A voler essere esaustivi, per intervistare Enrico Ruggeri occorrerebbe una giornata intera. Trent'anni di carriera, ventidue dischi esclusi i live e le raccolte, e in mezzo l'attività di scrittore, di autore, di calciatore della Nazionale Cantanti, di conduttore televisivo, di globetrotter per migliaia di concerti live. E con la dote di un'invidiabile nicchia di pubblico attento e fedele come pochi altri. Tutto questo senza considerare le grandi passioni sportive (l'Inter in primis), e l'insieme di un universo artistico che ha mutato più volte direzione pur restando sempre fedele a sé stesso.
Enrico Ruggeri personaggio, oltre che artista, con cui si può indifferentemente parlare di letteratura russa, di attualità, di calcio, senza avere mai il timore di ricevere osservazioni scontate, o un rifugio per il luogo comune. Un musicista che ha messo in pubblico l'intimo e il profano con uguale slancio, superando il naturale pudore pur di obbedire a un insopprimibile istinto comunicativo. Con quella voglia di esserci e di esporsi che può dividere, che talvolta lascia perplessi, ma che mai abbandona il campo all'indifferenza.
Nei venti minuti della cordiale chiacchierata, abbiamo circoscritto gli argomenti soprattutto ai movimentati esordi e ai più recenti progetti. Senza declinare alla tentazione di un fugace excursus sportivo...
Enrico Ruggeri è da molto tempo un autore affermato, e ora anche un presentatore di successo. Però vorrei parlare del lato forse meno noto della tua carriera, quello che si riferisce agli inizi, agli anni 70. Ci racconti dei tuoi esordi, prima, durante e subito dopo i Decibel, intendo...
Furono anni eccezionali, formidabili, perché stava nascendo quello che fu l'ultimo grande movimento di base, che era il punk, e io mi trovai fortunatamente ad avere diciotto anni nel momento in cui in Inghilterra e in America stava esplodendo tutto. Rimasi letteralmente folgorato da quella musica, anche perché i musicisti che mi piacevano prima di quel ciclone furono anche i padri del movimento. Quindi David Bowie, Lou Reed, New York Dolls, Mott The Hoople, Roxy Music: tutti nomi che il punk lo avevano ispirato dall'alto. Questo si rivelò un grande vantaggio nel momento in cui cominciai a scrivere le mie canzoni.
Fosti talmente dentro al fenomeno che, con i Decibel, apristi i concerti per Adam And The Ants e per gli Xtc…
E anche degli Heartbreakers, il gruppo nato da una costola dei New York Dolls. Beh sì, quella fu un'altra esperienza fantastica, poter condividere il palco con musicisti di cui leggevo le gesta sulle pagine di Ciao 2001, che era un po' la bibbia per chi amava la musica rock. Si vedeva già che gli Xtc avevano un altro passo, difatti sono poi sopravvissuti al punk. Una cosa notevole di questo movimento fu che generò degli artisti capaci di sviluppare in seguito una loro specifica curiosità. Non solo Patridge e soci, ma anche Elvis Costello, Joe Jackson, gli Stranglers, gli Ultravox (che poi diventarono più elettronici), gli stessi Clash.
Quindi, ecco, quando suonai accanto agli Xtc mi resi subito conto che il punk avrebbe preso delle strade diverse per espandersi secondo le caratteristiche personali di ogni singolo artista…
Ascolti ancora gruppi come Sparks, Stranglers, Ultravox?
In linea di massima sì, in particolare gli Stranglers, che è forse l'unico gruppo di cui compro i dischi ancora oggi.
Fra l'altro hanno suonato lo scorso anno a Milano…
Già, ma torneranno all'inizio del prossimo anno, e io vedrò di esserci.
Che aria si respirava nella Milano politicizzata di allora, e come ti ci trovavi tu, che non hai mai fatto dell'ideologia un tuo vessillo?
Si respirava un'aria molto pesante in realtà. I punk erano visti con sospetto, perché si vestivano di nero e perché portavano i capelli corti. Inoltre c'era un fenomeno alquanto diffuso che oggi sembra dimenticato, ovvero che i vari David Bowie, Lou Reed, e più in generale tutti quei musicisti che giocavano sul dandismo e sull'ambiguità sessuale, erano odiati dalla sinistra. Ricordo, ad esempio, che rischiai le botte perché fui trovato in possesso di un disco di David Bowie: la sinistra militante e stalinista era sessuofoba e omofoba molto più di quanto non lo fu la destra negli anni successivi. Insomma, l'atmosfera era pessima, anche se chi faceva musica in qualche modo si salvava, perché aveva qualcosa d'autentico in cui credere.
In quegli anni il rock undergorund milanese era popolato da artisti quali Faust'O, Maurizio Arcieri, Alberto Camerini, Garbo, Ivan Cattaneo. In che rapporti eri con loro e che opinione ne hai adesso?
