Duisburg dista un pugno di chilometri da Düsseldorf. Ha un che di straniante ritrovarsi al tramonto fra i suoi viali semideserti dopo essersi lasciati alle spalle il brulicante fermento dell'Altstadt renana. Silenzio irreale, sparuti passanti si frappongono tra la stazione e la lunga passeggiata che conduce al Theater am Marientor. Un nient'affatto rassicurante parco costeggia il nostro marciapiede, dei negozi serrati quello opposto. Dopo circa un chilometro, una piazza oblunga con un chiosco a lato, e i suoi quattro attempati avventori con l'immancabile birra a corredo. Una coppia di giovani fumano e bevono su una panchina. Non dovrebbe mancare molto. Ci affacciamo su un'ampia strada a due corsie, almeno questa ce la figuriamo un po' trafficata. Niente di tutto questo. Appena girato l'angolo, su un cartellone luminoso che promette impronunciabili appuntamenti culturali, campeggia un inequivocabile "Ultravox, Theater am Marientor": l'anelata location è lì, a cento metri.
Ed è un attimo ritrovarsi ragazzino entusiasta sugli spalti di un Palalido gremito (1981), tardo adolescente compiaciuto tra le seggiole del Palatrussardi (nell'ultima uscita italiana con la line-up di "Vienna", 1984, pochi mesi prima del Live Aid), giovanotto contrariato nell'appurare l'assenza alla batteria di Warren Cann (era il 1986), e infine vedovo inconsolabile nel 1993, quando Billy Currie ebbe la pessima trovata di presentare il marchio della band, condito di comparse, nel dimenticabile ultimo live act milanese dello Shocking Club. Poi più nulla. Un fiume di ricordi contrastanti, com'è d'uopo per un gruppo che, nel bene e nel male, mi accompagna da una vita.
Il teatro è di recente costruzione, nello stile inappuntabile e sobrio dell'architettura teutonica, e finalmente là fuori si possono apprezzare vere forme di vita sociale. Non di primo pelo, a dirla tutta. Non so come, ma un tizio sulla quarantina che arriva da Monaco di Baviera mi attacca bottone in inglese e nel giro di cinque minuti riesce a sciorinarmi (ricambiato) il suo curriculum da spettatore di Ure e soci. Apprendo verosimilmente anche i motivi del mancato accredito per l'intervista, visto che l'asciutta e-mail dell'organizzazione non me li aveva comunicati: la band ha trascorso gran parte del tempo libero con i membri del fan club, almeno quelli disposti a scucire i cento e rotti euro previsti per il pacchetto "meet & greet". Peccato: ci riproveremo sul suolo amico, nel caso i nostri dovessero pensare di calcarlo nel 2010, magari in coda alla già annunciata tournée tedesca del prossimo aprile.
L'interno teatro mantiene le promesse, velluto rosso ovunque, corrimano e parapetto in ottone, palco elegante e spazioso il giusto, sonorizzazione ovattata e all'altezza persino del disco messo a sottofondo per ingannare l'attesa: l'omonimo primo dei La Düsseldorf di Klaus Dinger, roba che non sarei stato davvero in grado di scegliere un titolo più a tema.
Il pubblico, composto e silenzioso, riempie per tre quarti l'arena (tutta la platea e metà della galleria, circa 1.500 persone): neanche un brusio, men che meno i fischi d'impazienza che anticipano qualsiasi concerto rock, solo l'occhio vigile dei commessi pronti a bloccare ogni tentativo di scattare fotografie. Per fortuna almeno questa velleità andrà scemando durante lo show, assieme alla pretesa, finanche in platea, di ancorare ognuno al proprio posto a sedere. Luci soffuse blu a squarciare la penombra. Venti e trenta, si comincia.
Un ticchettio familiare anticipa l'ingresso dei quattro, abbastanza ben vestiti nella prevalenza cromatica nera che però da sola non dissimula i chiletti in eccesso di Billy, e neppure la pelata di Midge, ben compensata da una montatura d'occhiali da vista all'ultimo grido. Non è necessario il primo accordo di tastiera per riconoscere "Astradyne": da quell'intro di un minuto è iniziata nell'80 l'avventura milionaria degli Ultravox era Ure, dal successivo colpo di batteria che ne sviluppa il tema epico il mio attualissimo brivido nel rivederli insieme, on stage, dopo quasi tre decenni.
