In stillness, in sorrow Returns that softly sighing lament
Frame sgranati introducono nel cuore di una centrale nucleare, dove gli scienziati assistono impotenti alla reazione a catena da cui scaturirà l’imminente esplosione, già segnalata dai monitor dell’impianto. Dopo l’allarme, la gente invade le strade, nella calca c’è chi rimane calpestato. Ma c’è anche chi torna a casa dal lavoro come tutti i giorni e, consapevole dell’imminenza della catastrofe, decide di concedersi un ultimo, straziante ballo con la sua amata, prima di attendere l’apocalisse nel talamo nuziale, calando il lenzuolo sulla propria esistenza, mentre l’esplosione inghiotte tutto in un accecante bagliore bianco, corrodendo anche i filmini dei ricordi della vita che fu. Dancing with tears in my eyes/ Weeping for the memory of a life gone by. Difficile immaginare una sintesi migliore tra l’angoscia della Guerra fredda (atomica) di marca wave e il romanticismo estremo della generazione Blitz. Due capisaldi dell’intera saga degli Ultravox, fin dai tempi della foxxiana “Hiroshima Mon Amour”, che trovano qui uno sbocco più pop, ma non meno struggente. Perché “Dancing With Tears In My Eyes” commuoverà davvero legioni di (video)ascoltatori negli anni, suggellando anche una spaventosa profezia di quello che sarebbe accaduto solo due anni dopo a Chernobyl. Fin nei dettagli. Il nocciolo del reattore si è davvero surriscaldato durante un esperimento di prova di routine (illustrato qui dai membri della band che controllano i documenti sbadigliando) fin quando il reattore è esploso. Alcuni ingegneri dell'impianto tornarono a casa dopo l'esplosione (apparentemente illesi) per l'ultima volta, prima di essere trasferiti in un ospedale speciale dove morirono poche settimane dopo, a causa delle radiazioni. E le loro famiglie abbandonarono la città (Pripyat) lasciandosi tutto dietro, come si vede nel video.
Il cantante Midge Ure ha rivelato che a fungere da ispirazione per il testo fu il romanzo di Nevil Shute “On The Beach”, che racconta di un gruppo di persone in Australia in attesa delle radiazioni derivanti da una guerra nucleare nell'emisfero settentrionale: “Sapevano che era la fine, ma hanno avuto il tempo di pensare a come volevano scegliere i loro momenti finali, è questo ciò di cui parla il brano”. Del resto, l’apocalisse nucleare è rimasta sempre un’ossessione costante per l’intera stagione wave. Si prendano ad esempio gli Stranglers alle prese con il loro “Nuclear Device” (dall’epico “The Raven”) o gli Orchestral Manoeuvres In The Dark che intitolarono la loro più celebre hit al nome del Boeing 29 che, guidato da Paul Tibbets e chiamato così per via del nome della madre, sganciò Little Boy su Hiroshima. Synth-pop ad alto tasso di radiazioni nucleari anche per Heaven 17 (l’ironica “Let’s All Make A Bomb”) e Anne Clarke (la suadente “Poem For A Nuclear Romance”), mentre gli U2 al “fuoco indimenticabile” (per l’esattezza, alla mostra fotografica "The Unforgettable Fire" sulle vittime delle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki) dedicarono un disco intero. Ma la canzone degli Ultravox possiede quell’idealismo ingenuo che ci riporta più dalle parti dei Sound di Adrian Borland della commovente “Missiles”.
“Dancing With Tears In My Eyes” non fu però il primo singolo scelto dagli Ultravox dall’album “Lament” (1984), caposaldo dell’evo wave/synth-pop che oggi compie 40 anni. Di certo, però, ne fu il più grande successo, arrivando fino alla terza posizione della Uk Singles Chart e raggiungendo la Top 10 in diversi paesi europei. Con quel suo riff killer di chitarra, il drumming incalzante e il cantato (più che mai) disperato di Ure, fece breccia nel cuore degli 80’s quando la febbre elettronica di inizio decennio stava progressivamente virando verso il cosiddetto “new pop”. Memorabile fu anche l’interpretazione dal vivo sul palco di Wembley il 13 luglio 1985, nel corso di quel Live Aid che Ure aveva contribuito a organizzare assieme all’amico Bob Geldof. È indubbio, comunque, che a trainare il brano sia stato anche il memorabile videoclip, fatto tutt’altro che causale per una band che della compenetrazione tra immagini e suoni aveva fatto l’architrave della sua estetica, fin dai tempi di “Vienna”, se si parla del nuovo corso post-Foxx (no, neanche in questa sede ci interessa la querelle su quale delle due fasi del gruppo sia preferibile). Ad anticipare l’album, in formato 45 giri, fu però un’altra canzone, “One Small Day” – anch’essa poi eseguita al Live Aid – uscita un paio di mesi prima, il 3 febbraio 1984. Un brano piuttosto insolito per gli Ultravox, in quanto principalmente guidato dalla chitarra piuttosto che dal sintetizzatore, ma riconducibile comunque al loro approccio “misto”, già messo in mostra tra le gelide pièce elettro-rock di “Quartet”, sotto l’egida di sir George Martin in cabina di regia. Forte di un buon tiro, ma non di una melodia killer, anche “One Small Day” sarà accompagnato dal suo buon videoclip, girato in Scozia, tra le rovine di Callanish, sull'isola di Lewis nelle Ebridi Occidentali. Uno scenario mozzafiato ripreso poi parzialmente anche dalla copertina dell’album. Ma il gelo che sembra attanagliare i membri del gruppo nelle immagini sarà anche quello del pubblico, che lo accoglierà con un tiepido n.27 nella Uk Singles Chart, deludendo le attese di Ure e compagni, che avranno però l’occasione di rifarsi con l’uscita dell’album e del successivo singolo.