Faust'O, fra gli artisti italiani che hanno inciso dischi negli ultimi quarant'anni, è il più grande rammarico, giacché aveva davvero tutto per diventare un numero uno.
E comunque sono tutti musicisti che ho rincontrato nel tempo, tutte persone per le quali la follia è stata superiore alla voglia di programmarsi. L'artista deve certamente possedere una dose di follia, però deve anche avere una certa capacità di programmazione della propria vita. E loro, chi più chi meno, non ebbero questa caratteristica, però fu davvero una bellissima generazione. Faust'O era un po' più dandy elettronico di me, io ero più da strada, Camerini era più incline al rock' n' roll: c'era insomma un quadro molto variegato e interessante.
Vorrei soffermarmi sui testi, per rimarcare delle differenze. Agli inizi, scrivevi delle liriche che sono state per un po' di tempo il tuo marchio di fabbrica, con i loro connotati disturbati e trasgressivi per i canoni dell'epoca. Di che cosa erano figlie, e come le giudichi ora?
Quei testi mi piacciono tuttora, anche se io sono molto cambiato. E' logico che a vent'anni la pensi in maniera diversa che non a cinquanta: va da sé che la scrittura risenta di questa diversa prospettiva. Sarebbe tremendo il contrario: io detesto quelli che a cinquant'anni scrivono ancora testi da ragazzi. A vent'anni avevo un po' di male di vivere, un po' di voglia di colpire, quel pizzico d'arroganza e la poesia che deriva magari dall'aver letto qualche Rimbaud o qualche Bukowsky di troppo. E anche una serie di conflitti non risolti: è evidente, ad esempio, che le mie liriche di allora testimoniavano di una gran fatica a conciliarmi con l'universo femminile. Sono, in definitiva, lo specchio piuttosto fedele di quello che ero, ma anche delle mie letture, che a vent'anni erano diverse da quelle dei quarant'anni.
Con queste riflessioni hai in parte anticipato un'altra domanda riguardo ai testi. Ho rilevato una sorta di percorso inverso nella tua scrittura: agli inizi di carriera i temi ricorrenti erano il passato, il ricordo, la memoria, mentre negli anni recenti sei arrivato a parlare d'attualità, di temi sociali (la guerra, la pena di morte). Ce ne spieghi i motivi?
Perché questi sono tempi in cui mi fa piacere dire la mia. E poi oggi guardare un telegiornale mi suscita delle emozioni forti simili (per quanto di natura diversa) a quelle che vivo nelle mie vicende personali. Esattamente come quando t'innamori, o più in generale come quando affronti delle situazioni che hanno a che vedere con la sfera privata.
Ai tempi di "Polvere" la rivista musicale Tuttifrutti ti definì un aristocratico del dissenso. Ti riconosci in questa definizione?
Non mi ricordavo più di questa cosa, ma mi ci riconosco moltissimo: è una definizione che mi piace parecchio e in cui mi ritrovo.
Come hai vissuto il tuo passaggio dal rock underground al cantautorato colto? Te lo chiedo soprattutto perché nel corso della tua carriera sei passato più volte sul luogo del delitto, sia pur attraverso strade diverse...
E' stato un processo naturale. Miglioravo come musicista e di conseguenza mi si aprivano nuovi orizzonti. Magari ascoltavo una volta in meno i Clash per fare spazio ad Aznavour e così, man mano che le vedute si ampliavano, mi accorgevo che la musica aveva per me possibilità infinite. A questo occorre aggiungere il mio amore per i testi e il rispetto per la lingua italiana, che ha giocato un ruolo decisivo. Era troppa la voglia di non buttare via nessuna occasione per scrivere un bel testo, e questo giocoforza mi ha avvicinato a tipi di musica che fossero più funzionali a ciò che volevo esprimere. E' chiaro che "Il portiere di notte" non avrebbe mai potuto avere una base heavy-metal, non avrebbe avuto la stessa incisività...
...e soprattutto Mina non l'avrebbe inserita nel suo repertorio…
Direi decisamente di no, infatti.
Quello che solo gli aficionados sanno, è che c'è anche il tuo zampino su brani culto dell'italo-disco anni 80. Mi riferisco a "Tenax" e "Le Louvre" di Diana Est e a "To Meet Me" di Den Harrow. In una fase di riscoperta del genere a livello planetario (c'è un sacco di gente, specie in America, che impazzisce per queste cose), vorrei che mi raccontassi qualche aneddoto su come sono nate quelle collaborazioni...
Tutto nacque dall'esigenza di sbarcare il lunario facendo cose divertenti. Inoltre c'era la voglia di lasciare una piccola firma su tutto ciò. La nostra firma era di creare personaggi che avessero un nome straniero che avesse assonanza con una parola italiana. Nacquero così Jock Hattle (giocattolo), Den Harrow (denaro), Joe Yellow (gioiello), Albert One, per arrivare all'episodio "Tenax" che fu obiettivamente più valido anche artisticamente: questa comincia a essere una canzone non contestualizzabile. Direi bella, o carina, in assoluto. L'altro comune denominatore fu che si andava in sala d'incisione e lì prendeva forma tutto tranne l'identità del cantante. Il cantante arrivava per ultimo, si decideva dopo, e questo è il tipico spaccato della dance italiana anni 80.
