The beginning...*
Liverpool, autunno 1978. Paul Humphreys e Andy McCluskey sono due ex-compagni di scuola poco più che diciottenni con un’unica passione: la musica elettronica tedesca. Sin dai tempi del liceo i due giovani, anziché porsi il problema di imparare a suonare strumenti, li collezionano, in indiretta osservanza ai dettami del punk. Più che il punk, infatti, può la folgorazione occorsa tre anni prima. L’11 settembre 1975, i Kraftwerk si esibiscono all’Empire Theatre e i giovanotti sono in prima fila, così infatuati da riuscire nell’impresa, tutt’altro che facile, visti i personaggi, di fare la loro conoscenza. Quello stesso giorno nasce l’amicizia tra Andy e Karl Bartos, che sfocerà in una collaborazione datata 1993 nel progetto post-Kraftwerk di quest’ultimo, gli Electric Music.
Il feticismo tecnologico, unito a una certa mancanza di danari, li spinge dunque a raccattare qua e là qualsiasi aggeggio che emetta suoni sintetici, purché a prezzi abbordabili. Con in testa gli irraggiungibili macchinari dei musicisti di Dusseldorf, la premiata coppia riesce ad acquisire, fra ordini per corrispondenza, usati sicuri e sussidi di disoccupazione tutti investiti in rate, un synth Korg MS20, un organo elettrico Elgam Symphony, un Korg Micro-Preset, un vecchio Selmer Pianotron e una drum machine Roland CR-78. Completa il lotto il basso elettrico imbracciato da Andy, unico strumento convenzionale di un set che, fatta qualche eccezione, potremmo anche definire di fortuna.
Nel mese di ottobre del 1978 accade che i due, spesso chiusi in casa a smanettare tra leve e jack, abbiano l’opportunità di esibirsi all’Eric’s Club, il locale più frequentato di Liverpool, sul palco ove già si avvicendano i nomi caldi che avrebbero fatto la storia della stagione post-punk.
E’ probabile che l’occasione venga offerta proprio a Andy, in virtù di un suo breve trascorso con Dalek I Love You che, assieme ai Teardrop Explodes e agli Echo & The Bunnymen, movimentavano la scena del Merseyside.
Le idee non sono ancora bene a fuoco, il sound è grezzo e fortemente debitore, guarda caso, dei Kraftwerk di "Radio Activity" (dalle cui note di copertina proviene uno dei nomi del complesso, VCLXI che si alterna all’altrettanto eccentrico "The Messerschmitt Twins": entrambi diventeranno dei titoli di canzoni degli Omd), le parti cantate ancora diluite tra le frequenze prodotte dalle onde radio e dagli oscillatori, e tuttavia imbevute di un’inaspettata dose di orecchiabilità. Oscure manovre nei territori del pop.
La sostanza e l’originalità dissimulate in quelle incestuose manipolazioni non sfuggono al re mida della Factory, Tony Wilson, il quale propone loro un contratto per un singolo. Il nome che si dà la band è Orchestral Manoeuvres In The Dark, dal titolo di una delle loro prime composizioni.
L’unica testimonianza ufficiale di questa fase è data dal raro Ep "Free Artefact - The Unreleased '78 Tapes", distribuito postumo nel 1980 come omaggio allegato alle prime diecimila copie del secondo album.
Le prime scosse elettriche
Nel maggio del 1979 esce "Electricity" sotto l’egida della Factory. Quello che si rivelerà negli anni come un singolo più famoso che venduto (incredibilmente, fu in seguito ristampato più volte senza mai raggiungere posizioni di classifica almeno decorose) ha un parto difficilissimo. Wilson impone per la canzone, e per la b-side "Almost", la produzione dell’illustre socio Martin Hannett (sua la firma su entrambi gli album dei Joy Division, tanto per intenderci, ma non solo), che però non risulta gradita al gruppo. Il contenzioso si risolve con un mezzo compromesso: lato A nella versione originale, lato B con "Almost" nell’accezione di Hannett.
Batteria elettronica in "quattro quarti", frase analogica che uccide, voce implorante di McCluskey, accessibilità melodica ai massimi termini, "Electricity" diventa in breve un piccolo culto e in seguito uno dei brani simbolo della carriera degli Omd.
"I don’t understand you, guys: do you want to be Abba or Joy Division?"
(Carol Wilson, boss della Din Disc)
E’ per questo che i talent-scout della neonata etichetta Din Disc, controllata dalla Virgin, si convincono che l’appeal esercitato dall’inedito distillato di glacialità teutoniche e di romanticherie fifties val bene una scommessa. "Non potevamo credere che le porte potessero aprirsi così facilmente – ricorda Andy – trovavo inverosimile che ci fossero dei pazzi pronti a scommettere su di noi". "Fu fantastico e incredibile allo stesso tempo – gli fa eco Paul - e pensare che questo era per noi un progetto del tutto estemporaneo. Ricordo ancora il giorno della firma sul contratto, in particolare le occhiate stupite che ci scambiavamo Andy e io".
