Non è raro nutrire delle riserve dinnanzi a un musicista che si presenta al pubblico con una certa (troppa?) frequenza. Questo perché, a ogni uscita, corre l'obbligo di chiedersi se sia davvero necessario l'ultimo lavoro della serie, in un riflesso condizionato che diventa prevenzione dovuta forse al timore di aver perduto dei passaggi, o al dubbio di trovarsi a valutare umori già sentiti.
Questo approccio può valere anche se il musicista in questione è un grande innovatore come John Foxx, pioniere del post-punk prima e del synth-pop poi, ma capace anche di anticipare il movimento electro sul finire dello scorso millennio: a fronte di sette album nei primi nove anni di carriera e del successivo decennio di quasi assoluto mutismo (dodici anni per l'esattezza, se escludiamo l'estemporanea parentesi dei Nation 12), negli ultimi tre lustri si contano a oggi una ventina di dischi inediti (!), nei quali sono racchiuse esperienze che passano dal techno-pop, affiancato a Louis Gordon, fino alle derive ambientali solistiche o in compagnia di altri notabili del filone (Harold Budd in primis), per giungere ai reading e ai sodalizi prestigiosi come quello con Robin Guthrie di due anni or sono. Stiamo perciò riferendo di una schizofrenia artistica, temporale e nei contenuti, che ha pochi paragoni e che, in quanto tale, obbliga a una costante rilettura delle intenzioni del suo protagonista. In questo intricato contesto, pieno di bellezze ma anche di ineluttabili passaggi a vuoto, l'avvicinamento a "Interplay" non può rappresentare un'eccezione.
Scritto a quattro mani con Ben Edwards (meglio conosciuto come Benge), ardito sperimentatore, compositore di onde analogiche, nonché primario collezionista di sintetizzatori vintage del Regno Unito, il disco reclama un'attenzione che, avanzando con gli ascolti, mostra in pieno di meritare. Che parassero altrove i cultori dello skip selvaggio o gli aficionados di un ascolto e via, perché quest'album, pur sviluppandosi in forma canzone, non fa nulla per lasciarsi abbordare al primo colpo. Soprattutto in presenza dei pregiudizi di cui sopra, che sulle prime hanno visto colpevolmente coinvolto anche chi vi scrive.
Venendo ai contenuti, non andremmo a ricercare le sue matrici nel periodo ultravoxiano e neppure nell'era "Metamatic", men che meno nei soundscape ambientali della saga di "Cathedral Oceans" o nel dream-pop mistico di "Mirrorball". Il punto di partenza è rappresentato dal decennale legame artistico con Louis Gordon, salpato "notturno" da "Shifting City" (1997) e approdato un po' più spigoloso e vissuto nell'accoppiata del 2006 "From Trash" e "Sideways".
Probabilmente ispirato da nuovi approcci compositivi, l'ex leader degli Ultravox ritrova freschezza nella sala d'incisione di Edwards, così che l'utilizzo di macchinari come il moog modular system in una delle sue prime incarnazioni degli anni 60 inietta combustibile altamente infiammabile nel motore della creatività. Il risultato è un lotto di canzoni di filmica apocalisse metropolitana, che si snodano in un tourbillon di ricerca sonora sublimata dalla penna di Foxx, ormai definitivamente calato nei panni del songwriter tecnologico.
Segnaliamo su tutte l'irruente ebm di "Shatterproof" (quasi un'apologia dei Nitzer Ebb), l'inno post-moderno "Evergreen" (for-ever-ever-green), il duetto con Myra Arroyo dei Ladytron in "Watching A Building On Fire" e il mantra minimal "The Good Shadow" che, nella sua parte strumentale, è un autentico omaggio ai Kraftwerk di "Ralf Und Florian".
L'unico piccolo neo - almeno agli occhi di noi romantici che ancora aneliamo a un nuovo "Systems Of Romance" - è il timbro vocale del nostro, forse troppo fagocitato da una cascata di vocoder e/o trattamenti assortiti, da cui è esente null'altro che la bellissima title track. Si tratta di una scelta stilistica comprensibile, in linea con il taglio del disco, ma è comunque un peccato, dato che parliamo di una delle ugole più sfolgoranti del post-punk elettronico.
Commenta il disco sul forum
13/04/2011