Tra i tanti figli degeneri del punk, Joe Jackson è uno di quelli che ha seguito il percorso più accidentato e sorprendente. Da rabbioso working class hero a elegante crooner da night-club, la goffa aggressività del rocker mancato al servizio di un forbito eclettismo da compositore maturo. Tutta la sua carriera è un'accelerazione in slalom tra i paletti dei generi, senza esclusioni di sorta.
Nato nel 1954 a Burton-upon-Trent (Inghilterra) e cresciuto a violino e pianoforte, con tanto di studi alla London's Royal Academy of Music, David Ian Jackson, per gli amici "Joe", ha fatto di tutto per non diventare un compositore "serio", facendosi travolgere dall'ondata del punk prima e della new wave poi, finendo poi col diventare... un compositore "serio", e non solo in ambito popular, come testimoniano le sue recenti incursioni nella Classica. Del resto, la sua ammirazione per George Gershwin parla chiaro: "Lo amo perché ha saputo tenere un piede nella tradizione popolare, l'altro in quella classica".
Alcuni tratti del personaggio - la scontrosità, l'ostinazione, il gusto retrò, la versatilità - lo avvicinano al più celebre "impostore" del rock, Elvis Costello, se non fosse che quest'ultimo, malgrado gli sforzi, è sempre rimasto fondamentalmente ancorato alla sua "britannicità", mentre Jackson ha trovato oltreoceano la sua terra promessa. Ma cercare di unire tutti i puntini di una figura così spiazzante e indecifrabile è missione impossibile. Tanto vale, allora, lasciare spazio alla sua storia e ai suoi dischi.
Ritratto dell'artista da giovane
Le foto ingiallite dei Sixties nello Staffordshire (e in seguito a Portsmouth, dove si trasferirà con la famiglia) mostrano un gracile e sgraziato adolescente, che deve fare i conti con l'asma e divora pile di libri e di dischi. La stoffa del musicista c'è già tutta: a 11 anni inizia a studiare il violino, poi si diletta anche con timpani, oboe e pianoforte. Da grande non vuole fare la rockstar, bensì il compositore. Magari in campo jazz, dove, a 16 anni, si cimenta con un trio, suonando nei pub. Oppure seguendo le fascinazioni del progressive-rock, che incanta la Cool Britannia dei Seventies con band come King Crimson e Soft Machine. Però è un tipaccio: "Venni violentemente respinto da tutti gli insegnanti e da gran parte dei miei compagni - racconta - Suppongo di essere stato uno di quei tipi che se ne fregano delle autorità. Gli altri ne erano terrorizzati ma io pensavo che fossero dei gran coglioni, e non facevano nulla per nasconderlo. Non ho mai rispettato nulla e nessuno perché altri lo facevano".
Nel 1972 una borsa di studio in composizione musicale gli consente di varcare le soglie della Royal Academy of Music di Londra. Ma David Ian non snobba neanche il pop, anzi, insieme a piccole band come Misty Set ed Edward Bear inizia a provare l'ebbrezza del performer. Sono proprio i membri di quest'ultimo gruppo ad appiccicargli quell'imprevedibile diminutivo "Joe" (dal pupazzo Joe 90!) su cui costruirà una carriera. È il loro leader e tenta di portarli al successo con mutevoli sigle: prima Edwin Bear, poi Arms & Legs, con i quali firmerà anche un 45 giri ("Janie") prima di tentare l'avventura solista. "Non so se ho scelto il rock per una sorta di rivincita - spiegherà - non mi interessava affatto diventare il nuovo Mick Jagger, volevo soltanto trovare qualcosa in cui riuscire e in cui mi sentissi tagliato. Timbrare il cartellino? No grazie. Meglio qualcosa di assurdo come fare il musicista".
Ma David "Joe" continua a essere anche un provetto studente di Classica: suona il piano nella National Youth Jazz Orchestra e si diploma nel 1975 alla Royal Academy.
In piena epopea (post-)punk, arriva la svolta: il 9 agosto 1978 il produttore David Kershenbaum lo mette sotto contratto per conto della A&M Records e a ottobre supervisiona l'uscita del suo primo singolo, "Is She Really Going Out With Him?". È una bomba. Un pop-rock nevrotico e vagamente "vintage", che ondeggia su cadenze sornione per esplodere nel bruciante ritornello, con un testo pungente che ironizza su una faccenda di tradimenti ("There's a lady that I used to know/ She's married now, or engaged, or something, so I am told... Is she really going out with him") e si interroga sul perché le belle donne ("pretty women") sono attratte dai "gorillas".
La bontà del singolo convince la A&M a rompere gli indugi e a pubblicare l'album d'esordio, Look Sharp! (1979). E Jackson non sta nelle scarpe, anzi, le sbatte direttamente in copertina: un bel paio di Denson bianche, immortalate da Brian Griffin. "Non voleva essere la copertina, ma quando abbiamo visto le stampe l'idea è piaciuta a tutti, il direttore artistico Michael Ross le ha prese in prestito e non le ho più riviste", racconterà Joe.