A questo punto, i ben vestiti giovanotti, forti di un’etichetta credibile e di una certa stabilità economica, riescono a ritagliarsi il ruolo di opening-act per i live di Gary Numan, la cui celebrità, a cavallo fra il 1979 e il 1980, conosce in Inghilterra ben pochi eguali. Una serie di concerti sold-out e i ricavi del contratto interamente investiti nel Gramophone Suite, lo studio che i due si erano ricavati nei pressi dell’Eric’s, sono le mosse decisive che collocano la coppia su un’insperata rampa di lancio.
Le grandi manovre
Non c’è altro tempo da perdere. I due topi da sala d’incisione chiamano a raccolta gli amici della scuola, cominciando da due membri della vecchia band liceale (i The Id), il batterista Malcom Holmes e il sassofonista/tastierista Martin Cooper, e proseguendo con Paul Collister (che appare talvolta con lo pseudonimo di Chester Valentino), il mago del suono invero già presente quale eminenza grigia, assieme al fido Winston, nelle primissime uscite del live tour. Come dite? Chi è Winston? E’ il terzo membro on stage del gruppo, ammesso per l’occasione anche fra i banchi: trattasi di un registratore a bobine Teac di proprietà dello stesso Collister, su cui venivano pre-registrate le basi delle performance dal vivo.
A questi ancora saltuari collaboratori (solo una parte entrerà poi in pianta stabile nella line-up) si aggiunge Dave Fairbairn, chiamato a suonare le esigue parti di chitarra previste. Le registrazioni dell’omonimo debut-album (la copertina è del grafico Peter Saville, che ne firmerà diverse per gli Omd, nonché altre di assai celebri, fra cui quelle dei Joy Division e dei New Order), che verrà alla luce nel febbraio del 1980, procedono spedite e si chiudono in breve tempo.
I motivi di tale risolutezza sono da ritrovare nel fatto che i pezzi sono una selezione mirata del materiale composto negli anni del dilettantismo, e nell’essenzialità di una produzione sì spartana, ma che palesa sapienti doti di trattamento del suono. A conti fatti non c’è di che stupirsi, considerato il flirt pluriennale occorso tra la nostra accoppiata di eroi e le loro amiche macchine.
Il disco, pur pagando dazio all’elettronica dalle tinte naif dei Neu!, e avvicinandosi alla materia pop con la stupita irriverenza di Brian Eno, lascia comunque intravedere dei nuovi orizzonti per divenire, col senno di poi, uno dei primi canovacci su cui saranno scritte parecchie pagine del nuovo pop elettronico britannico. Quello destinato a imperversare nel mondo per buona parte del nuovo decennio.
Alla marcetta ska-oriented di "Bunker Soldiers" fa da controcanto il ciondolante caracollare di "Dancing", alla marzialità sui generis di "Red Frame/White Light" si contrappone il denso romanticismo di "Messages", che al terzo tentativo (dopo le non fortunate performance di "Electricity" e "Red Frame/White Light") catapulta finalmente il gruppo al numero 13 delle classifiche, segnando la rotta per le successive fortune a 45 giri. Una collezione di piccoli saggi new pop con un imprinting di spessore, che porterà a un lusinghiero ventisettesimo posto nelle Uk Chart, in cui stazionerà per ventinove settimane.
Lo sgancio della prima bomba
A soli otto mesi dall’esordio, ecco arrivare Organisation, il secondo episodio sulla lunga distanza.
A trainare l’album è il singolo "Enola Gay", che con i suoi cinque milioni di esemplari venduti nel mondo e con i primi posti in Italia (primo loro numero uno assoluto), Spagna e Portogallo consegna agli Orchestral le chiavi del vero successo. "Enola Gay" svela a tutti l’alchimia vincente di un sound che bilancia un irresistibile tormentone strumentale con un drammatico incedere vocale. Con testi, non proprio solari, a raccontare la storia dell’aereo B-29 e del suo pilota Paul Tibbetts che sganciò la bomba atomica su Hiroshima e che diede al velivolo il nome della madre. Enola Gay, appunto.
Ma chi già pensa di trovarsi di fronte a degli operai dell’easy listening è smaccatamente fuori strada. E in effetti Organisation (dal nome del primo progetto da cui, nel 1970, nacquero i Kraftwerk) è un album dalle tinte così cupe da candidarsi come la risposta in chiave synth-pop ai Joy Division. Non a caso il turbamento per la morte di Ian Curtis, conosciuto ai tempi dell’Eric’s e drammaticamente suicidatosi in quell’anno, esercita una forte influenza sugli umori del gruppo, tanto da dettare i testi della bellissima "Statues" che si chiude con un emblematico "I can’t imagine how this ever came to be".
