Eden" degli
Ultravox, "In The Garden" degli
Eurythmics, "Travelogue" degli
Human League e "Computer World" dei
Kraftwerk. Gary Kemp, autore di tutti i brani, pensa in grande e raccoglie la sfida trasfigurando l'elettronica in una
white disco dal battito romantico e decadente, dove il
groove portante non è più glaciale e geometrico ma viene imposto da basso, chitarra ritmica e
snare drum. In questo modo l'immagine della band resta fedelmente ancorata ai canoni imprevedibili della "Visa Age", dove
Ziggy Stardust e
Debbie Harry dividono il palco con
Giorgio Moroder e
Ian Curtis, e al contempo l'accento si sposta su abbigliamento e cura di sé come celebrazione ideale della sensualità della giovinezza. Il budget per girare il video è risicato, appena 5.000 sterline, e il regista Brian Grant completa le riprese al London Dungeon in mezza giornata: nel mirino c'è il futuro, Tony lo scruta dal binocolo mentre gli altri giocano a carte indossando dei vessilli militari scozzesi che poi porteranno in scena anche a Top Of The Pops. Il risultato è irresistibile, se ne accorge anche l'allora tastierista dei
Depeche Mode Vince Clarke, che tempo dopo ammetterà candidamente di essersi ispirato a "To Cut A Long Story Short" per comporre la sua epocale "Just Can't Get Enough".
Ma è l'inno classista "Reformation" il vero brano manifesto di
Journeys To Glory: studente di Medicina mancato, Hadley è un interprete elegante e raffinato di formazione gospel, in questa prima fase di carriera però ha la dinamite nelle corde vocali e il grido ossessivo "shattered glass reflects elation/ reformation!/reformation!" cala come una scure su un incedere di tastiera a passo marziale che ricorda molto da vicino i
Litfiba di "Guerra". L'intrigante elegia neomelodica "Mandolin" alterna sinistri arrangiamenti minimali a sontuose aperture di synth, che rilasciano al momento giusto la tensione accumulata guidando l'ascoltatore in un flashback surreale attraverso il tempo, mentre il secondo singolo "The Freeze" è un'altra girandola riempipista a colpi di basso spinto e arpeggi ritmati a due dita. "Con la chitarra ho cercato di riempire i vuoti nel testo", racconta Steve Norman a proposito di un brano che in termini di classifica, solo diciassettesimo, rappresenta un piccolo passo indietro rispetto a "To Cut A Long Story Short". "Non aveva un vero e proprio ritornello, ma quel che più mi piaceva è che in fin dei conti non ce n'era nemmeno bisogno. Potevamo contare su una schiera di fan che la pensavano esattamente al nostro stesso modo, ecco perché ci sentivamo così sicuri di noi stessi e liberi di sperimentare". La
cover artdel singolo è affidata ancora a Graham Smith, che su precisa richiesta di Kemp cerca di incastrare ogni tessera del puzzle secondo un minimo comun denominatore visuale. Stavolta si tratta di un carro allegorico rubato alla simbologia egizia, mentre sull'altro pezzo-chiave dell'album, "Musclebound", lo spunto per le illustrazioni proviene dai mezzobusti neoclassici di John Flaxman.
Work 'til you're musclebound all night long!
("Musclebound")
"Musclebound" è una sorta di chiamata alle armi elettro-folk proletaria che anticipa di un paio di anni i
Depeche Mode operai tra le ciminiere di "Construction Time Again" (viene in mente "Pipeline"). L'andazzo ipnotico e ripetitivo intreccia insidiosi
jingle metallici a sonorità caucasiche, non a caso il video è ambientato in Cumbria, tra le cime del Kirkstone Pass, proprio perché la vegetazione ricordava la steppa russa. La band viene immortalata durante una difficoltosa escursione a cavallo, interrotta più volte a causa di una prolungata tempesta di neve. Quando Gary perse i sensi dopo esser stato sbalzato dal suo purosangue, il batterista John Keeble si rifiutò di proseguire e convinse anche gli altri membri a desistere. Così il regista Russell Mulcahy fu costretto a sborsare il doppio dei soldi inizialmente a disposizione: d'ora in avanti i costi si faranno sempre più alti, dato che proprio con "Musclebound" gli Spandau Ballet sembrano inaugurare una competizione al video più costoso con i Duran Duran (anch'essi agli ordini di Mulcahy, che un anno dopo per "Hungry Like The Wolf", "Save A Prayer" e "Rio" preferirà invece alcune località esotiche e soleggiate dello Sri Lanka).
Vorticosa e malaticcia, "Toys" ha le cadenze stranianti dei
Simple Minds di "Empires And Dance" sotto al muro di Berlino ("This Fear Of Gods"), mentre "Confused", gioiosa solo in superficie, utilizza il suono tipicamente
darkwave dei
Sisters Of Mercy o dei
Diaframma di "Elena" per poi sbocciare in frasi di synth che però non sono mai oscure e depresse, ma parlano anzi il linguaggio solare degli
Omd meno genetici di "Bunker Soldiers". Infine, "Age Of Blows", sfizietto strumentale in cui aleggiano gli spettri della "Warszawa" di
David Bowie ("
Low" è del 1977) e la tambureggiante
disco-funk da
B-movie anni Settanta "Glow", singolo in odor di certi
Inxs e
Japan. "Glow" verrà pubblicato come doppio lato A insieme a "Musclebound" e metterà il sigillo su un esordio sfrontato, narcisista e dissacrante.