Se “Quartet” si poteva considerare un (buon) disco di transizione, “Lament” riesce a concretizzare tutte le ambizioni di una metamorfosi sonora ad alto rischio, segnando il vertice di questa nuova stagione degli ex-androidi post-punk convertiti alla fede new romantic. Abbandonate ormai del tutto le partiture strumentali elettroniche in favore di un raffinato formato canzone, gli Ultravox di “Lament” dimostrano di cavarsela alla grande anche nella nuova veste sonora, più in linea - corre l'anno 1984 - con l'emergente new pop dell'epoca, ma sempre distante anni luce dalle produzioni mainstream più stereotipate e patinate del periodo. Tra i loro gelidi spartiti sintetici, filtrano il calore del folk celtico e di melodie antiche, sospese nel tempo, ma l'orizzonte resta angosciato, malinconico. Specchio di un'umanità nostalgica e impaurita, ma in fondo ancora viva, il cui sommesso grido di disperazione (“Lament”) testimonia ancora la speranza di un riscatto. Forti delle esperienze acquisite con produttori storici come Conny Plank e George Martin, gli Ultravox decisero stavolta di prodursi da soli, lavorando nei propri studi: il Musicfest di Ure a Chiswick e l’Hot Food di Currie nel suo seminterrato di Notting Hill Gate. L’approccio “minimalista” doveva coinvolgere anche la copertina, pensata come completamente nera, ma in seguito arricchita da un’immagine delle rovine del Neolitico di Callanish Stones, a Lewis, in Scozia. E “per sottrazione” si procedette anche nella compilazione della tracklist (poi inutilmente allungata con remix e bonus track nelle ristampe del 1999 e del 2009). Un’intuizione felice – in un’epoca in cui si potevano ancora compiere queste scelte – che contribuì alla riuscita dell’album.
La compattezza è infatti uno dei punti di forza di “Lament”: otto tracce in tutto, per soli 37:29 minuti complessivi di musica, nessuno dei quali fuori posto. Una sequenza di brani che scorre fluida, coesa, senza cedimenti. A partire da un incipt interessante come “White China”, che dietro le cadenze martellanti quasi “industrial”, tra il basso ossessivo di Chris Cross e la chitarra spigolosa di Ure, cela nuove armonie di Billy Currie al synth e un testo ancora una volta angosciante: la nuova paranoia, stavolta, è quella degli abitanti di Hong Kong, in attesa del trasferimento di poteri dal Regno Unito al regime comunista cinese: “When white turns to red/ In the not too distant days/ Will force and misery/ Be the life you have to lead?”. Neanche l'apparentemente più rilassata “When The Time Comes” (avete mai provato a leggerne il testo?) riesce a dissolvere questa cappa di malinconia che avvolge il disco e chi si sublima definitivamente nei quasi 5 minuti della title track, con la firma decisiva del compianto Cross. Niente chitarre, stavolta, ma solo un fondale di synth crepuscolari a cullare una ballata elettronica da groppo in gola, con Ure che si strugge in una litania disperata da par suo, inframezzata da semplici ma suggestive frasi di tastiera. Prenderanno nota Martin Gore e tanti altri seguaci della melanconia sintetica. “Lament” è l’apoteosi del romanticismo totalizzante degli Ultravox, suggellato da un altro videoclip indimenticabile, girato negli scenari da sogno dell’isola di Skye, in Scozia (per la precisione a Elgol, Kilmarie e Broadford Hall) con i quattro fortunati protagonisti alle prese con ragazze altrettanto memorabili (al punto che uno di loro deciderà di rimanere sull’isola, forse per sempre). Il verso “In stillness, in sorrow/ Returns that softly sighing lament” potrebbe essere l’epitaffio definitivo degli Ultravox ma anche di un’intera stagione musicale ispirata da quella “quieta disperazione” di marca inglese e di floydiana memoria (“Hanging on in quiet desperation is the English way”, “Time”, 1974).