Il lavoro si snoda fra le umbratili movenze di "2nd Thought", i minacciosi contorcimenti synth-punk di "The Misunderstanding", la china malinconica di "The Promise" (che vede il riuscito debutto di Paul nella veste di lead vocalist) e della vecchia cover di un brano di Dick Hayes, "The More I See You", presentando persino un dark swing con "Motion And Heart". Una menzione a parte va alla sacrale suite meta-industriale a più movimenti "Stanlow", la cui desolata struggenza mantiene sullo sfondo i sinistri battiti della raffineria da cui prende il nome.
L’album è un capolavoro, supera di slancio gli approcci più giocosi del suo predecessore virando su una produzione più profonda ed elaborata, giocando la sua partita fra tormentate introspezioni dal retrogusto gotico in cui è comunque la melodia a farla da padrona. Le pulsioni che lo animano e la complessità di fondo non impediscono a Organisation, oltre che di attestarsi al numero 6 delle classifiche inglesi, di ottenere una significativa affermazione anche nel resto d’Europa.
Architettura di una consacrazione
Sfruttando l’incalcolabile vantaggio di disporre del Gramophone Suite per la messa a punto dei brani, gli Omd si presentano nei negozi a un solo anno di distanza da Organisation, e prima ancora, ad agosto, col singolo strappalacrime "Souvenir", il primo cantato da Humphreys, che raggiunge il numero 3 in classifica. Per quanto la scrittura rimanga appannaggio dei co-fondatori, la line-up della band si estende ufficialmente e in pianta stabile a Mal Holmes e a Martin Cooper, che nel corso delle session viene temporaneamente rimpiazzato dal tastierista Mike Douglas. Coi suoi tappeti orchestrali e i ritornelli nostalgici che ben si coniugano ai tradizionali rumori di fondo, Architecture And Morality si afferma come l’album della consapevolezza, attestandosi quale sintesi stilistica dei due precedenti lavori.
La strumentazione si fa più rigogliosa, nel sound si odono in modo conclamato le chitarre, tra le tastiere fa capolino persino un Mellotron, tanto caro alle prog band anni 70 ma spesso inviso ai musicisti della nuova generazione. Con la sapiente produzione di Richard Manwaring, già con gli Human League, si registra un aggiustamento nell’uso della voce da parte di McCluskey, il quale si libera della malata latenza che caratterizzò le session di Organisation in favore di un crooning sì malinconico ma non più così disperato.
Anche in questa occasione non si percepiscono incertezze nella composizione che spazia dal lirismo epico di "Joan Of Arc/Maid Of Orleans" (quest’ultimo sarà il singolo più venduto in Germania nel 1982) ai turbamenti romantici di "She’s Leaving", passando per l’ambient speziato Kraftwerk della title track. Le chitarre sorreggono tanto la chiaroscurale apertura di "The New Stone Age" che la chiusura, affidata all’elegiaca "The Beginning And The End". In mezzo, e a conclusione del primo lato del vinile, troviamo "Sealand": una mini-sinfonia di oltre sette minuti che trasporta in crescendo un notturno per synth nel drumming industriale del suo epilogo.
Da segnalare anche il bellissimo lavoro di artwork firmato da Saville, che si ripeterà sui medesimi livelli con la copertina del disco seguente.
Terzo album in tre anni e terzo centro, cui va il suggello di un risultato di vendite mai più superato: numero 3 in Uk, ed esiti analoghi in quasi tutti i paesi europei, con tre milioni di copie vendute nel mondo.
"There’s a brand new science, for a brand new world, with no moral codes and no big words. No Aryan races, no clone workers, no science-fiction nightmares. But: healthy children, cured diseases, giant harvests and new species..."
(Genetic Enineering)
Quelli che si presentano ai blocchi di partenza al termine di un tour esaltante che si protrae per buona parte del 1982 sono quattro ragazzi che non hanno smarrito neppure un briciolo dell’entusiasmo degli esordi ma soprattutto, in linea con le aspirazioni iniziali, che possono finalmente permettersi ogni strumento d’avanguardia. I Kraftwerk sono tecnicamente quasi a portata di mano. A condizionare le registrazioni del nuovo album dobbiamo annoverare una buona dose di audacia, magari unita a una sorta d’incoscienza per gli eclatanti risultati di vendita sin lì ottenuti. Specie se rapportati a un sound che, molto più spesso di quanto si creda, s’incammina da sempre su crinali tutt’altro che semplici, quando non sperimentali. Lo studio del gruppo si trasforma in un arsenale d’archibugi all’ultimo grido. Ad affiancare il mai abbandonato armamentario degli esordi appaiono l’Oberheim OBX, due emulator della Roland, ma anche il noto giocattolo "Speak And Spell" della Texas Instruments, che darà una sua connotazione alla nuova fatica.