Probabilmente non è il miglior parametro di riferimento per valutare il percorso artistico della band, che di qui in avanti sposerà un
sound decisamente diverso,
Journeys To Glory però resta uno spaccato imperdibile della controcultura dei tempi. Gli Spandau Ballet non amano troppo la
new wave, ma dimostrano di saperci stare benissimo.
New York, Diamond

Sulla scia di questo exploit, molti altri Blitz Kids strappano ingaggi e assediano le
chart statunitensi, Londra è la nuova capitale mondiale del
fashion e i suoi figliocci invadono l'America. A maggio gli stilisti di Axiom, marchio radical-chic fondato da Jo Baker, organizzano a New York una parata che più trendy non si può. Interviste,
session fotografiche, discoteche, alcol e sudore: sono ventuno in tutto tra cui
Sade Adu, Mandy Smith e Toyah Wilcox, e la settimana di bagordi
yankee si chiude con un set esclusivo degli Spandau Ballet all'Underground Club, tra Broadway e la Diciassettesima.
Il 4 marzo del 1982 esce
Diamond, che mette in vetrina alcuni di quei cromosomi che si riveleranno fondamentali nella transizione del gruppo verso il Dna
radio-friendly degli anni a venire. I sintetizzatori passano in secondo piano in favore di ritmiche selvagge e tribali, piatto forte "Chant No.1 (I Don't Need This Pressure On)" che irrompe alla terza posizione della Uk Singles Chart e negli Stati Uniti sfonda la Top 20. Il brano, destinato a rimanere uno dei loro cavalli di battaglia, mescola ottoni funk a percussioni calde e tropicali, tam-tam afro a strofe rap e cori festaioli con fiati
guest messi a disposizione dai colleghi Beggar & C. e simbolismo grafico che attinge dai nativi americani. Ne viene fuori un mix divertente e a suo modo pionieristico, molto simile agli esperimenti sgangherati dei primi
Wham! da villaggio vacanze - "Young Guns (Go For It!)" - o alle contaminazioni
jungle dei Bow Wow Wow.
Sulla stessa falsariga i possenti giri di basso di "Paint Me Down" e "Coffee Club", mentre "Instinction", originariamente non prevista come singolo, viene recapitata sul filo di lana a
Trevor Hornche la ritocca con intelligenza.
Reasons, reasons were here from the start
it's my instinction
("Instinction")
Fresco di lavoro con il duo vocale Dollar, il guru dell'elettronica sovraincide tastiere e arpa aggiuntive e risolleva in extremis le sorti di un album (e di una carriera...) che parevano inesorabilmente condannate all'oblio dopo il flop di "She Loved Like Diamond", solo quarantanovesima nonostante una clip sfarzosa ambientata alle terme romane di Bath.
La quasi
title track negli intenti avrebbe dovuto rappresentare l'altro pezzo forte, ma la critica storce il naso a causa di qualche gorgheggio troppo spericolato. Inoltre un certo gusto per la mistica ebraico-americana stride con le tematiche a sfondo sessuale, enfatizzate dalle labbra rosso fuoco della donna in copertina. In coda c'è spazio per i tre brani in assoluto più audaci dell'intero catalogo: ottima l'arabeggiante "Pharaoh", un po' più ingarbugliati i sette minuti di "Missionary" e la fioritura dei ciliegi "Innocence And Science" da acquerello
sakamotiano.
Nel complesso
Diamond resta un Lp incompiuto e forse incompreso, ma comunque da recuperare, ricco di spunti avvalorati da una ricerca incessante e arrangiamenti sempre più estrosi e meno minimali. Hadley è un
frontman carismatico che affonda le radici nel soul e nello swing, e la sua voce costituisce una risorsa importante per la band. "Ascoltavamo jazz e musica black,
Stevie Wonder e
Marvin Gaye, Sam Cook e Barry White": queste caratteristiche affiorano prepotenti nel successivo
True, che esce il 4 marzo del 1983 e segna un punto di non ritorno verso un
sound cosmopolita. D'ora in avanti gli "Spands" si allontaneranno dalle istanze massoniche
underground per approdare pian piano a lidi più affini semmai al
blue-eyed soul o a certo
sophisti-pop à-la Simply Red,
Prefab Sprout,
Deacon Blue e
Scritti Politti, non a caso qualcuno grida al tradimento anche per via del vestiario, che soppianta costumi e
maquillage con
tight e detergente. Ma la metamorfosi è necessaria e ogni dettaglio un salvagente, mai come in questa decade infatti rimane a galla solo chi sa cavalcare le maree.
True e Parade: il biglietto da visita per il mondo
Se
Journeys To Glory e
Diamond avevano procurato una certa visibilità agli Spandau Ballet in Gran Bretagna e nel resto d'Europa,
True li consacra superstar di livello planetario grazie a un paio di hit formidabili. Il chitarrista Gary Kemp, autore al solito di tutti i brani, non vorrebbe deludere il popolo del martedì sera, dallo staff però gli fanno notare che se nella vita vogliono combinare qualcosa di buono non possono continuare a veleggiare come una band di culto, soprattutto perché il boss della Chrysalis non vede l'ora di farli fuori e pure Trevor Horn abbandona la nave, mal digerito dal resto della ciurma. Dagger allora fa i nomi di Steve Jolley e Tony Swain, reduci dal varo di "Deep Sea Skiving" delle
Bananaramae "Body Talk" degli Imagination.
