Alcune giornate sono magiche in partenza, ancora devono cominciare e sai già come andranno a finire. Di solito vengono benedette da una breve pioggerellina, che inizia quando stai per salire in macchina e termina al momento di scendere a destinazione. E poi ci sono artisti diversi dagli altri, capaci ogni volta di far battere il cuore. Midge Ure è uno di questi ed è proprio così che è andata a Firenze, dove l'ex frontman degli Ultravox era atteso per la prima delle due tappe italiane del suo “Voice And Visions Tour” con cui si propone di brindare, nel quarantennale della loro release, ai brani più importanti di “Quartet” e, seppur con qualche mese di ritardo, a quelli di “Rage In Eden” (fu pubblicato nel 1981, avrebbe voluto celebrarlo in precedenza ma poi ha dovuto stravolgere i piani per via del Covid).
Noi invece fortunatamente rispettiamo la tabella di marcia e poco dopo le 19, orario d'apertura cancelli previsto dai biglietti, ci presentiamo al Viper Theatre, storico club sulla via Pistoiese. Troviamo facilmente parcheggio nello slargo antistante (Piazza Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, ndr) e ci dirigiamo verso l'ingresso facendo il giro lungo per non calpestare le aiuole, tanto il tempo non manca. L'erba è ancora bagnata e fuori non si vede nessuno, “meglio così”, pensiamo, “saremo i primi sotto al palco”. Detto fatto, dentro ci sono solo una dozzina di persone: gli addetti al bar e al merchandising, una signora di mezza età dall'accento dell'est che di chilometri ne ha fatti più di noi e qualcuno al bancone che sorseggia una birra. Ne ordiniamo un paio anche noi e verso le 20 attaccano gli India Electric Co., duo gipsy-folk del South West inglese che da qualche tempo ha preso confidenza con le tastiere proprio perché chiamato a supporto da Ure, col quale si esibisce dal vivo col nome di Band Electronica - e con l'aggiunta ad hoc del batterista Russell Field - più o meno regolarmente dal 2015, anno di uscita del suo album di debutto, “The Girl I Left Behind Me”.
Che sia una serata per nostalgici lo si intuisce subito: sarà una semplice suggestione, ma capigliatura, movenze e vestiario del cantante Cole Stacey ricordano incredibilmente Mike Scott nel video “The Whole Of The Moon”, mentre il collega Joseph O'Keefe giostra con abilità tra synth e violino. Ne risentiremo parlare, visto che sono giovani e hanno fantasia. Il set scorre via gradevole tra una manciata di pezzi propri (“Only Waiting”, “Heimat”, “Parachutes”, “Lost In Translation” e “Statues”) e una curiosa cover di “I'm On Fire” di Bruce Springsteen, nel frattempo la sala, sinora semivuota, comincia a riempirsi. Come prevedibile il pubblico è composto per gran parte da ammiratori di non primissimo pelo. Hanno aspettato tanto, troppo: se si eccettuano un paio di comparsate nel 2018 assieme ai Decibel di Enrico Ruggeri (a Sanremo con “Lettera al Duca” e da special guest a Milano con “Dancing With Tears In My Eyes”) Midge Ure manca infatti dall'Italia ormai dalla tournée-reunion di “Brilliant”.
Da allora sono trascorsi dieci anni esatti, ma ai sogni, si sa, non puoi dare appuntamento. Si materializzano all'improvviso davanti e capisci che vale la pena svegliarsi, perché è ora di viverli. Vanno però accolti come si deve, perciò alla fine dell'opening-act si spengono le luci e i musicisti si intrattengono in camerino per un doveroso pit-stop al guardaroba. Qualche minuto dopo tornano in scena tutti in tiro, come impone il dress-code a chi deve idealmente fare le veci di Billy Currie, Chris Cross e Warren Cann, ossia tre quarti di una delle band-simbolo dell'intera new wave. Compito arduo, il più elegante però è proprio Midge Ure, sessantanove anni indossati in maniera impeccabile come la giacca che porta sopra il maglioncino a collo alto.
Un paio di rintocchi di rullante invitano i fedeli a raccolta e dalla penombra emerge potente l'invocazione “Dear God” (tratta dall'album solista del 1988 “Answers To Nothing”), i cui versetti riflettono a mo' di preghiera lo stato d'animo di un uomo che lungo il cammino ha giocato un ruolo fondamentale in tantissime battaglie no-profit (“Dammi amore per i soli/ dammi cibo per gli affamati/ dammi pace per un mondo inquieto”). “If I Was” (da “The Gift” del 1985) è un altro saggio del sound trasognato ma affatto banale di quel periodo, quando sull'onda lunga del Live Aid (e grazie anche all'enorme risonanza ottenuta da “Do They Know It's Christmas”) lo scozzese che in impermeabile voleva salvare il pianeta si arrampicava sino alla prima posizione della Uk Singles Chart.