Il disco è una miscela esplosiva, innescata dal furore del ritmo e dalla straordinaria poliedricità dei suoni. Si spazia da fulminanti scatti pub-rock ("One More Time", "Baby Stick Around") a irresistibili vibrazioni giamaicane in salsa reggae&ska ("Sunday Papers", sull'idiozia dei tabloid, e la più malinconica "Fools In Love"), da esuberanti inni post-adolescenziali ("Happy Loving Couples", "Pretty Girls") a schegge impazzite punk'n'roll (le tiratissime "Got The Time" e "Throw It Away") fino alle inflessioni jazzate à-la Steely Dan di "(Do The) Instant March" e della title track.
Jackson è mattatore assoluto, con il suo crooning rauco e la sua acerba esuberanza, graziata, oltre che dal talento, da un wit tipicamente britannico nei testi, sempre acuti e "affilati" proprio come il titolo del disco. Versi che alternano uno spleen romantico nelle vicende sentimentali a uno sguardo lucido e caustico sui temi sociali, in linea con quella tradizione britannica dei commentari al vetriolo inaugurata dai Kinks.
Non è un album facile, comunque, e passano un paio di mesi prima che il pubblico se ne accorga. Poi però è un trionfo: Look Sharp! sbanca le Uk chart entrando nella Top 40 Uk e fa sfracelli persino oltreoceano varcando il portone della Top 20 a stelle e strisce. Con tanto di "disco d'oro" e nomination ai Grammy Awards.
Rock against racism
Non passa neanche un anno ed è già pronto il bis: I'm The Man (1979) è l'ideale sequel dell'esordio: una raccolta di urgente power-pop-rock ("Get That Girl", "Friday"), magnetiche pulsazioni reggae ("Geraldine And John"), ruvide invettive uptempo ("On Your Radio", "Don't Wanna Be Like That") e irruenti assalti punk (l'invasata title track). Ma il pezzo forte è il singolo "It's Different For Girls", dove, su cadenze da "nervous romance", addolcite da finezze melodiche soul, si snoda un'altra divertente parodia delle incomprensioni uomo/donna. Con i cliché dei ruoli che finiscono sottosopra: è lei a cercare il sesso facile, mentre lui, che sognava una storia d'amore, si vede recapitare la solita frase - "per le ragazze è diverso" - col significato opposto a quello comunemente inteso ("Who said anything about love?/ No, not love she said/ Don't you know that it's different for girls?").
Il suono dell'album, registrato in presa diretta negli studios, si fa più sporco. Spadroneggia la sezione ritmica, con il basso-monstre di Graham Maby sugli scudi. E Jackson conferma tutto il suo talento onnivoro, anche se forse, rispetto all'esordio, gli mancano i colpi da ko. I'm The Man pagherà anche in classifica il fatto di essere uscito a ridosso di cotanto predecessore, fallendo l'appuntamento con le chart americane, ma riuscendo tuttavia a piazzarsi più che onorevolmente in quelle britanniche (Top 20 l'album, Top Five il singolo).
Sempre attento al look, Jackson si presenta in copertina con baffo malandrino da gangster. Anzi, da "spiv", razza criminale di ladro-ricettatore attiva, a quanto pare, nella fauna britannica. Una curiosa simbiosi che, in campo musicale, sarà ribattezzata dallo stesso Jackson "spiv-rock". La critica, intanto, lo issa sul podio di un ideale triumvirato di new waver fuori dagli schemi, completato da Elvis Costello e Graham Parker.
Nuove pietanze esotiche insaporiscono Beat Crazy (1980), griffato da una variopinta copertina-cartoon e accreditato alla Joe Jackson Band. Un omaggio a tutto tondo a quei sincopati ritmi giamaicani che tanto peso hanno avuto nella formazione musicale del compositore inglese e che in quegli anni appassionavano anche altri colossi albionici come Clash e Police. Ecco allora le pulsazioni reggae-rock della struggente title track, con Jackson e Maby ad alternarsi al canto, della nevrastenica "Mad At You" e della più riflessiva "In Every Dream Home (A Nightmare)", che racconta le tormentate esistenze di un presunto attore o peggio ("Is an actor so they say, or maybe worse") e di una modella "che sembra non lavorare mai anche se dai vestiti che indossa si intuisce che non è povera", concludendo che "in ogni casa dei sogni si annida un incubo".
Il tributo alla Giamaica è ancor più esplicito in "Battleground", il brano dedicato a Linton Kwesi Johnson, cantante e poeta giamaicano, pioniere del genere "dub poetry". Sulla falsariga di quel canto-recitato, Jackson intona un'ode alla fratellanza di black nigger e white nigger ("Black nigger stares/ White nigger sighs/ I like your music/ I like your style/ I crack a joke so why don't you smile"), inneggiando a "Rock against racism", la campagna politica e musicale nata in Inghilterra nel 1976 contro ogni forma di razzismo. Una tipica andatura ska sospinge "Pretty Boys", impreziosita da un bell'assolo di armonica, mentre i suggestivi intarsi di organo e piano fanno decollare la sofisticata "Crime Don't Pay" dal gusto vintage-seventies, ma Jackson si conferma anche melodista sopraffino, pennellando una torch-song da brividi come "One To One", che scava ancora nei recessi dei rapporti di coppia, all'insegna di una tormentata ricerca di intimità e sincerità ("One to one is real and you can't hide").