I've bought a ticket to the world, but now I've come back again
("True")
L'ingresso nel jet-set avviene in maniera logica e naturale: Gary si prende una cotta per la cantante degli Altered Images Clare Grogan dopo averla incontrata dietro le quinte a Top Of the Pops, così si fa accompagnare dal padre fino in Scozia solamente per prendere un tè insieme a lei. Il resto è la cronaca della love story non consumata più famosa degli anni Ottanta: hanno rispettivamente 22 e 18 anni e vivono troppo distanti l'uno dall'altra per frequentarsi, sentimentalmente parlando l'intrepido biondino torna a casa a mani vuote, ma in compenso si mette in tasca l'agognato biglietto per il mondo. La fanciulla infatti gli regala una copia di "Lolita" e Kemp ne ricava una soffice
ballad motowniana in Sol maggiore di circa sei minuti, "True", infarcita di richiami al libro di Nabokov ("take your seaside arms" e "with a thrill in my head and a pill in my tongue"), messaggi in codice per l'amata ("always in time/ but never in line for dreams") e un verso ("listening to Marvin all night long/ this is the sound of my soul") in omaggio al maestro Gaye, che scomparirà brutalmente giusto un anno dopo. Il brano staziona per quattro settimane al primo posto della
Uk Singles Chart assestando il più grande
smash della storia degli Spandau.
Registrato ai Compass Point Studios di Nassau, nelle Bahamas, anche l'album raggiunge la vetta spinto in quota dall'altro singolo-
monstre "Gold", autentico inno generazionale che si accontenta, si fa per ridere, della medaglia d'argento secondo solo a "Give It Up" dei Kc And The Sunshine Band. Tony ora riesce ad adattare con calibro millimetrico la foga punk delle radici a inequivocabili doti da
crooner, Steve Norman si converte in un sassofonista coi fiocchi e a partire da questo momento infila alcuni tra gli assoli più memorabili del decennio.
Gold! Always believe in your soul
You got the power to know you're indestructible, always believe in...
Lo
spy-video in stile James Bond venne girato in parte a Carmona, in Spagna, e in parte alla Leighton House di Holland Park a Londra (stessa
location utilizzata dagli Stranglers per "Golden Brown"): l'
intro in crescendo e i pomposi arpeggi di piano, uniti a una
performance da fuoriclasse, mettono il sigillo su un capolavoro del pop che ricalca solo a tratti le strutture
easy listening convenzionali. La funkeggiante "Pleasure" segue la regola d'oro e apre una scaletta dal
mood brioso e sognante, di cui il
midtempo jazzistico "Code Of Love" (fa il filo alla coeva "Smooth Operator" dell'amica
Sade) e la
disco-soft "Communication" sono due delle
highlight migliori.
"Heaven Is A Secret" mira all'orecchio senza però perdere di vista ritmiche comode solo all'apparenza, meno incisive "Foundation" e il primo singolo "Lifeline" (in patria è comunque un tormentone), che provano a scongiurare una certa somiglianza (e sarà un
leit-motiv degli anni a venire...) tramite l'inserimento di coretti frivoli ma pur sempre gradevoli.
Il rischio di scivolare nella banalità è alto, ma al netto di pregiudizi da
boy-band, il nuovo corso intrapreso con Jolley e Swain si rivela vincente. Su queste premesse
Parade è l'album della maturità: il 1984 è l'anno di "Mirror Moves" degli
Psychedelic Furs, "Sparkle In The Rain" dei
Simple Minds, "
Heartbeat City" dei
Cars e "No Sense Of Sin" dei Lotus Eaters, e gli Spandau Ballet sono chiamati a dare conferme se non vogliono vedersi tagliati fuori dal giro che conta. Adesso ci sono anche loro tra i nomi "in" del panorama internazionale, i temibili
Duran Duran con l'uscita di "Arena" diventano ufficialmente
wild boys e i singoli "Only When You Leave", "Highly Strung", "I'll Fly For You" e "Round And Round" costituiscono un antidoto fresco e accattivante a quanti vedono in Simon Le Bon il nemico da combattere. Tra le due band si infiamma una rivalità all'ultimo
book fotografico, se qualcuno segna con un'orecchietta la pagina degli "Spands" (ora le ragazzine invasate li chiamano così, e sono un esercito) un pizzico del merito è certamente di
Parade che offre più di un motivetto valido, otto per l'esattezza a cominciare da "Only When You Leave", altro guizzo da Top Ten che il 28 maggio del 1984 fa da apripista a quello che non è il loro album migliore ma senz'altro il più fluido.
Perfezionato a Monaco di Baviera ai mitici Musicland di
Giorgio Moroder, stilisticamente parlando si riallaccia al discorso intrapreso con il predecessore
True: nulla di cervellotico o macchinoso e ritornelli nemmeno troppo esuberanti, soltanto canzoni pulite, distinte e aggraziate che fanno dell'accuratezza formale il loro genoma. Unico neo, anche stavolta, una certa affinità di pentagramma, che se da un lato denuncia alcuni limiti al
songwriting, dall'altro forse ne avalla definitivamente la credibilità, visto che lo standard di Kemp scende di rado sotto la sufficienza.