Avvìo morbido, dunque, con le hit non certo migliori, ma riascoltarle oggi non lascia indifferenti e in un attimo dimentichiamo l'ansia, l'autostrada e la fatica del viaggio. Con “Fade To Grey”, però, si inizia a fare sul serio: non è una canzone qualsiasi, venne composta in era-Visage assieme a Billy Currie e Chris Payne ed esplose come una bomba polverizzando le classifiche di mezzo mondo, tanto che per coglierne l'importanza effettiva e l'influenza sullo sviluppo del movimento new romantic sarebbe opportuno dedicarle un capitolo a parte; per adesso ci basta sentire intorno il boato compiaciuto della gente. Midge pare in ottima forma, e si cala perfettamente nei panni di voce principale di un brano reso originariamente immortale dal compianto amico Steve Strange. A proposito della sua voce, quanto a fascino e magnetismo il tempo non sembra averla scalfita un minimo soprattutto nei pezzi più rock, anche se affiora inevitabilmente qualche ruga in quelli dalle note più acrobatiche. D'accordo, non è 13 luglio e non sarà Wembley, ma adottando qualche escamotage le interpretazioni risultano sempre egregie, come ad esempio nella successiva “Breathe”, in cui si limita a cantare le strofe lasciando furbescamente al pubblico l'incombenza del ritornello. Non avrebbe nemmeno dovuto farla, ma vista la notorietà raggiunta nel '96 da noi grazie a uno spot della "Swatch", alla vigilia aveva promesso di inserirla appositamente nel palinsesto, e un sir mantiene sempre la parola data.
A questo punto viene il bello: prima si prende un piccolo break giusto per rammentarci il vero motivo per cui siamo qui, ossia “Rage In Eden” e “Quartet”, quindi inanella una formidabile sequenza, sei brani consecutivi da ciascun album, che riportano le lancette a un passato in cui magari non tutto era oro, ma brillava di una luce accecante. A cominciare dall'inno “The Voice”, uno degli evergreen della decade eighties osannato per tutta la sua durata dagli “oh ooh” dei presenti. Soddisfazione e meraviglia, che si trasformano in adrenalina quando una veemente schitarrata preannuncia “We Stand Alone”, offerta qui in una trascinante versione elettrica. Sciami di synth introducono il recitato robotico di “The Thin Wall”, poi finalmente spazio al gioiello “I Remember (Death In Afternoon)”, scolpito da un drumming martellante in un crescendo di rara intensità emotiva che la conferma tra le più amate dell'intero catalogo.
Ora siamo noi ad aver bisogno di un break per riprendere fiato, e i ritmi più lenti di “Your Name Has Slipped My Mind Again” (dal vivo non la si ascoltava da tempo) e “Rage In Eden” (che chiude il lotto di estratti dall'omonimo Lp) cadono a fagiolo senza abbassare di un centimetro l'asticella del pathos.
Un tintinnio di charleston ci comunica che è il momento di “Reap The Wild Wind”, zuccheroso instant-classic preso da “Quartet” che nel 1982 fece da apripista a uno degli album più fraintesi e sottovalutati del gruppo, traghettandolo dalla fase sperimentale verso un nuovo corso orecchiabile di intatta raffinatezza. L'incalzante “Mine For Life” è graffiata da uno strepitoso assolo di chitarra elettrica, mentre “We Came To Dance” e “Serenade” riportano in fretta ai territori electro-glam più confortevoli, preparando il campo per un'altra doppietta da brividi: la posta si alza con l'indimenticabile “Hymn”, salmo su potere e gloria dall'architettura biblica, e con la struggente “Visions In Blue”, dove l'acuto disperato “breath seems to mist the heazy view” viene ritoccato con mestiere di un'ottava verso il basso per consentire alla voce di scalare vette altrimenti proibitive per chiunque. Peccato, non si può avere tutto. Anzi, forse sì, ma per questo serve il bis.
Senza accorgercene, infatti, siamo già arrivati alla fine, così dopo i finti saluti di rito, Midge regala alla platea la stella più luminosa del suo firmamento musicale. Sette minuti circa per ricaricare con astuzia le pile (e le corde vocali) con la lunga pièce strumentale “Astradyne”, poi siamo pronti per “Vienna”, o forse non lo saremo mai del tutto. Non è semplice sinfonia-pop, ma uno spartiacque culturale dal quale non si sarebbe mai più tornati indietro. Con “Vienna” nel 1980 Midge Ure cambiava per sempre il corso delle cose, togliendo definitivamente il punto esclamativo dal nome della band (fino a "Systems Of Romance" si facevano chiamare “Ultravox!”) per aggiungere umanità, romanticismo e melodia. Chi è presente al Viper lo sa e non può non immedesimarsi in quel lacerante urlo generazionale “this means nothing to me”, ripercorrendo ad ogni singola nota di tastiera e nei pizzicato di violino le diapositive più emozionanti della propria esistenza. La performance è come al solito melodrammatica, la mente un fiume di ricordi. Qualcuno non regge e ci affoga: è la signora dell'est che avevamo incontrato all'inizio, la ritroviamo accanto a noi che si asciuga le lacrime. Non è l'unica e non sarà l'ultima.
Si chiude con l'elettropop danzereccio di “All Stood Still”, una delle primissime hit (ancora dall'album "Vienna") dalle quali l'epopea del gruppo ebbe inizio, ma gli appunti di storia, adesso, sono solo un dettaglio insignificante. E pensare che qualche manuale dell'epoca aveva tacciato gli Ultravox di deriva commerciale o pochezza di contenuti. Grazie Midge, a chi ne aveva hai tolto anche ogni punto interrogativo.