"We were so young, we were too vain", declama Midge dopo aver riffato a dovere di chitarra. Anche in questo caso basta l'attacco, forse meno, e il testo di "Passing Strangers" appare inevitabilmente più attuale oggi di quando fu scritto, ancor più nella constatazione che sì, il tempo passa davvero troppo velocemente, "correndo attraverso i ricordi come ladri nella notte".
Potrebbe scapparci la lacrimuccia, in fin dei conti questa è la serata in cui ci si può mostrare nostalgici senza inibizioni. E invece preferisco scrollarmi di dosso le emozioni e rimanere ancorato a quanto sta accadendo, così da scorgere le increspature nella voce, o magari qualche incertezza nel drumming. In effetti, qualcosa si sente e qualcosa si è perso per strada, anche se passa in secondo piano rispetto a una scaletta che lascia senza respiro, dal momento che "We Stand Alone" è solo propedeutica a farci immergere nelle gelide acque di "Mr. X" (e qui il baritono parlato di Warren Cann, intatto, non lascia scampo almeno quanto i sospiri di violino di Billy: "I'm still searching...".), e che la più brillante performance vocale di tutto il live, "Visions In Blue", ti scaraventa addosso un tris da paura estratto da "Rage In Eden", fra il sequencer robotico di "The Thin Wall", la decadente struggevolezza di "I Remember (Death In The Afternoon)" e lo squadrato incedere litanistico del brano da cui l'album prende il titolo.
Un pensiero corre ai detrattori del complesso, almeno a quelli che lo bollano come "troppo commerciale": si saranno fermati, e pure distrattamente, ai singoli di maggior successo.
Le canzoni nella versione live concedono se possibile ancor più spazio all'elettronica, così non è infrequente osservare Chris Cross alle prese coi bassi del sintetizzatore, e lo stesso Midge appostarsi dietro a una tastiera per puntellare d'incisi e di frasi portanti le inconfondibili fughe di Billy, cui il gruppo deve parecchio del suo sound.
La pausa intimista di "Lament", Midge sui toni bassi è sempre lui. Eccolo di nuovo sfoderare la chitarra, Chris imbraccia il basso, Warren picchia il quattro quarti coi suoi tipici cambi veloci, Billy alza il mento e le braccia alternandole, nella sua caratteristica postura fra l'ironico e il solenne: "One Small Day", il pubblico salta in piedi e così rimane nell'ennesimo assalto al cuore neo-romantico della mitteleuropa di "All Stood Still". E restare immobili, adesso, profuma d'impresa.
Il buio avvolge "Your Name (Has Slipped My Mind Again)", Midge recita disperazione mentre il pad ribattuto saggia il silenzio, con gli ultimi battiti che sono anche i primi di "Vienna" per un medley che è un tuffo nella malinconia. La prova di fuoco è giunta, è la cima Coppi del vocalist che vi si arrampica dapprima con passo risoluto, salvo poi alzarsi sui pedali quando l'ottava si fa ripida, impiegando il mestiere laddove un tempo filava spedito come bere un bicchier d'acqua. Ma va bene anche così, con un grido finale spezzato che prudentemente sostituisce l'acuto, e con Billy a deliziarci di violino prima, e con la scala maestosa di piano-tastiera poi.
È il momento di lasciar cantare gli astanti, e allora largo a "Reap The Wild Wind", "Dancing With Tears In My Eyes" (anche in questo caso, lo confesso, rammentavo vocalizzi più brillanti) e, in crescendo a chiudere, a "Hymn".
Tempo due minuti e il quartetto è di nuovo sul palco: "Scusate, sono andato a pettinarmi". È Midge che gigioneggia prima di attaccare con "Sleepwalk", e di seguito l'ovvio epilogo affidato a "The Voice" la cui coda, nella dimensione live, è storicamente riadattata alle quattro percussioni. "Thank you, goodnight", secco come ci aveva abituato. Grazie a te, Midge. Grazie a voi, giovani ragazzi soltanto un po' invecchiati.
A Duisburg non c'è più nemmeno il tramonto a farci compagnia, il cartellone luminoso ora risalta sull'ampia strada a due corsie, il chiosco della piazza è chiuso.