L'ambizione (e presunzione) trapela fin dalle note di copertina, in cui Joe fa sapere che "quest'album rappresenta un tentativo disperato di dare un senso al rock&roll". E in effetti brani come "Biology" - prima delle tante riflessioni sul contrasto corpo/anima, cui sarà dedicato anche un album intero - e "Fit" - sul tema dell'omosessualità, con versi espliciti come"Don't laugh, but there are people in this world, born as boys and fighting to be girls" - sono ulteriori saggi di un rock evoluto, in cui la frenesia mod-punk degli esordi sta cedendo progressivamente spazio alla versatilità jazz -blues che esploderà nei due dischi successivi. E laddove la confezione musicale è meno seducente, sopperisce sempre la raffinatezza ironica dei testi, come nella riflessione "metafisica" di "Someone Up There" ("Someone up there makes the sun and sea/ brought my girl to me/ makes the wind and rain... No messing with the hand of fate").
Jackson, insomma, si conferma autore raffinato e linguacciuto, discettando con disinvoltura di temi delicati - dal razzismo al femminismo, dall'omosessualità alle relazioni di coppia, senza trascurare i soliti commentari sociali - ma soprattutto ribadisce tutto il talento di un musicista completo e di un interprete in forte crescita, capace di spaziare da tesi recitati a crooning soffusi fino a quei crescendo di vibrante intensità che diverranno il suo marchio di fabbrica.
Beat Crazy non andrà oltre il n.40 nelle chart, ma sarà la base di partenza per la stupefacente doppietta che lo seguirà.
Sotto le stelle del jazz
Ma se Beat Crazy era proprio un disperato tentativo di restare aggrappato al verbo rock, i successivi album segneranno una svolta definitiva. "Non vengo dal rock - fa sapere - e voglio che lo si sappia in giro, a 13 anni ascoltavo Beethoven, a 14 i Beatles, a 15 studiavo violino e pianoforte, a 16 adoravo David Bowie, a 17 stravedevo per Duke Ellington e Charlie Parker, a 18 mi sono eccitato per il punk, non ho mai pensato di diventare uno di quei rocker che vomitano sui genitori e sulla famiglia, ma ero affascinato dalla scintilla interiore che muoveva i Sex Pistols".
Così, gettata alle ortiche la maschera del "gangster" post- punk, Jackson si trasforma in raffinato interprete jazz-blues, a capo di una vera e propria orchestra. Folgorato sulla via del jump blues degli anni Quaranta dall'ascolto compulsivo di Louis Jordan, l'ex-spiv allestisce una nuova band in stile Jordan's Tympany 5, con una sezione di fiati (Pete Thomas al sax alto, Raul Oliveria alla tromba e David Bitelli al sax tenore e clarinetto), il pianista Nick Weldon e il batterista Larry Tolfree, lasciando al basso e ai back vocals il fido Maby. Con questa formazione incide Jumpin' Jive (1981), una raccolta di classici prevalentemente dello stesso Jordan e di Cab Calloway, magistralmente riarrangiati, spaziando da grandiosità big band a swinganti partiture jazz e jive.
Il vocalismo retrò di Jackson si sposa al meglio con evergreen come la trascinante title track, la sorniona "We The Cats (Shall Hep Ya)", giocata sul divertente call & response tra il cantante e la band, la blueseggiante "Is You Is Or Is You Ain't My Baby" (tutte di Calloway) e rinfresca hit dimenticati del "re del juke-box" Jordan, come le lente e soffuse "Is You Is Or Is You Ain't My Baby" e "San Francisco Fan", giocando poi a mutar pelle in "You Run Your Mouth" e scatenandosi perfino in irresistibili divertissement alticci - la parodia di "What's The Use Of Getting Sober (When You're Gonna Get Drunk Again)" - mentre la strepitosa sarabanda percussiva di "How Long Must I Wait For You" testimonia tutta la potenza della big band cui sarà accreditato l'intero disco, la Joe Jackson's Jumpin' Jive.
Completano il disco due omaggi di segno diverso: "Symphony Sid", un pezzo di Lester Young con parole di King Pleasure, e "Tuxedo Junction", un lussureggiante tributo a Glenn Miller. "Quando mio padre aveva la mia età, il jazz non era una musica rispettabile. Era suonato in postacci come i casini, non alla Carnegie Hall", scrive Jackson nelle note di copertina, citando direttamente Jordan che - "come noi, non mirava al purismo o ai fan del jazz". Una passione antica, la sua, ma pienamente in linea con i nuovi fermenti britannici dell'epoca, quelli che porteranno un nugolo di artisti, dagli Aztec Camera a Sade fino agli Style Council, a pescare nel serbatoio del jazz, del soul e della bossa nova per forgiare nuovi, affascinanti ibridi musicali.