Leggendo un articolo-intervista apparso tempo fa sul Corriere della Sera, che prendeva spunto dalla canzone del tuo nuovo album intitolata "Il giorno del black-out", viene fuori l'immagine di un Ruggeri ostile a internet e alla tecnologia. Vuoi spiegarmi meglio la tua posizione al riguardo?
Mi rendo conto che leggendo quell'articolo si coglie quel senso, però io non voglio assolutamente tornare alle carrozze coi cavalli. E lungi da me anche voler rimettere, come si suol dire, il dentifricio dentro al tubetto...
…anche perché sembra più una canzone sull'incomunicabilità e sull'alienazione che ha preso come pretesto internet...
Dici bene. Con quel brano io volevo solo mettere in guardia dalle storture del sistema telematico. La stortura più evidente è che uno magari trascorre la notte a chattare con un ucraino, e poi non sa neppure chi sia il suo vicino di casa. Il pericolo è di perdere un po' di contatto e di dimensione umana. In fondo anche fare due chiacchiere sul pianerottolo con quello del piano di sopra può essere una cosa piacevole. Una volta si faceva, adesso molto meno.
Fra le decine di canzoni che hai scritto, ce ne sono alcune che raccontano storie sportive, mi vengono in mente "Il fantasista", "La donna del campione" e la toccante "Gimondi e il Cannibale". Pensi che lo sport sia una metafora di vita?
Lo sport è una metafora fantastica. Il pugilato, il ciclismo ci hanno regalato delle storie meravigliose da raccontare, tanto che potrei scriverne per dieci album. Devo dire però che sarebbero dieci album di storie di sportivi d'altri tempi: è assai più affascinante cantare di Nuvolari che non di Räikkönen, evidentemente.
…Così com'è più suggestivo leggere gli articoli di Gianni Brera piuttosto che quelli seriali in cui spesso ci s'imbatte oggi…
Beh probabilmente l'invasione massiccia della televisione, per molti versi assai piacevole (grazie alla quale ogni giorno ci si può vedere tre partite importanti tra Serie A, Premier League, Champions League eccetera), ha tolto il gusto per la narrazione e anche una certa poesia che le era propria. Pensa anche al ciclismo. Quando si sentiva Orio Vergani alla radio che scandiva: "C'è un uomo solo al comando della corsa, la sua maglia è azzurra, il suo nome è Fausto Coppi", ciò valeva più di diciotto telecamere mobili. Dopodiché è evidente che rivedere oggi una partita degli anni Sessanta a due telecamere fisse è per lo più un obbrobrio, però indubbiamente il modo di raccontarla restituiva un'enfasi particolare.
Adesso di cosa ti stai occupando, stai facendo ancora tv e poi che altro?
Mi sto occupando, come il solito, di molte cose. A ottobre ho suonato il cinquantesimo concerto della mia tournée... estiva: per farlo ho prolungato appositamente la stagione calda fino all'autunno inoltrato. Inoltre sto lavorando in studio a una colonna sonora di un film ("East West East", del regista albanese Gjergj Xhuvani, ndr) e poi sì, sto conducendo questa nuova trasmissione, "Quello che le donne non dicono" che, come "Il bivio", è di concezione italiana. Quindi niente format…
L'Enrico presentatore televisivo sta funzionando…
Sì, chiacchierare in tv è molto piacevole, soprattutto se lo si fa in seconda serata e quindi senza ballerine, natiche, e cose simili…
…Però, adesso che il peggio è passato, potresti scrivere una canzone sulle sofferenze che abbiamo passato noi interisti nei vent'anni prima delle recenti vittorie…
Più che altro dovrei scrivere una canzone sull'arte del club di rovinarsi anche le feste. Questa nostra capacità è proverbiale: si vincono due scudetti (in realtà sono tre, ma diciamo pure solo due), e invece di festeggiare si litiga con l'allenatore e lo si manda via. Tutto questo è abbastanza curioso…
...più unico che curioso, direi…
Certo, se pensi che altre squadre che non vincono nulla confermano gli allenatori, dicendo di avere in panchina dei santoni padri del bel gioco. Noi invece mandiamo via Mancini…
Sei dunque un manciniano convinto?
Non sono un manciniano, sono per la continuità. Mi piace sapere che il Manchester United, che ha vinto e che ha perso come molti grandi club nel corso del tempo, ha lo stesso allenatore da diciotto anni. Mentre noi, al contrario, riusciamo nell'impresa di farci esplodere la bottiglia di champagne fra le mani…
C'è una sorta di masochismo in tutto ciò…
Già. E noi in questo campo siamo bravissimi.