Dazzle Ships, questo il titolo tratto da un quadro del 1919 del pittore vorticista Edward Wadsworth che pure ha ispirato l’artwork di Saville, è l’ennesimo lavoro all’altezza della loro fama, e tuttavia non corroborato dal riscontro del pubblico. Stiamo anzi parlando, prosaicamente, di un flop commerciale che ai tre milioni di copie del suo predecessore ne oppone a malapena trecentomila.
E' opinione diffusa che lo scivolone sia addebitabile all’eccessiva sperimentazione profusa, ma questa spiegazione non convince appieno. "Radio Waves" è forse più criptica di "The Misunderstanding", "ABC Auto-Industry" più inaccessibile di "Architecture And Morality"? E ancora: cosa manca a un synth-pop single definitivo quale è "Telegraph" per bissare il successo della (per certi versi) meno immediata "Maid Of Orleans"? Osservando quanto accade nelle classifiche inglesi già a partire dal 1982, propendiamo piuttosto per un lento ma progressivo cambio di orientamento da parte del pubblico, dapprima sedotto dai colori oscuri espressi dalla prima ondata post-punk, ma via via sempre più incline al pop più solare e svagato degli Abc, a quello più strettamente ballabile degli Human League di Phil Oakey, o magari a quello soul-oriented degli Yazoo. Una mera contingenza, quindi. Una delle tante e labili che decretano le sorti commerciali di un gruppo.
Gli Omd datati 1983 sono un complesso che plasma il pure pop inglese con lo stesso ardimento con cui i Neu! trasfiguravano il rock dieci anni prima, seguendo fedelmente un personalissimo copione che vede alternarsi brani a presa rapida ("Genetic Engineering", "Telegraph"), lineari ballate di stampo mitteleuropeo ("All The Things We Made") e finanche un walzer ("International"), nonché puri esperimenti sonori ("Dazzle Ships Parts II, III & VII"). Il tutto attraverso l’ennesimo aggiornamento dei suoni e un ulteriore affinamento della produzione, ancora più compatta e non a caso affidata a Rhett Davies (Genesis, Roxy Music, Brian Eno, Talking Heads sono i nomi che spiccano dal suo palmares di producer).
La scoperta dell’America
Sarà che ad Andy e soci secca parecchio assistere da semplici spettatori al momento più alto della nuova British invasion in terra americana (nel luglio 1983, ben diciotto dei primi quaranta singoli più venduti in Usa sono inglesi), sarà che perdere d’improvviso una buona fetta di popolarità lascia un retrogusto amaro, fatto sta che Junk Culture, distribuito nella primavera del 1984, sancisce il deciso distacco stilistico degli Orchestral da tutto il materiale precedente, e il contestuale avvicinamento a canoni più omologati.
Il cielo degli Omd, fino a quel momento grigio, semmai serenamente crepuscolare, si apre dunque ad ampi squarci di sole. Intanto l’album non viene pre-lavorato al Gramophone. Dopodiché, a determinare il cambio di rotta, è il radicale mutamento della strumentazione, che vede un uso massiccio del Fairlight, delle drum machine di nuova generazione e del sax di Martin Cooper. Ma c'è, soprattutto, lo sfacciato tentativo di virare verso atmosfere caraibiche (!) che amoreggiano con un songwriting spensierato quando non sfrontatamente ruffiano.
Il risultato spiazza, ma se da un lato li aiuta a recuperare una posizione nella top ten in madrepatria, non solo fallisce l’appuntamento con gli americani (modesto il numero 182 ottenuto), ma lascia perplessi molti dei vecchi estimatori.
Volendo osservare il bicchiere mezzo pieno, rileviamo che, anche nella nuova veste, gli Omd non perdono la propensione a scrivere singoli di forte appeal. Almeno per il mercato europeo. Così, tanto la stupidotta "Locomotion" (numero cinque) che il fortunato jingle da camicia hawaiana "Talking Loud And Clear" (numero undici) raccolgono i dovuti consensi, come pure il frizzante uptempo "Tesla Girls" (numero ventuno).
Alla voce attività va ascritta "Never Turn Away" che così com’è potrebbe tranquillamente essere il prossimo singolo dei Junior Boys, e più in generale una sezione ritmica che fa oggi molti proseliti fra le nuove leve del synth-pop. Purtuttavia sono troppi i momenti d’imbarazzo o di caduta per fare di Junk Culture un album riuscito.