L'infatuazione jazz spiana a Jackson la strada per l'America. Jumpin' Jive, infatti, non solo raggiunge il n.20 delle chart britanniche, ma suscita molte curiosità anche oltreoceano, varcando le soglie della Top 50 e promuovendo così una nuova, fortunata tournée che dura tutta l'estate.
Lo sbarco in America è una folgorazione. Night And Day (1982), notte e giorno d'irrefrenabili eccitazioni. L'Englishman in New York non è un alieno, ma un viaggiatore curioso, che vuole carpire l'anima della Grande Mela. "Come per Woody Allen, anche per Joe Jackson New York è una città in bianco e nero, che pulsa tramite le melodie di Gershwin", scrive Andrea Spinelli. "The Man" viaggia attraverso le sue fumose atmosfere notturne, i suoi chiaroscuri, le sue nevrosi, ma soprattutto le sue cento voci musicali. Jackson resuscita idealmente le melodie di Gershwin, ma anche le orchestre di Duke Ellington, il soul di Marvin Gaye e i musical di Cole Porter, omaggiato sin dallo stesso titolo del disco. In più, si lascia attrarre dalle fascinazioni latine - la salsa di Eddie Palmieri e Ray Barreto - e dalle possibilità offerte da un combo di otto elementi, in cui piano, basso, fiati e percussioni fanno da padrone, ma le nuove tecnologie sonore (synth e drum machine) forgiano un seducente involucro di "pop urbano". Scompaiono così le chitarre, ultimo orpello di quella stagione post-punk che l'irrequieto Jackson si è ormai lasciato alle spalle. A padroneggiare questo pot-pourri provvedono arrangiamenti sontuosi, ma mai sopra le righe.
I nove brani si succedono quasi tutti senza soluzione di continuità, alimentando l'idea di un concept. Pur diviso in due parti (il lato A, più movimentato, sulla notte, il lato B, più riflessivo, sul giorno) l'album è infatti interamente pervaso da un mood notturno e sinuoso, che contagia fin dalle prime note di "Another World", il carosello percussivo che dà il benvenuto nel "nuovo mondo". La freschezza dei suoni non nasconde l'occhio critico di Jackson, che usa ancora toni da indagine sociale vagando spaesato per le vie di "Chinatown", al ritmo d'un jazzy-pop orientaleggiante scandito dal piano e dalle percussioni esotiche, camuffandosi da santone ethno-funk à-la Byrne (anche nel vocalismo nevrastenico) per denunciare le aberrazioni della "TV Age" ("Tv rules/ pretty soon you won't be able to turn it off at all"), divenendo egli stesso "Target", bersaglio ("Someone could smile at me then/ shake my hand then gun me down") in una selva di bonghi e congas.
Ma a mandare in gloria l'album è il singolo "Steppin' Out", praticamente la quintessenza dell'anima più lieve e innocente del decennio 80. Una radiosa melodia che si fa largo nel palpitante incedere elettro-pop delle tastiere glamour, tra un piano squillante e una possente linea di basso, alla ricerca di una via d'uscita dall'oppressione della metropoli ("We so tired of all the darkness in our lives/ with no more angry words to say/ can come alive... get into a car and drive/ to another side/ me Babe - Steppin' out/ into the night/ into the light").
Dopo la sbornia del lato A, il "day side" volge alla malinconia, con toni più pensosi e amari. "Breaking Us In Two" è una languida piano-ballad che echeggia gli Steely Dan di "Rikki Don't Lose That Number", mentre il sardonico jingle salsa di "Cancer" offre il poco rassicurante avviso che "everything gives you cancer".
Le due ballate finali sono una staffilata al cuore. L'epica "Real Men" lambisce un climax quasi "spectoriano" con la sua solenne orchestrazione d'archi (sintetici) e pianoforte a cullare l'invettiva di Jackson contro la "guerra dei sessi". "Slow Song" è un disperato inno al "lento", ultimo baluardo contro la tirannia della musica frenetica e disumana ("And I'm tired of dj's.../ I'm gonna tell him to.../ Play us a slow song"), ma anche lucido ritratto di solitudine e frustrazione: sette minuti impreziositi dal piano, dall'organo Hammond e da un'intensa performance vocale, che accumula pathos ed esplode nella liberatoria implorazione finale.
Il disco sarà il suo bestseller definitivo, sbancando la Top 10 sulle due sponde dell'Atlantico. Nello stesso anno uscirà anche "The Nightfly" di Donald Fagen, altro volo notturno sotto le stelle del jazz. E la lunga notte dell'America tornerà a luccicare ancora.