Insomma, buona una buone tutte, una spanna sopra le altre la bellissima "I'll Fly For You", con la quale i nostri per la prima volta bussano ai vertici anche della classifica italiana (sesto posto, non era mai accaduto prima). Il Belpaese si accorge di loro ("Only When You Leave" diviene sigla della rubrica cinematografica Mediaset "Ciak News") lasciandosi sedurre volentieri da una visione
full-length di ampio respiro: manca il colpo assassino, ma la vivace "Highly Strung" (girata a Hong Kong con dedica alla piccola Jo e qualche cliché da anno del dragone), la
ballad rasserenante "Round And Round" (un altro
instant-classic) e quella
power "With The Pride" trovano un amalgama coeso e organico, che rinuncia a sensazionalismi da
one-hit wonder in nome di un ordito affabile e autorale.
"Nature Of The Beast" rispolvera synth di tenore epico che riportano indietro le lancette alla cara vecchia wave, della stessa foggia "Always In The Back Of My Mind" (graffiata da un energico
riff di chitarra) e la convincente "Revenge For Love", pervase da un velo drammatico di romanticismo e malinconia.
Le casse gongolano e il tour che segue è un trionfo, ciliegina sulla torta sette serate consecutive
sold-out alla Wembley Arena è la convocazione nello squadrone del Band Aid per il singolo benefico "Do They Know It's Christmas?", pensato a dicembre da
Bob Geldof e
Midge Ure per raccogliere fondi contro la fame in Etiopia. Il 13 luglio successivo Tony Hadley e soci salgono sul palco del
Live Aid assieme al fido Toby Chapman e alle coriste Shirley Lewis e Ruby James. Dopo "
Vienna" degli
Ultravox, arriva il loro turno e alle 13.46 in punto attaccano con "Only When You Leave", quindi svelano l'attesissimo inedito "Virgin" (di cui parleremo tra poco) e chiudono il set in bellezza con "True", mandando in visibilio i settantaduemila presenti allo stadio e una platea potenziale di circa di due miliardi di persone incollate agli schermi dai cinque continenti.
A fine mese il carrozzone del Parade Tour riprende il suo giro del mondo, ma durante lo scalo a Los Angeles Steve Norman si rompe i legamenti crociati e la band è costretta a cancellare le rimanenti tappe in programma. Per consolarsi dei mancati introiti allora la Chrysalis pensa bene di immettere tempestivamente sul mercato
The Singles Collection, raccolta doppio platino sulla quale però pende il veto del gruppo. Il contenzioso tra la parti arriva in tribunale, e prima della rottura definitiva l'etichetta si spara un'ultima cartuccia,
The Twelve Inch Mixes, che raccoglie le
long version dei singoli di
Journey To Glory, "Diamond" e "True" già pubblicate a suo tempo come
B-side. L'addio alla Chrysalis porta in dote un ricco contratto con la Cbs/Epic e un nuovo album per la verità non trascendentale, ma con all'interno un brano che consegna gli Spandau Ballet dritti alla leggenda.
Sogni pop oltre le barricate
Il 1986 è un anno particolarmente redditizio per i gestori dei bar e degli stabilimenti balneari, dal momento che tra "Lessons In Love" dei Level 42, "One Step" dei Kissing The Pink, "Geil" di Bruce And Bongo” o "Easy Lady" di Spagna non c'è che da cambiare le monetine in gettoni. Non tutti però sono in grado di carpire la differenza abissale tra una sbiadita targhetta da juke-box e un
bestseller di rilevanza storica. "Through The Barricades" non è una canzone qualsiasi, ma come eravamo e cosa siamo diventati, il ricordo dei nostri padri e ciò per cui hanno lottato, il candore della giovinezza e la paura di non farcela. Ascoltarla quarant'anni dopo significa prendere coscienza delle promesse non mantenute e di un sogno ancora possibile da realizzare, ecco perché gli Spandau Ballet, per chi c'era, non saranno mai una band come le altre.
Mother doesn't know where love has gone
she says it must be youth that keeps us feeling strong
Father made my history
he fought for what he thought would set us somehow free
Now I know what they're saying, it's a terrible beauty we've made
so we make our love on wasteland and through the barricades
La chitarra acustica gentile e confidenziale e una marcetta leggera di tamburo fanno da cornice alla storia di un amore ad ostacoli senza lieto fine, sullo sfondo del sanguinoso conflitto nell'Ulster squassato in quei giorni dalla guerra civile tra cattolici e protestanti. Novelli Giulietta e Romeo, due ragazzi di opposto credo religioso, che scavalcano le transenne della fede e sfidano le proprie famiglie per incontrarsi segretamente "nella terra di nessuno". Gary la compose in poche ore sull'onda emotiva della morte di Thomas "Kidso" Reilly, un ventiduenne addetto al
merchandising del "True Tour" al quale già le
Bananarama - di cui era stato
road manager - avevano dedicato "Rough Justice" (sul loro Lp eponimo del 1984). Venne ucciso a tradimento nella sua Belfast, e al termine di un estenuante processo, il soldato Ian Thain fu dichiarato colpevole di omicidio. Jim Reilly, fratello dello sfortunato Thomas, suonava la batteria negli Stiff Little Fingers, e quando Kemp si recherà in viaggio in Irlanda del Nord, lo accompagnerà a Falls Road a visitare la tomba. "Mentre ci dirigevamo vedevo le barricate che dividevano in due le strade, e ho toccato con mano quelle vibrazioni. Verso le due di notte il testo cominciò a prender forma nella mia mente, era la canzone stessa che mi chiedeva di esser scritta", racconterà il chitarrista alla Bbc, precisando però che "i versi non intendevano commemorare Reilly ma solo parlare d'amore, che è ciò che mi riesce meglio".