Evidentemente insoddisfatti per non aver centrato l’obiettivo principale, McCluskey e compari decidono che, per entrare davvero nelle classifiche d’oltreoceano, può realisticamente tornare utile un produttore americano. Fa così il suo debutto in console Stephen Hague che diventerà in seguito un asso per 45 giri di successo, e non solo: sua la firma su carichi da undici quali "True Faith" dei New Order e "West End Girls" dei Pet Shop Boys, di cui peraltro realizzerà l’intero debut-album. Un altro segnale del tentativo di sbarco nella terra dell’oro si coglie dalla copertina di Crush, che esce nell’estate del 1985. Il quadro immortalato potrebbe essere facilmente attribuito al celebre pittore newyorkese Edward Hopper, e in effetti solo le elevate royalties richieste per l’utilizzo di una sua opera fanno cadere la scelta su un tributo imitazione del 1930, che ha come autore Paul Slater.
Ad anticipare l’uscita sulla lunga distanza, a maggio viene dato alle stampe il singolo "So In Love" che, con un sax arioso e il concorso di strumenti tradizionali, può definirsi una pop-song in senso stretto. E che pop-song. Questa volta il pubblico americano premia i ragazzi di Liverpool con un lusinghiero ventiseiesimo posto, visto che il pezzo coniuga un’ormai consumata abilità a lavorare di strofa, inciso e ritornello a un irrefrenabile appeal radiofonico. Il brano viene un po’ snobbato in madrepatria, tuttavia Crush fa la sua comparsa al numero 13, cui fa da contraltare un’appena accettabile trentottesima tacca negli Stati Uniti.
Crush è l’unico disco degli Orchestral che mostra interesse per il rock. Addirittura dalla trascinante "88 Seconds In Greensboro" occhieggia una chitarra distorta, che introduce una cavalcata - sempre di chitarra - dal retrogusto psichedelico. Il resto alterna buoni momenti ("The Native Daughters Of The Golden West") ad altri in cui comanda il manierismo ("Hold You"). La prevalenza dei primi sui secondi fa pendere il giudizio verso una piena sufficienza, anche se ormai occorre prendere atto che l’antico smalto stia via via scemando.
Proprio quando il sogno di imbroccare un grande hit oltreoceano sembra svanito, ecco che il regista sceneggiatore John Hughes chiede loro di scrivere qualcosa per la colonna sonora della commedia "Pretty In Pink". Detto fatto. Pur non avendo niente di più rispetto a molte altre loro canzoni, e semmai qualcosa in meno, la piaciona "If You Leave" coglie la top five tanto in Usa che in Canada.
E’ probabile che proprio quest’evento abbia indirettamente causato la sciagura artistica e commerciale che si concretizza, sul finire del 1986, con The Pacific Age. Con Hague ancora alla produzione, il disco si rivela un maldestro tentativo di replicare su 33 giri l’estemporanea formula del brano concepito per la colonna sonora. Tenta che ritenta, dall’indigesto pastone, fortunatamente ignorato dai più, emerge almeno per il botteghino la discreta riuscita di "Forever Live And Die", al numero 18 in America e in quasi tutte le top ten dei paesi che contano. E’ però bizzarro rilevare come gli Omd conquistino certi mercati proprio quando la benzina sembra in via di esaurimento.
*…And the end?
Nonostante il supporto al tour americano dei Depeche Mode, il The Best che esce nel 1988 non fa presagire nulla di buono. Il prevedibile passaggio all’incasso, accompagnato dall’ennesimo singolo "Dreaming", coincide con la separazione tra McCluskey, che manterrà il marchio originario, e gli altri tre membri.
Il trio di transfughi s’imbarcherà nel dimenticabile progetto The Listening Pool, il cui modesto debutto "Still Life" sarà edito solo nel 1994, al termine di una diatriba legale con la Virgin, che fortunatamente non inficerà l’amicizia con Andy.
Dopo una lunga pausa di riflessione, Paul costituisce un nuovo duo assieme a Claudia Brücken, la storica cantante dei Propaganda: gli Onetwo debuttano con l’Ep "Item" nel 2004, cui segue, nel 2007, il dignitoso Instead.
Passano pochi mesi dal traumatico split e McCluskey coopta i musicisti Lloyd Massett e Stuart Kershaw per dare nuova linfa agli Omd. Si arriva al 1991 e con Sugar Tax si recupera una freschezza che pareva perduta. Il mood è oltremodo immediato, talvolta ballabile e, pur mantenendosi fedele alla scuola del synth-pop, riesce nell’impresa di non suonare come fuori tempo massimo. Il pubblico se ne accorge e gli regala un terzo posto che va a far coppia con quello dell’azzeccato singolo "Sailing On The Seven Seas".
Tra le altre melodie euro-pop "Sugar Tax" presenta una chiacchierata cover in chiave sexy disco della kraftwerkiana "Neon Lights".