Galvanizzato dal successo, Jackson rilascia roboanti dichiarazioni sulla "morte del rock", anticipando di diversi anni la celebre sortita di Sting. E prosegue la sua fuga dai fetidi scantinati del punk, inseguendo le atmosfere vellutate della jazz label Blue Note su Body And Soul (1984). L'omaggio è palese sin dalla copertina, che ricalca il celebre scatto di Francis Wolff per l'album "Sonny Rollins Vol. 2", edito dall'etichetta nel 1957, e dal titolo, che cita lo standard jazz portato al successo dal sax di Coleman Hawkins nel 1939. In piena epopea eighties, nell'era del pop più plasticato e sintetico, Jackson insegue maniacalmente il suono "puro", rintanandosi in una chiesa sconsacrata, interamente rivestita in legno, che la Vanguard usa per le registrazioni di Classica. Con lui, un manipolo d'intrepidi orchestrali: oltre al solito Maby, l'ex-Blondie Gary Burke alla batteria, Vinnie Zummo alla chitarra, Ed Roynesdal (tastiere e violino), Tony Aiello (sax e flauto), Michael Morreale (trombe e flicorno), più due coriste di lusso come Ellen Foley ed Elaine Caswell. Anche le tecniche di registrazione, con due soli microfoni tradizionali, svelano la volontà di discostarsi il più possibile dagli artifici del decennio. Il risultato sarà una delle incisioni migliori della storia del rock, per la gioia degli audiofili.
Per tutti gli altri, invece, conta soprattutto l'enorme qualità musicale: un'ideale evoluzione del sound messo a punto nel disco precedente, stavolta in direzione soul e rhythm'n'blues. L'hit-single "You Can't Get What You Want (Till You Know What You Want)" ne è l'ideale manifesto: uno scattante funky, lanciato al galoppo dai fiati, con la sezione ritmica a contrappuntare solidissima e virtuosismi strumentali a go-go, inclusi funambolici solo di basso e di chitarra su tappeti di sax e d'organo hammond. Tutto il divertimento che questo straordinario ensemble mette nel suonare traspare nel "Cha Cha Loco" che, come da titolo, spinge su ubriacanti ritmi latini, con fiati in grande spolvero: praticamente un invito al ballo, così come il beat invasato di "Go For It", che resta forse l'unico aggancio agli esordi, finendo con lo stonare un po' in questo contesto.
Ma a dare lustro all'album sono soprattutto sontuose partiture orchestrali e ballate di classe superiore. Sul primo versante, svetta "Loisada" (abbreviazione in slang ispanico di "Lower East Side"), un'incredibile suite strumentale in tre tempi, con intro soffusa per piano e xilofono, ingresso struggente di tromba e sax a disegnare una mestissima melodia, intermezzo progressive che sfuma lentamente, lasciando spazio al dirompente crescendo e all'implosione finale. Ma non meno raffinate sono l'iniziale "The Verdict" (ispirata al film di Paul Newman), pomposa ed epica con possenti colpi di batteria a intercalare il cantato e le intrusioni jazzistiche dei fiati, e la costruzione di "Heart Of Ice", che parte dimessa tra filigrane di sax, chitarre insinuanti e strusci di spazzole, per aprirsi poi nel tripudio orchestrale conclusivo.
Tra le ballate, troneggia "Not Here Not Now", un'altra slow song da sciogliere il cuore, con gli eleganti rintocchi del piano a plasmare una melodia preziosa e commovente, un assolo di flicorno da brividi e una superba interpretazione di Jackson, nei panni del crooner inconsolabile, col bicchiere di whisky eternamente poggiato sul suo pianoforte a coda. "I dont' wanna cry", canta, ma l'effetto è l'esatto opposto. Struggente e tutt'altro che "lieto" anche il singolo "Happy Ending", in duetto assieme alla magnifica Elaine Caswell con voci in controcanto, un'altra prodezza di melodia punteggiata dal piano e dal sax; mentre "Be My Number Two" è effettivamente una "numero due": quasi un sequel della "Breaking Us In Two" di Night And Day, ma sempre raffinatissima con i suoi fraseggi di piano a incorniciare la dolce melodia e l'esplosione di fiati conclusiva.
Fisico e spirituale insieme, proprio come da titolo, Body And Soul chiude idealmente la trilogia dedicata alla riscoperta dei suoni del passato, iniziata con il manifesto swing Jumpin' Jive e proseguita con l'omaggio alle stelle del jazz di Night And Day. Il disco conquisterà la Top 20 sia in Gran Bretagna che negli Stati Uniti, grazie anche a un tour massacrante di due anni dal quale Jackson uscirà distrutto, meditando persino il ritiro.
Il mondo in diretta
E invece l'ineffabile Joe non solo non lascia, ma raddoppia. Con un altro ambizioso progetto: un doppio Lp (dove, in realtà, nel secondo vinile è inciso un lato solo) con ben 15 inediti, registrato dal vivo di fronte a una selezionata audience al Roundabout Theatre di New York City, il 22-25 gennaio del 1986. La scelta è motivata dal desiderio di catturare il suono in presa diretta (su matrice digitale a due piste, senza missaggi successivi), ma del live manca ogni altra caratteristica: il pubblico, infatti, viene invitato a non applaudire e a restare in silenzio il più possibile.
