Anno domini 1978, Downes (futuro Asia, poi con anche con Horn stesso nella seconda stagione degli Yes) e Woolley compongono gli accordi di base, Horn ci adatta un testo nostalgico basato su un racconto breve di fanta-musica con tanto di refrain semplice, quasi innocente, quintessenza della cantabilità. La canzone è troppo esplosiva per essere liquidata a qualche cantante leggero dal successo volatile. I tre si dividono: da una parte Woolley cercherà, invano, un successo negli States proprio incidendo una personale versione della neonata canzone (con un giovane Thomas Dolby alle tastiere elettroniche), in qualche modo ancora derivante dal glam, dall’altra il duo Horn-Downes si rinomina Buggles e ne incide una versione infinitamente più elaborata, prodotta e post-prodotta, persino adornata e barocca, destinata a diventare un’icona musicale tout-court.
Il motto “l’uomo che inventò gli anni 80” sta proprio qui. Tecnicamente uscita come singolo (corredato da modernissimo video) nel 1979, il brano è la scintilla assoluta di synth-pop, electro-pop, dance-pop, rimirata in tutta la sua sfavillante bellezza un minuto prima della detonazione. Ma non finisce certo qui.
Anzitutto la struttura della canzone, pop solo in parte. Inizia un’incantata toccata di piano rutilante “trattato” elettronicamente; l’accompagnamento letteralmente germoglia senza tante lungaggini: battito proto-techno, oboe, archi, svolazzi di tastiere colorate, synth orchestrale. Icona nell’icona è poi il duetto tra la voce splendidamente “radiofonica” di Horn (un effetto che costò ai produttori lunghe sedute di missaggio) e la voce femminile persa tra gorgheggi operistici, coretti ye-ye - il celeberrimo “ouah-ouah” - vocalizzi da sirena, oltre ovviamente al motto-refrain che dà il titolo al pezzo.
Dopo la prima parte di ritornello, l’arrangiamento si arricchisce ancora aumentando la tensione, fino alla seconda parte. Da qui iniziano modulazioni e variazioni. Anzitutto uno splendido bridge con grande stacco, poi la ripresa dell’incipit, quindi di nuovo il ritornello con un’impetuosa modulazione, una variazione basata sulla tonalità della strofa, e un dilagare in senso corale. Non c’è nemmeno il tempo di udire l’ennesima addizione d’arrangiamento (un filo di assolo di chitarra) che tutto si spegne per poi ricomparire in una nuova variazione da camera, quasi pastorale, forse la più commovente.
L’arrangiamento che cambia di continuo, la produzione consumabilissima, la struttura arzigogolata, ne fanno la più imperiosa delle pop-song, un monumento alla doppiezza della musica commerciale: nostalgia del passato e rimpianto dei tempi andati come contenuto, espressi però tramite un eloquio tecnologico ad altissima definizione, proiettato nel futuro, la forma.
Ma il piano musicale è senza dubbio quello più interessante. La pop-song, oltre a uno splendido uso della forma-canzone, acquisisce silenziosamente e invisibilmente stilemi classici. C’è una struttura di tema e variazioni, c’è il dialogo operistico da duetto ritradotto in forma sintetica, alienata, c’è la forma-sonata attraverso l’esposizione dei due temi e il loro sviluppo, c’è una forma ternaria da minuetto. Si potrebbe persino intravedere una forma-concerto, con tanto di cadenza improvvisata finale, un libero giocare con alcuni elementi portanti del brano.
Si aggiunga il fatto che fu anche la prima hit moderna, coverizzata allo sfinimento e canticchiata da sempre in tutto il mondo, persino storpiata orribilmente in spot pubblicitari, che aprì ufficialmente le trasmissioni di Mtv nel 1981 in modo quasi autosarcastico (la nuova generazione dei video che avrebbe ucciso i bei tempi della radio, mutatis mutandis della vera musica), in pratica l’inizio del retronuevo prima ancora di aver approcciato e capito cosa fosse il nuevo. Cosa si vuole di più da una canzone?
Scheda dei Buggles presso Discogs |