Non sappiamo in che rapporti fossero rimasti Andy e Stephen Hague. Fatto sta che fra l’uscita prodotta da quest’ultimo per i New Order, l’affermato "Republic", e il nuovo album del gruppo di Liverpool Liberator non trascorre neppure un mese. Siamo nel 1993, e Liberator può considerarsi una rilettura in chiave techno, non sempre ispiratissima, della pop-disco di "Sugar Tax". Un aggiornamento del sound analogo a quello operato dal combo di Manchester, la cui maggior presa è però pienamente giustificata da una qualità superiore.
Un ultimo tentativo di unire le recenti esperienze con le tematiche più solenni che connotavano le origini avviene in Universal (1996), ma la scarsa vena lo rende un disco fiacco da cui prescindere volentieri. La collection del 1998 nulla aggiunge al "The Best" già sul mercato, ma è il segnale che anche la seconda fase dell’avventura del gruppo è davvero giunta al capolinea.
Nel materiale postumo licenziato su cd occorre menzionare Navigation (2001), che raccoglie anche gli esperimenti presenti fra le b-side dei numerosi singoli. Dal minimalismo all’ambient passando per la musica concreta (ma anche una gustosa rilettura in chiave sintetica della reediana "Waiting For The Man"), come a mettere in risalto delle attitudini alternative che concorrono in modo decisivo pure nella costruzione dei brani di successo. Andy prosegue la sua carriera artistica nella veste di autore mainstream, e lo fa in modo commercialmente strepitoso, firmando assieme a Stuart Kershaw gran parte del materiale con cui le Atomic Kitten dominano le classifiche all’inizio del nuovo millennio.
Ma il richiamo del palco è talmente forte che, nel 2007, gli attempati Paul Humphreys, Martin Cooper e Mal Holmes si riuniscono a McCluskey, con la scusa di portare in tour la ristampa dei 25 anni di Architecture And Morality uscita l’anno prima. Il tour europeo registra numerose date da tutto esaurito, tanto che viene replicato nel 2008, questa volta con gli amici China Crisis in veste di gruppo spalla.
L’entusiasmo per l’inattesa reunion spinge il ritrovato quartetto a rimettersi al lavoro per scrivere del nuovo materiale, così nel settembre 2010 esce un nuovo disco di inediti, il primo dopo ventiquattro anni con la formazione originaria. Una rimpatriata in piena regola che partorisce History Of Modern. Purtroppo a mancare all'appello sono le canzoni, malgrado i tanti segni di buona volontà sparsi qua e là che un po' commuovono per i rimandi ("History Of Modern (Part II)") o che accendono un sorriso di compiacimento ("RFWK", titolo dedicato ai Kraftwerk, i riconosciuti maestri degli esordi). Non pezzi brutti in assoluto, ma certamente un po' scoloriti, senza cattiveria né sana malinconia.
Pare infatti che tutto si svolga in una terra di mezzo in cui gli Omd (pardon, Andy McCluskey & the band) passano il tempo amleticamente chiedendosi quale sia la strada da prendere, finendo per non imboccarne alcuna. Lo slancio sincero che ha rimesso in moto il gruppo avrebbe meritato miglior sorte, magari tuffandosi nel cuore senza più far ritorno in una testa che filtra, elabora e che in fin dei conti toglie linfa vitale. È mancata l'incoscienza, o meglio ha vinto la troppa coscienza, e questo è un guaio serio anche per una grande band.
Ma gli Omd nel 2013 decidono di riprovarci. Trascorsi tre anni da un’acclamata reunion rimasta tale solo nelle intenzioni di quell’autentico signore che risponde al nome di Andy McCluskey, la band di Liverpool affila i sintetizzatori ripresentandosi ai blocchi di partenza con rinnovato fervore.
Ma il fervore da solo non basta, e Andy deve averlo ben compreso proprio all’indomani dell’incerta produzione di Hystory Of Modern, allorché avemmo occasione per rimarcare l’assenza di canzoni davvero all’altezza che, a ben vedere, sono la chance più importante per chi, come gli Omd, è titolare di un pop sound molto difficile da eludere, anche nelle aspettative di chi ascolta.
Lo stesso Andy non faceva mistero di anelare a un ritorno alle origini, possibilmente – aggiungiamo noi - evitando le derive ipertecnologiche che hanno fatto deragliare troppi dischi della band dal 1984 ad oggi: se con Hystory Of Modern l’errore è stato ineluttabilmente ripetuto, in English Electric l’operazione “back to the future” in parte riesce, andando a pescare gli afflati creativi da inclinazioni sbocciate ai tempi di Architecture And Morality e di Dazzle Ships, ma anche tra quelle più edulcorate di piacioneria di “Junk Culture”, almeno nei suoi episodi realmente a fuoco. Il tutto, adoperandosi meno di altre volte per dissimulare gli indizi dei numi tutelari del loro sound, quei Kraftwerk che si palesano senza troppi veli già nel primo singolo estratto “Metroland”, liberamente tratto proprio dalla kratwerkiana “Europe Endless” (Trans Europe Express, 1977). Qualcuno potrebbe storcere il naso, e lo si potrebbe anche comprendere, ma la capacità degli Omd di marchiarlo col proprio inconfondibile imprimatur è un valore aggiunto che non può essere ignorato.