E così l’ascoltatore dell’anno 1984, ancora scosso dall’ascolto di “Lament”, si accingeva a voltare lato del 33 giri per imbattersi in altre tre prodezze meno conosciute ma altrettanto emozionanti (come spesso accade con gli Ultravox, vedi il nostro "Anti-best of). Sorprende soprattutto la traccia che apre il lato B con una novità: Midge Ure non è solo a interpretare il brano, ma si fa accompagnare dagli stupendi vocalizzi femminili (in gaelico) di Mae McKenna, perfetta con quel suo vibrato evocativo nel richiamare melodie ancestrali, sospese nel tempo (i versi dovrebbero essere tradotti come "Hand in Hand, taste the past, as I drink in this gift to me. Hand in Hand, taste the past, as I drink from it all"). “Man Of Two Worlds” è un'impennata prodigiosa su tela elettronica, che decolla dopo l'intro classicamente epica, l'irruzione del basso cadenzato di Cross e le sferzate della chitarra - più distorta che mai - di uno Ure particolarmente a suo agio in questi brumosi paesaggi al confine col celtic-folk. Ma la band si mostra in piena forma anche nel bozzetto bucolico di “Heart Of The Country”, che lascia trasparire tutto l'amore per quei paesaggi da brughiera britannica esaltati nel video di “Lament”, con le tastiere suadenti sullo sfondo a ipnotizzare l'ascoltatore in questa trasognata ode nostalgica, impreziosita dall’immancabile solo strumentale in cui giganteggia il violino classicheggiante di Currie. Non bastasse tutto quanto ascoltato finora, ad assestare il colpo del ko definitivo all’ascoltatore provvede il commiato finale di "A Friend I Call Desire". Un altro episodio ad alto tasso emozionale, che si snoda su un magistrale riff di chitarra scolpito su una distesa di synth cupissimi, con Ure ancora in stato di grazia al microfono, assecondato da nuovi vocals femminili per dare sfogo a tutto quel senso di sofferenza e di irrimediabile malinconia che gronda dai solchi del disco. Si potrebbe considerare il vero commiato degli Ultravox, così come l’intero album. Finirla qui, infatti, sarebbe stata la chiusura perfetta del cerchio, il compimento di un percorso coerente che, oltre ad aver traghettato l'elettronica nella new wave, ha riportato in auge un sinfonismo melodico dal respiro romantico, degno di istituzioni progressive come Genesis e King Crimson, dando voce all'angoscia esistenziale di una generazione che non si è mai riconosciuta nei vacui idoli degli anni Ottanta.
Ma del senno di poi – com’è noto - sono piene le fosse e nell’anno 1986, pur orfani di un pezzo da novanta come il batterista Warren Cann, gli Ultravox pensarono di poter dire ancora qualcosa con il loro “disco maledetto”, “U-Vox”, che tentò una maldestra virata verso suoni folk-rock - prodotti, per di più, in modo patinato e ottuso - e li portò dritti in un vicolo cieco. Midge Ure stava già pensando alla sua attività solista (un anno prima era uscito il suo debutto “If I Was”) e gli altri erano ormai smarriti. Compreso il buon Currie, detentore dei diritti sul gruppo, che non riuscì a riportare a galla la nave con i due tentativi di “Revelation” (1993) e “Ingenuity” (1996) assieme a misconosciuti cantanti come Tony Fenelle e Sam Blue e altri. Ma neanche la nostalgica reunion del 2012 di "Brilliant" riuscì a far rivivere la magia dell’incanto perduto, con i nostri ormai appesantiti dagli anni e privi di idee, che però provarono, quantomeno dal vivo, a riaccendere la fiammella. La scomparsa di Chris Cross (25 marzo 2024) ha ridestato un’ondata di commozione e nostalgia per i giorni d’oro degli Ultravox. Quando questi inguaribili romantici d’Albione raccontarono di un’umanità inquieta e angosciata, intrappolata nella nostalgia dei ricordi e nelle sue paranoie (Fear in the western world, cantavano del resto ai loro esordi). Pur arrivato al culmine di una metamorfosi sonora, quando lo stesso synth-pop stava mutando pelle, “Lament” (n.8 in Uk) fu il perfetto epitaffio di quella stagione. Tanto sontuoso nei suoni quanto desolato nei temi. E riascoltarlo oggi, a 40 di distanza, fa uno strano effetto. Perché, in fondo, non sembra cambiato nulla. Con le guerre alle porte e l’umanità ancora soggiogata da quelle stesse paure, a intonare idealmente il suo softly sighing lament.