E non c'è che dire, stavolta gli è davvero riuscito benissimo: sarà l'ultimo numero da Top Ten, grazie a un'interpretazione magistrale e a una melodia che non si cancella. In Italia si arrampicherà sino alla seconda posizione ma non illudiamoci: eccezion fatta per l'altro singolo-bomba "Fight For Ourselves", presentato in anteprima al Festival di Sanremo e lanciato in orbita da un ritornello che definire "killer" sarebbe persino riduttivo, il quinto album
Through The Barricades tradisce le aspettative e si inceppa in un ibrido da stadio senza troppe sbavature ma privo di sussulti.
In questo periodo la combriccola si trasferisce per ragioni fiscali a Dublino, la Second British Invasion volge al tramonto e il nuovo produttore Gary Langan, co-fondatore degli Art Of Noise e artefice del successo di "Beauty Stab" degli
Abc, opta per un
sound più ruvido e grezzo, sul modello recente di
Simple Minds e
U2 che con "Once Upon A Time" e "Rattle And Hum" stanno giusto completando la loro trasfigurazione in leoni da anfiteatro. Tuttavia le note positive ci sono, ad esempio le spruzzate di sax che irradiano le trame di "Man In Chains" e del terzo singolo "How Many Lies?", con un arnese che nel rock possono dire in pochi di saper maneggiare quanto Steve Norman (magari i
Cure in "A Night Like This" o gli Eurythmics di "Revenge"), e delle
performance corali, come nel caso di "Virgin", sicure e baldanzose (tuttora è una delle più richieste ai concerti).
La scaletta si apre con "Barricades - Introduction", mini-suite di un minuto e sedici per solo-piano che cita la
title track, quindi con "Cross The Line" arriva una prima unghiata di chitarra elettrica: i cinque non fanno mistero di essere dei gran bevitori (Tony distribuisce addirittura un marchio di birra artigianale propria, la "Hadley's Gold") e professano la loro ammirazione per Bon Jovi e la fiorente scena
hair. Ma non posseggono le stigmate metal, così il trascurabile
filler "Snakes And Lovers" e "Swept" (da salvare il pathos, ma è dosato col contagocce) vivacchiano su un innocuo
adult contemporary che si accende e spegne a intermittenza.
Ad ogni modo, il "Through The Barricades - Across The Borders Tour" è campione d'incassi al botteghino: le due
residence indoor da sei serate ciascuna all'Ahoy di Rotterdam e alla Wembley Arena fanno registrare affluenze da record, e alla Casa de Campo di Madrid li accolgono festanti in ottantamila. In Italia poi è tripudio: da Palermo a Misano Adriatica, da Catanzaro a Lignano Sabbiadoro, l'abile impresario David Zard li porta un po' ovunque, Treviso si dichiara "Città Spandau" e celebra lo sbarco liberando in aria colombe bianche, fuochi d'artificio e migliaia di palloncini colorati.
Dopo la grande abbuffata, la band si prende un anno di pausa in cui prima suona a Barcellona per il re Juan Carlos nell'ambito della campagna per sponsorizzare le Olimpiadi (nel 1992 si terranno proprio nella città catalana), quindi torna in pista con del materiale inedito a basso voltaggio adrenalinico che si rivelerà inevitabilmente anche il suo canto del cigno.
1989: Heart Like A Sky e lo scioglimento

Il sesto album
Heart Like A Sky nasce sotto la cattiva stella di strategie editoriali anomale, così all'interno del gruppo affiorano tensioni che via via si acuiscono e portano a una spaccatura insanabile. Kemp stavolta adopera un multitraccia portatile su cui programma basso, tastiere e
drum machine insieme al braccio destro Toby Chapman, qualcuno però non accetta di essere spodestato nelle gerarchie decisionali da quello che in fondo rimane pur sempre un
sessionist, per quanto parte indiscutibilmente attiva nelle fortune accumulate. Perfezionato a Londra tra Townhouse, Mayfair e AIR Studios col titolo provvisorio di "Home", il disco esce il 24 settembre 1989 ma in Europa è un flop, mentre negli Usa non viene nemmeno pubblicato. Era già nell'aria da tempo e prima o poi sarebbe dovuto accadere, meglio in fondo che a fare le spese di questo reiterato andamento involutivo sia un album che avrebbe comunque avuto poco da offrire, condannato in partenza da deliri di egocentrismo e assenteismo in sala prove. Contenuti non poveri, ma frettolosi e svogliati, taccati da una presunzione di onnipotenza che, se ingiustificata, può costare caro.
La scaletta butta nel calderone alla rinfusa gli aromi
eighties meno speziati: "Handful Of Dust" ricalca in modo sospetto "Reason To Live" dei Kiss, "Crashed Into Love" mischia le carte di sentimento e
paillettes senza mai pescare il jolly dal mazzo ("Shattered Dreams" di Johnny Hates Jazz e "I Get Weak" di Belinda Carlisle si fanno rimpiangere), mentre "A Matter Of Time" è quel genere di
ballad che potrebbe funzionare nell'album d'esordio dei Boyzone oppure, fate voi, in quello d'addio dei
Bee Gees. Un filino più passionali "Windy Town" e l'atmosferica "Empty Spaces", ma la formula ristagna e non sorprende più nessuno. Da dimenticare "Big Feeling", malgrado i coretti ammiccanti in salsa Power Station, l'eloquente "Motivator" almeno tiene fede al titolo e prova a risollevare il morale con cadenze ruffiane (autore Steve Norman, è il primo pezzo non firmato Kemp dai tempi di The Makers).