Un altro aspetto che, almeno in apparenza, potrebbe non deporre a favore di questo disco, è dato dai suoi temi cardine che rimandano all’atavica nostalgia per il futuro che fu, qui scolpito in composizioni che evocano senza mezzi termini i celebri intermezzi di “Dazzle Ships”: l’iniziale “Please Remain Seated”, la paradigmatica “The Future Will Be Silent”, con tanto di loop trafugato ai Kraftwerk di “Computerwelt”, ma anche “Decimal” e “Atomic Ranch”. Tutte piuttosto gradevoli anche se, nell’era del software Siri che chiacchiera amabilmente con noi via iPhone, purtroppo svuotate dalle antiche suggestioni.
Proseguendo fra le citazioni, “Night Café” si colloca nel solco di quelle buone canzoni da 45 giri che non sono quasi mai mancate, nemmeno nei periodi meno luminosi (tipo “Forever Live And Die” e “Dreaming”, per intenderci), “Our System” riporta in auge i chorus di “Architecture And Morality”, mentre “Kissing The Machine” si abbevera alla fonte, rimodellando in modo calligrafico un vecchio brano che McCluskey scrisse con Karl Bartos, nel progetto dell’ex-Kraftwerk denominato Elektric Music.
Discorso a parte meritano “Helen Of Troy” da un lato, figlia del cliché finché si vuole ma emotivamente degna del miglior repertorio, e il rovescio della medaglia dato da “Stay With Me” e “Dresden” (il secondo singolo, ahinoi): la prima, l’unica con Paul Humphreys alla voce, tenta di replicare la struggente e memorabile “Souvenir” ma produce l’effetto di una cover poco riuscita di “I Like Chopin” (ricordate Gazebo?), mentre la seconda, col suo piglio saltellante da zecchino d’oro, sembra un outtake di “Liberator”, non certo fra i dischi più riusciti della band.
A risollevare le sorti, riportandole su buoni standard, ci pensa il pop ambient “The Final Song” con il sample di “Lonely Night”- brano del 1959 interpretato dalla jazz singer Abbey Lincoln - a disegnare un originale contrasto fra mondi in apparenza lontani. Anche se i quesiti sulla sua effettiva utilità sono destinati a rimanere in sospeso, e incertezze a parte, English Electric è un disco sincero, alla luce del sole. Una partita giocata a carte scoperte, con il sorriso sulle labbra e con il cuore colmo di malcelata nostalgia.
Nel 2017 esce The Punishment Of Luxury, ma, stringi stringi, quello che riesce meglio è proprio il titolo dell’album, ricavato da un dipinto su tela del pittore italiano Giovanni Segantini del 1891, noto come "La punizione della lussuria".
Poca inventiva e tanto mestiere, da intendere come noia. Una porzione di disco dove la premiata ditta McCluskey/Humphreys si ricorda di essere (stata?) fondamentalmente una band synth-pop e tira fuori una manciata di brani di onesta fattura. Per esempio la title track, dal piglio grintoso e con percussivi ben pompati e attuali a ricamo di una buona synth-melody. O magari la ballata "As We Open So We Close", che ha l’indubbio merito di avere una struttura più complessa e articolata rispetto al classico Omd-style, così come lo pseudo-valzer di "What Have We Done", per l’occasione vocalizzato da Humpreys.
Poi, arriva il momento del travestimento. Si tirano fuori da qualche cassa baule le tute fluorescenti e al riparo nell’home studio pieno di specchi si gioca a fare i Kraftwerk. E vai di vocoder, oscillatori di frequenza, orchestrazioni, arpeggi e voci terze in narrativa, come la più sfegatata delle cover band. E, attenzione, qui il plagio non riguarda più il solo suono in tutte le sue sfaccettature, ma in un crescendo quasi wagneriano si estende pure ai titoli delle canzoni ("Isotype" e "Robot Man" su tutte), e non risparmia nemmeno lo stile dei videoclip, dove ovviamente sono presenti le biciclette e altre simbologie che riportano direttamente a Dusseldorf.
Un album, dunque, per metà appena sufficiente e nell’altra metà davvero imbarazzante, che conferma come negli ultimi anni gli Omd siano sprofondati lentamente nella mediocrità più banale, come nemmeno un corpo inghiottito dalle sabbie mobili.