Big World funge da ideale summa del percorso intrapreso da Jackson in una carriera ancora breve, ma già densissima di soddisfazioni. A suonare è stavolta una formazione a quattro in cui ricompaiono le chitarre: riemergono, così, echi del rock "seppellito" qualche disco prima, a cominciare dalla bella cavalcata iniziale di "Wild West", con tanto di suggestioni western morriconiane e formidabile progressione finale, fino alle cadenze orientaleggianti della vorticosa "(It's A) Big World", per sconfinare addirittura nelle asperità hard-rock della forsennata "Tonight And Forever". Ma anche "Right And Wrong" denota in un certo senso un ritorno al passato, all'insegna di una rabbiosa invettiva politica, seppur attraverso tonalità funky più controllate e mitigate dai fraseggi di piano, così come "Hometown" ritrova il piglio power-pop degli esordi per rituffarsi con nostalgia nei luoghi della memoria e dell'infanzia. Più jazzata e retrò, "Soul Kiss" mette in mostra tutta la potenza strumentale di questo nuovo, favoloso ensemble.
Altrove questi esercizi di rock adulto appaiono un po' ingessati e anonimi (la title track, "Precious Time", "Survival", "The Jet Set", "Man In The Street"). Così a emergere prepotentemente è il genio del melodista fuoriclasse, in grado di inventarsi l'incantesimo esotico di "Shangay Sky" - una meravigliosa elegia pianistica al profumo d'Oriente, che avrebbe fatto la gioia di David Sylvian - o di sfoderare con disinvoltura due ballate mozzafiato di fila, come "Fifty Dollar Love Affair" e "We Can't Live Together": la prima, trascinata in qualche fumoso club parigino dalla malia nostalgica della fisarmonica, si colora di mille sfumature grazie ai ricami della chitarra e ai bruschi cambi di ritmo; la seconda è una sontuosa, disperatissima torch-song sull'amore impossibile, enfatizzata dal crooning sconsolato di Jackson, dai cori e dalle sottolineature orchestrali, con tanto di splendido solo di chitarra ed esplosione collettiva finale. Di fronte a questi capolavori, l'altra ballad "Forty Years" ha il solo torto di venire dopo, ma non le manca nulla per ben figurare, con il suo delicato carillon per piano e voce al servizio di un'elegante pièce.
L'eclettismo smisurato di Jackson, insomma, trionfa ancora, permettendosi persino un travolgente "Tango Atlantico", con o senza casqué, a conferma di un talento solo parzialmente riconosciuto dai consensi di pubblico e critica. Se Big World riesce ancora a trovare posto nella Top 40 di Billboard, infatti, le luci della ribalta cominciano progressivamente a spegnersi sull'opera del compositore inglese, condannato a un destino di progressivo oblio, soprattutto nel decennio successivo, anche per via del suo carattere scorbutico e riservato che lo terrà sempre a distanza di sicurezza dai clamori del music business.
Prima di chiudere il sipario sugli Eighties, c'è tempo, però, per un ultimo disco, Blaze Of Glory (1989). Un ritorno a sonorità più pop, ma in tono minore. Jackson sembra alle prese proprio con il problema che funge da (fumoso) concept dell'album: la difficoltà dei rocker di seconda generazione che devono fare i conti con la maturità. Quelli che vogliono essere "Nineteen Forever", come ironizza con brio nella traccia più riuscita del disco, una "Is She Really Going Out With Him?" aggiornata al tempo del (tardo) synth-pop. Perché l'intero album, in effetti, risente di una produzione un po' a metà strada, già sinteticamente demodé, forse, per essere alle soglie del nuovo decennio. Al punto che "Discipline", ritratto di yuppie scandito da un'ottusa drum machine, suona quasi come una parodia di Gary Numan fuori tempo massimo.
Eppure Jackson riesce a essere sempre unico, come quando ti piazza un'armonica à-la Stevie Wonder nel bel mezzo di un soliloquio sulla sua voglia di tornare a Londra "to be the king" (l'esuberante e nostalgica "Down To London"), o come quando trasforma l'ennesima ballata romantica in un austero lied classico ("Sentimental Thing"), o ancora quando pennella l'elettro-sirtaki di "Acropolis Now" lungo cervellotiche trame progressive. Forse più stucchevole, ma non meno sofisticato il jazz notturno di "Rant And Rave", con un funambolico assolo di piano. Altrove, invece, il disco perde smalto, limitandosi ad assecondare il virtuosismo del suo autore ("Tomorrow's World", "Me And You Against The World", "Evil Empire").
La title track, infine, funge da manifesto ideale del concept, una riflessione disincantata sulla caducità della gloria, raccontata attraverso la "tragic story" dell'ascesa e della caduta del giovane Johnny (parabola-tipo della rockstar stile live fast, die young). Un brano discretamente suggestivo, con tanto di ottoni tirati a lucido nel finale.
Pur essendo un album "minore" (anche in termini di vendite), Blaze Of Glory chiude idealmente la stagione migliore di Jackson, che abbandonerà progressivamente il pop-rock alla ricerca di nuovi stimoli e sfide musicali, incluse ambiziose incursioni nella Classica.
Il magico decennio 80 jacksoniano si completa anche con tre colonne sonore. La prima, Mike's Murder (per l'omonimo film del 1983 di James Bridges con la musa eighties Debra Winger), presenta un pugno di brani strumentali, con qualche spunto gradevole ("Cosmopolitan", "Memphis" e quella "Breakdown" che varrà una nomination ai Grammy); le musiche di Will Power (1987), nate dalla rielaborazione della soundtrack composta nel 1985 per un film giapponese, virano decisamente nel campo della Classica, con lunghe partiture orchestrali ("Symphony In One Movement" mette insieme cinquanta musicisti); mentre Tucker: The Man And His Dream (1988), la pellicola di Francis Ford Coppola che ripercorre le gesta del pioniere dell'auto Preston Tucker, è l'occasione per una nuova incursione nell'epopea jazz-blues degli anni Cinquanta.