Il meglio però lo lasciamo volutamente in ultimo, cosicché la parola "fine" su questa comunque illustre parabola venga scritta nella maniera se possibile meno traumatica e avvilente: l'
evergreen "Be Free With Your Love" accontenta l'
audience abbinando passo caraibico a uno spensierato
refrain di sapore gospel, buono anche il trascinante singolo "Raw" che trasuda calda sensualità e r'n'b da
dancefloor.
Dopo
Heart Like A Sky, gli Spandau Ballet si sfaldano e sul futuro si allungano ombre minacciose. Tony, Gary, Martin, John e Steve decidono di proseguire, chi più chi meno, per la propria strada, e prima che il tramonto cali inesorabile a ciascuno resta quantomeno il tempo di imboccare il viale.
Oltre gli Spandau Ballet: Tony HadleyTra i
vocalist di grido degli anni Ottanta, Tony Hadley è uno dei pochissimi ad aver preso lezioni di canto, così firma un contratto con la Emi e nel 1992 pubblica il suo primo lavoro solista. Lo sostengono in questa nuova stimolante avventura Jerry Stevenson alla chitarra e Kevin Miller al basso, ma soprattutto gli ex-compagni John Keeble e Toby Chapman: nonostante l'aria di casa però,
The State Of Play non replica i fasti di era Spandau, attestandosi senza troppi alti né bassi su un pop-rock commerciale votato al consumo. Cinque canzoni su dodici le scrive lui, ma lo consumeranno per la verità in pochi, se è vero che malgrado le esecuzioni impeccabili - di cui il singolo "For Your Blue Eyes Only", "One Good Reason" e "Just The Thought Of You" sono le diapositive più a fuoco - in classifica passa praticamente inosservato.
Ma Tony non si dà per vinto e fonda una propria etichetta, la SlipStream Records tramite la quale nel 1996 partorisce il brano "Build Me Up", che entra nella colonna sonora del film di Maria Giese "When Saturday Comes/ Sabato nel pallone" (a proposito, il cantante è un accanito tifoso dell'Arsenal). Passano appena dodici mesi e la
label tedesca Polygram gli concede una nuova opportunità, convinta del suo enorme potenziale inespresso: nel 1997 è la volta allora dell'eponimo
Tony Hadley, che raccoglie riletture di alcuni classici degli anni Settanta e Ottanta come "Wonderful Life" di Black, "Slave To Love" di
Bryan Ferry, "Woman In Chains" dei
Tears For Fears e "Save A Prayer" degli storici nemici/amici Duran Duran. Da segnalare anche l'inedito "She", con benaugurante dedica alla piccola Toni appena avuta dalla moglie Leonie Lawson: la coppia è sposata dal febbraio 1983 e ha altri due figli, MacKenzie e Thomas.
I risultati però continuano a latitare, e in attesa di tempi propizi, Hadley tiene allenata la sua magnifica ugola prestandola alle collaborazioni più o meno probabili (ad esempio,
Brian May, Paul Young,
Alice Cooper e
Jon Anderson degli
Yes, ma anche artisti dance come Tin Tin Out, Eddie Lock e Disco Bros.). Dopo una rapida sortita nell'album "The Time Machine" di
Alan Parsons con "Out Of the Blue",
Debut brinda al nuovo millennio con il meglio della produzione solista riproposto in versione live (esce nel 2000, ma le registrazioni vennero effettuate durante un concerto tenuto nel marzo '92 a Colonia). Sul fronte sentimentale nel 2003 la sua vita subisce uno scossone e dopo quasi vent'anni, il matrimonio con Leonie Lawson naufraga a causa di un'altra donna: Tony si innamora di quella che poco più tardi diventerà la sua seconda (e attuale) moglie, Alison Evers, e con lei avrà altre due figlie, Zara e Genevieve.
Negli stessi giorni l'
appeal di Hadley torna di gran moda grazie alla vittoria nel reality show "Reborn In The Usa", così ne approfitta tempestivamente per lanciare
True Ballads che alle cover "Dance With Me" degli Alphaville, "Free Fallin'" di
Tom Petty e "All This Time" di
Sting unisce tre dei maggiori successi della sua vecchia band ("True", "Through The Barricades" e "Only When You Leave").
La dimensione live evidentemente gli calza ancora a pennello e nel 2005 prima un tour con Peter Cox dei Go West quindi un altro al fianco di Martin Fry degli
Abc lo ritraggono in gran forma e nei panni a lui più idonei.
Tornando ai lavori in studio, invece, nel 2006 tocca a
Passing Strangers col quale si cimenta in un raffinato repertorio jazz-swing. "There Must Be A Way" di Frankie Vaughan, "Just A Gigolo" del pistoiese Nello Casucci e "Bewitched, Bothered And Bewildered" di Rodgers&Hart regalano finalmente un paio di acuti, tutti orchestrati col fine aiuto della Paul Moran Big Band. L'esperienza gli vale un papillon al Cambridge Theathre nel musical "Chicago", dopo di che si dà alla conduzione, presentando sulle frequenze radio britanniche gli show del venerdì e del sabato sera targati Virgin.