Sei anni dopo, però, il nuovo lavoro Bauhaus Staircase (2023) si rivela un disco per molti versi sorprendente, recuperando quello stupore adolescenziale che aveva segnato le sorti degli inizi - e che annoverò gli Omd tra i traghettatori del neonato pop elettronico dai dancefloor d’avanguardia all’airplay radiofonico e alle classifiche - conciliandolo con una maestria acquisita nei decenni passati in sala d’incisione a dosare suoni e atmosfere.
Tanti sono i motivi ritrovati dall’ispiratissimo quaderno degli appunti, come a ripercorrere i tratti distintivi che hanno connotato una carriera: dall’apocalisse annunciata di “Antropocene”, il cui testo è solo in apparenza addolcito dall’ariosa linea melodica, ai brani il cui ritornello viene delegato alle tastiere (vero trademark della casa, come nella title track), dai nostalgismi neoromantici di “Look At You Now”, “Dont’ Go” e “Healing”, alle squisite velleità industriali di “Slow Train”. E poi non mancano gli scintillanti richiami, nemmeno troppo nascosti, alle glorie che furono di “Architecture And Morality”(in “Aphrodite’s Favourite Child”), i divertissement delle voci artificiali che accompagnano “Evolution Of Species” (anche qui, pur con leggerezza, un’evoluzione verso l’inevitabile fine) e che rimandano all’epopea dello splendido ma incompreso “Dazzle Ships” (1983). In “Veruschka” troviamo persino le cifre stilistiche riconducibili al 1991 di “Sugar Tax”, l’ultimo album di grande livello degli Omd prima di questo.
In tutto ciò, resta da chiedersi come sia possibile che Andy McCluskey, 65 anni il prossimo giugno, canti ancora con lo stesso disperato squillo da crooner anni 50, esattamente come quando di anni ne aveva però 25, ma anche come i “dimenticati” Omd siano riusciti a debuttare al numero 2 della Uk Chart, mettendo in fila nomi con ben altra eco planetaria: miracoli della natura e bizzarrie che solo gli inglesi possono spiegare.
Nostalgismi a parte, in ogni caso, quella degli Orchestral Manoeuvres In The Dark resta una delle esperienze emblematiche di un decennio, ma anche qualcosa di più. Capaci di coniare un sound inedito innervando la facilità d’ascolto con dosi mirate d’elettronica d’avanguardia, con la loro musica retrofuturista sono tuttora un punto di partenza per molti musicisti che si misurano col nuovo pop (Junior Boys, Hot Chip, Postal Service, per citarne alcuni). Oltre che rimanere irrimediabilmente nel cuore di chi, a suo tempo, li ha vissuti da vicino.
Contributi di Mauro Caproni ("The Punishment Of Luxury")
ORCHESTRAL MANOEUVRES IN THE DARK | ||
Orchestral Manoeuvres In The Dark (Din Disc Virgin, 1980) | 8 | |
Organisation (Din Disc Virgin, 1980) | 9 | |
Architecture And Morality (Din Disc Virgin, 1981) | 8,5 | |
Dazzle Ships (Virgin, 1983) | 8 | |
Junk Culture (Virgin, 1984) | 5 | |
Crush (Virgin, 1985) | 6 | |
The Pacific Age (Virgin, 1986) | 4,5 | |
The Best (antologia, Virgin, 1988) | 7 | |
Sugar Tax (Virgin, 1991) | 7 | |
Liberator (Virgin, 1993) | 5,5 | |
Universal (Virgin, 1996) | 4 | |
The Omd Singles (antologia, Virgin, 1998) | 6,5 | |
The Peel Sessions (Virgin, 2000) | 6,5 | |
Navigation — The Omd b-sides (Virgin, 2001) | 7 | |
History Of Modern (Blue Noise, 2010) | 5 | |
English Electric (BMG, 2013) | 6,5 | |
The Punishment Of Luxury (White Noise, 2017) | 5 | |
Bauhaus Staircase (White Noise, 2023) | 8 | |
THE LISTENING POOL | ||
Still Life (Telegraph Records, 1994) | 4 | |
ONETWO | ||
Instead (ThereThere Music, 2007) | 6 |
Sito ufficiale | |
Myspace | |
Testi | |
VIDEO | |
Electricity (videoclip da Orchestral Manoeuvres In The Dark, 1980) | |
Enola Gay (videoclip da Organisation, 1980) | |
Promise (videoclip da Organisation, 1980) | |
Souvenir (videoclip da Architecture And Morality, 1981) | |
Joan Of Arc/Maid Of Orleans (videoclip da Architecture And Morality, 1981) | |
Telegraph (videoclip da Dazzle Ships, 1983) | |
If You Leave (videoclip, singolo, 1985) |