E a coronamento di una stagione memorabile, esce anche un esaltante doppio album dal vivo, Live 1980/1986, registrato nel corso di quattro diversi tour mondiali con altrettante band: il Beat Crazy Tour del 1980 con il trio post-punk originale, il Night and Day tour del 1982-1983 con un quintetto dominato dalle tastiere, il Body and Soul tour (1984) con una corposa sezione di fiati, e infine il Big World tour (1986) con un quartetto più elettro-rock. L'ebbrezza di queste performance, in cui Jackson mostra anche tutto il suo virtuosismo di pianista, sassofonista e tastierista, fu catturata da una videocassetta di culto "Live In Tokyo", interamente registrata in Giappone.
In fuga dalle canzoni
Il nuovo decennio, per Jackson, inizia tutto in salita. Gravi problemi personali - un matrimonio fallito e una sindrome depressiva - lo gettano nello sconforto, mentre la scena musicale attorno a lui sta cambiando vorticosamente e tende a rimuovere con rapidità i miti del decennio passato.
Del resto, un disco come Laughter And Lust (1991) non aiuta a tenere vivo il ricordo di quegli anni memorabili. Un lavoro mediocre in cui affiora soprattutto una vena sarcastica nei confronti del music business: "Hit Single" ironizza sulle case discografiche, ansiose di sfornare successi da classifica, ma con un sound che non si discosta da quello di tante produzioni pop-rock convenzionali del periodo. Anche l'energica sfuriata di "Obvious Song" contro la politica degli armamenti attuata dalle superpotenze ("you don't have to be hippie to believe in peace") finisce col rispecchiare, nei suoni, l'autoironico titolo. E se "Stranger Than Fiction" e "It's All So Much" tentano invano di recuperare la freschezza rock degli esordi, le fiacche "Trying To Cry" e "Drowning" dimostrano che Jackson ha esaurito le cartucce anche sul fronte delle ballate. Meglio, semmai, la riuscita cover di "Oh Well" dei Fleetwood Mac, dominata da arrembanti percussioni.
Paradossalmente, proprio il disco più pop degli ultimi dieci anni svela come le canzoni tradizionali siano diventate per Jackson una palla al piede, come quella della copertina, che lo ritrae nei panni di un bizzarro carcerato. E lui lo spiegherà chiaramente qualche anno dopo: "Superata la soglia dei 40 anni, non me la sono più sentita di competere con artisti molto più giovani, con più energie e maggiore aggressività. Ma soprattutto ho cominciato a ritenere la formula ‘canzone da tre minuti' una gabbia troppo stretta per esprimere la mia creatività".
Così il musicista inglese si prende tre anni di pausa. E quando torna in studio per Night Music (1994), già ragiona da compositore classico. Ecco, allora, quattro notturni per pianoforte e quartetto d'archi (i "Nocturne" n.1, 2, 3 e 4), arrangiamenti da camera, lunghi temi strumentali e interventi vocali di Máire Brennan dei Clannad, con la quale Jackson duetta in "The Man Who Wrote Danny Boy", una sorta di "pièce folk celtica" con flauto gaelico a corredo. Il tutto, però, suona generalmente asettico e poco coinvolgente, così come l'anemico synth che imbastisce molte delle trame.
L'obiettivo di catturare il suono dei sogni, cogliendo le sfumature più quiete ed eteree della musica (la notturna "Lullaby", il finale trasognato di "Sea Of Secrets"), si rivela piuttosto velleitario e forse al di sopra anche delle possibilità di un compositore versatile e geniale come "The Man", tutto sommato ancora più a suo agio quando si accosta al pop ("Even After").
Curiosamente, a conferma delle affinità elettive tra i due "eretici" della new wave, nello stesso periodo anche Elvis Costello si cimenterà in un progetto a sfondo classico con le sue "Juliet Letters".
Il nuovo corso si compie appieno con il passaggio a Sony Classical, che frutta subito Heaven & Hell (1997). Un ciclo di brani sui sette peccati capitali, preceduto da un preludio in cui risplende il violino spiritato di Nadja Salerno-Sonnenberg. Certamente pretenzioso, ma a tratti anche affascinante, l'album si avvale di un cast di guest star, tra cui Suzanne Vega, Brad Roberts (Crash Test Dummies), Jane Siberry e Joy Askew. Summa di tutte le sue ambizioni è la complessa pièce elettronica "More Is More" (sui peccati di gola) cantata dallo stesso Jackson, così come "Song Of Daedalus", impetuosa ode alla superbia con trionfo di violini che culmina nella ripresa del tema del preludio, e la minacciosa "Right", sull'ira. La lussuria, per contrasto, è affidata al candore di Suzanne Vega, che interpreta l'angelo caduto ("Angel") inframezzata da inserti latin-jazz dove sale in cattedra la cantante classica Dawn Upshaw. L'altra voce angelicata di Jane Siberry scava nei tortuosi meandri dell'invidia ("The Bridge"), mentre il baritono cupo di Roberts decanta i languori dell'accidia in "A Bud And A Slice". L'avarizia, infine, assume la voce di Askew e le sembianze mefistofeliche dei mercanti d'armi di Tuzla, una delle città martoriate della guerra in Bosnia.