Amatissimo dalle nostre parti, nel 2008 vola a
Sanremo dove duetta in "Grande" con Paolo Meneguzzi, nel 2011 invece incide assieme a
Caparezza il singolo bilingue "Goodbye Malinconia" sul quale canta in inglese ritornello e ultima strofa (si può trovare nell'album "Il sogno eretico" del rapper pugliese). L'Italia diviene ora un po' sua patria d'adozione, non a caso sceglie di fermarsi e allietare il soggiorno con
The Christmas Album. Come si può facilmente intuire, si tratta di una compilation di brani natalizi musicata da un agguerrito plotone nostrano (Giorgio Secco, Luca Scarpa, Paolo Costa, Danilo Madonia,
Aldo Tagliapietra e moltissimi altri). Anche qui nulla da sottolineare, se non le solite interpretazioni formalmente ineccepibili dei
traditional "Let It Snow! Let It Snow! Let It Snow!", "White Christmas" e "Ave Maria" e due inediti che sventolano alto il vessillo tricolore ("Every Second I'm Away" è scritto assieme ad Annalisa Scarrone e al produttore del progetto Claudio Guidetti, "Fairy Tale Of New York" invece è cantata con la piacentina
Nina Zilli).
Talking To The Moon, distribuito dal 2018 via MoonStone Music, non si discosta poi molto dalle conclamate linee guida di un
crooning lunatico e suadente, che trova nei gioiellini "What Am I?", "Unwanted" e "Tonight Belongs To Us" alcune delle sue movenze più aristocratiche. Nel palinsesto ci sono anche pezzi più ballabili e spregiudicati, come l'
ouverture "Take Back Everything" o "Accident Waiting To Happen", ma si limitano a svolgere con prudenza niente più che il compitino: ad oggi, resta il suo ultimo lascito, decidesse di fermarsi qui la carriera solista di Tony Hadley, si risolverebbe in un roboante ma maledettamente piacevole nulla di fatto.
Fratelli: Gary e Martin KempPosta fine all'epopea degli Spandau Ballet, Gary Kemp si appropria delle
royalties, mettendo di fatto i bastoni tra le ruote alle aspirazioni degli ex-compagni, che proveranno più volte ad avanzare pretese legali. Invano, dal momento che, eccezion fatta per "Motivator", i brani sono tutti inchiostro della sua penna. Il chitarrista già da bambino aveva avuto una qualche esperienza nella recitazione, così in parallelo all'attività col gruppo porta avanti un'apprezzata carriera da attore. Nel 1989 Barry Samson lo inserisce nel cast di "Ice Pawn", pellicola dai risvolti drammatici sulle gesta di un campione di skate sul ghiaccio. Nel 1990 lui e il fratello Martin sono protagonisti di "The Krays" ("I Corvi") di Peter Medak, in cui interpretano Ronald e Reginald Kray, due gangster della Swinging London. Ma il ruolo più prestigioso assegnato a Gary è sicuramente quello di Sy Spector nel
blockbuster del 1992 "The Bodyguard/Guardia del corpo", in cui l'ex-agente della scorta presidenziale Kevin Costner
alias Frank Farmer viene assoldato per proteggere da uno stalker l'impaurita Whitney Houston (qui nei panni della popstar Rachel Marron).
Ciclista, appassionato di escursioni in montagna e tifoso anch'egli dell'Arsenal, Kemp nel 1990 ha avuto il suo primo figlio Finlay dall'attrice Sadie Frost, dalla quale ha poi divorziato nel 1995. Proprio in quell'anno deciderà di consolarsi dalla cocente delusione pubblicando il suo primo album solista
Little Bruises, una sorta di catarsi interiore e
j'accuse al confessionale che medita sulla fine della relazione con toni amareggiati. "An Inexperienced Man", "She Said" e "Ophelia Drowning" combinano influenze soul-jazz a musica irlandese, una miscela sui generis non molto dissimile da ciò che negli stessi giorni andavano tentando ad esempio
Midge Ure in "Breathe" o
Sting in "Mercury Falling".
Nel 2003 si risposa con la stilista Lauren Barber dalla quale ha altri tre figli, Milo Wolf, Kit e Rex, frattanto scrive con Guy Pratt i musical "A Terrible Beauty" (basato su un libro di Shane Connaughton) e "La Cimice" (da una
pièce di Majakovskij) e nel 2009 dà alle stampe l'autobiografia "I Know This Much: From Soho To Spandau". Dal 2018 è il cantante della Nick Mason's Saurceful Of Secrets, band psychedelic-rock allestita dall'ex-batterista dei
Pink Floyd che porta in giro "
The Dark Side Of The Moon" e altre perle del catalogo
early.
Infine nel 2021 è uscito in piena pandemia il suo secondo album
Insolo, un lavoro fosco ma degno della massima attenzione che stavolta basa la propria ragion d'essere sull'ossessione per il passato e sull'angoscia dell'esistenza. La struggente
title track, "Too Much" (alla batteria Roger Taylor dei
Queen) e "I Am The Past" strizzano l'occhio a
Supertramp e
Scott Walker con teatralità anni Settanta, notevoli pure la semi-orchestrale "Our Light", il singolo reggaeggiante "Ahead Of The Game" e la conclusiva "The Haunted".
Suo fratello Martin Kemp ha un curriculum per molti versi speculare, che ha rischiato di interrompersi bruscamente nel 1995 quando gli vennero diagnosticati due tumori al cervello. Da allora può dirsi un miracolato e vive con una placca di metallo inserita nel cranio, che ha definito "la cosa migliore che mi sia mai capitata", visto che gli ha dato paradossalmente modo di maturare e liberarsi dagli eccessi. A differenza degli altri ex-Spandau, il bassista non ha particolari frecce al suo arco vocale né richieste di partenariato, così dopo il
break-up non incide più alcun disco e sceglie di sopperire alla lacuna gettandosi a capofitto anch'egli nel grande e piccolo schermo con un bottino ancor più prolifico del suo
alter ego Gary. Al summenzionato "The Krays", fanno seguito "Embrace Of The Vampire" (del canadese Carl Bessai), "Cyber Bandits", "Sugar Town" (con lui ci sono John Taylor dei
Duran Duran e John Doe degli
X), "Back In Business" di Chris Munro e "Age Of Kill" di Neil Jones, oltre a una miriade di apparizioni in serie tv che in questa sede sarebbe impossibile elencare, tre su tutte "I racconti della cripta", "Love Lies Bleeding" e la più recente "McDonalds And Dodds" del 2021.
Martin è sposato dal 1988 con la cantante Shirlie Holliman, metà del duo femminile "Pepsie&Shirlie" e già corista degli
Wham!, conosciuta grazie alla comune amicizia con
George Michael.
Steve Norman e John KeebleA inizio anni 90 il buon Steve Norman tenta di ricostruirsi una vita a Ibiza, dove collabora con Nacho Sotomayor, Dj Pippi, Lenny Krarup e altri musicisti trapiantati nell'isola. Con il produttore e
songwriter Rafa Peletey, compone "A Journey Through Savannahper", quindi nel 2001 reclutano alla voce Shelley Preston dei Bucks Fizz e si ribattezzano Cloudfish. Sono molto attivi dal vivo e compaiono nel
debut eponimo dei toscani Quintessenza, in tutto però producono un unico vero brano autografo, "So High", inserito nella compilation "Dome Ibiza: The Chillout Session Vol. 2".
Steve intanto continua ad esibirsi a diaria nel Regno Unito prestando il suo inconfondibile sax a eventi misti di stampo
acid ma anche a "Back In The Room" di Bruce Foxton e "Everything's Getting Closer To Be Over" di James Stevenson.
Nel 2009 infine apre e chiude una breve parentesi con Martin Ikin e Dj John Johnes per l'Ep-remix "Promised Land" a nome "The Collective".
Chiudiamo la carrellata con il batterista John Keeble, che scongiura il pre-pensionamento dividendo equamente le residue energie tra la discografia solista di Tony Hadley e quella di Fish dei
Marillion. Keeble aveva avuto modo di conoscere quest'ultimo dietro le quinte del
Live Aid, tra i due nascerà un legame affettivo talmente sincero nel 1988 il cantante gli farà anche da testimone al matrimonio con Leaflyn, tuttora sua moglie. Più avanti avrà modo di collaborare anche con 69 Daze, the Herbs e Tim Deluxe, oltre che di fondare una band propria, chiamata I Play Rock, assieme a Richie B e Chris Paulo Dale, in cui dimostrerà di non saper solo menare le bacchette ma di possedere anche una discreta voce.
Un'ultima volta

Come per ogni saga che si rispetti, a vent'anni dalla separazione anche per gli Spandau Ballet c'è spazio per una sciagurata
reunion sulla quale sarebbe più dignitoso sorvolare, nonostante la presentazione in pompa magna laddove tutto era cominciato, che ai più nostalgici farà comunque scendere una lacrimuccia.
Once More viene annunciato nel 2009 con una conferenza stampa che si tiene su quella stessa nave HMS Belfast attraccata sul Tamigi a bordo della quale il 26 giugno 1980 avevano tenuto uno dei loro primi concerti. L'album si risolve in un insulso trattamento antirughe in chiave semi-acustica di undici dei loro brani più amati, oltre a un paio di trascurabili inediti anacronistici e demodé (la
title track "Once More" e "Love Is All", firmata Tony Hadley). Leggermente meglio, in fin dei conti, "She Loved Like Diamond", "Through The Barricades" e "I'll Fly For You", ma solo perché contenevano già da principio dei tratti riferibili a un'eventuale dimensione
unplugged, il resto serve a malapena a rilanciare il
brand in vista di alcuni live buoni a far cassa (nell'aprile del 2010 vanno in
tournée in Australia insieme ai
Tears For Fears).
Cinque anni dopo, nel 2014, esce il docu-film "Soul Boys Of The Western World", opera prima della
film-maker George Hencken, che si addentra nell'universo-Spandau ripercorrendone per intero ascesa e declino. Al momento manca ahinoi la resurrezione: il 3 aprile del 2017 difatti Hadley, stanco dei ripetuti tira e molla, affida a un laconico tweet il suo addio definitivo, né potrà mai rimpiazzarlo nei cuori della gente il pur valido Ross William Wild, classe '88, voluto fortemente al suo posto da Gary Kemp, che ne era rimasto stregato dopo averlo visto all'opera nel musical "Million Dollar Quartet". Il ragazzo mostra di che pasta è fatto, ma fa appena in tempo a scrivere il suo nome sui registri che decide anche lui di abdicare per dedicarsi anima e corpo ai suoi "Mercutio". Con lui alla voce gli Spandau Ballet portano a termine un unico tour europeo che nell'ottobre 2018 fa scalo anche in Italia al Fabrique di Milano, all'Atlantico di Roma e al Gran Teatro Geox di Padova. Ma non è la stessa cosa, sempre per chi c'era...
Photo by Chris Boland