Tra fughe di violini, sequenze elettroniche processate al computer, eterei vocalizzi femminili e contrappunti ritmici latini, Jackson delinea il suo concetto di moderna sinfonia classica, mescolando (in tutti i sensi) sacro e profano. Troppo, per i critici rock, che non gliela perdoneranno. Ma tanti altri apprezzeranno, inclusi alcuni giornali americani che grideranno al miracolo dell'unione impossibile tra classica e pop.
Nel 1999 Joe Jackson fa uscire l'autobiografia "A Cure For Gravity: A Musical Pilgrimage", in cui chiarisce il senso del suo percorso musicale: "Oggi sto ancora facendo musica, ma non sono più una popstar, se mai lo sono stato. Sono semplicemente un compositore, che è ciò che mi interessa essere prima di ogni altra cosa".
Gli anni Novanta si chiudono con la pubblicazione di un nuovo ambizioso progetto strumentale, Symphony No. 1 (1999), una sinfonia in quattro movimenti, ognuno per una fase della vita (infanzia, adolescenza, maturità, vecchiaia) eseguita non da un'orchestra classica, ma da una band di dieci tra jazzisti e rocker, inclusi Steve Vai alla chitarra e Terence Blanchard alla tromba.
È musica pittorica, astratta, associata agli stati mentali delle varie fasce d'età: così nei 17 minuti del "First Movement" sboccia tutta l'euforia dell'infanzia, con l'iniziale solo di sassofono alto di Wessell Anderson, ma affiora anche un senso di mistero e di ansia per il futuro, tra atmosfere tese e improvvise esplosioni di fiati. L'inquietudine adolescenziale assume le nervose inflessioni jazz del lambiccato "Fast Movement", mentre l'approdo in età matura è segnato dalle cadenze più rallentate e riflessive dello "Slow Movement", forse l'episodio migliore, con il solo-monstre di Blanchard alla tromba su una coltre di archi e tastiere. Chiude il "Last Movement (Variations)", ode alla vecchiaia tutt'altro che rassegnata, con tambureggianti percussioni a punteggiare una melodia radiosa e con struggente coda corale, in cui irrompono tutti gli strumenti.
La Classica di Jackson è contaminata tanto quanto lo era la sua musica popular: c'è dentro la sensibilità del jazzista, il gusto melodico del pop e persino la fibra rock di certe sinfonie progressive. La critica, stavolta, comincerà ad ammettere che, sì, forse anche un ex-figlio del punk può legittimamente ambire a questo tipo di composizioni. E la vittoria di un Grammy Award, nella categoria Best Pop Instrumental Album, suggellerà idealmente questo nuovo, riconosciuto status jacksoniano.
Ritorno (e addio) a New York
Ma, fedele al camaleontico verbo bowiano "se una cosa funziona, buttala via", Jackson spiazza tutti e, all'alba del nuovo millennio, torna a sorpresa al pop, rispolverando i suoi hit degli 80 più alcune cover in formato live su Summer In The City (registrato dal vivo a New York col solo accompagnamento del suo piano e della sezione ritmica basso-batteria) e pubblicando addirittura un imprevisto sequel del suo capolavoro del 1982. Ma la New York di Night And Day II (2000) è cambiata, è una città indemoniata ("Hell Of A Town"), una giungla urbana sempre più caotica e prossima a pagare un tragico tributo di morte proprio con il sacrificio delle sue Twin Towers immortalate in copertina (un bello scatto in bianco e nero dello stesso Jackson, dall'interno di un taxi). L'Englishman torna a raccontarla con l'amore di sempre, ma con uno sguardo più mesto e disincantato: dopo il teso ritratto iniziale, per archi pizzicati e percussioni latine, "Stranger Than You" stempera la frenesia in sinuosi arrangiamenti elettronici per raccontare la vita nella metropoli cosmopolita dove non ci si sente mai stranieri ("a town where there's always somebody stranger than you"). E sincopate trame elettroniche venano anche la prodezza del disco: la mediorientale "Why", che la splendida voce dell'iraniana Sussan Deyhim trascina in un abisso d'infinita mestizia. A ricordare il legame con la prima puntata, giungono i rintocchi di piano di "Glamour And Pain", che citano la leggendaria "Steppin' Out" su cadenze quasi disco, con la drag queen Dale DeVere a discettare delle delusioni di una donna in crisi. Completa il team di voci stellari l'ugola arrochita e sempre magica di Marianne Faithfull, che trascina su decadenti atmosfere operistiche la struggente "Love Got Lost" (per piano e archi).
Quando è lui a prendere in mano il microfono, attorniato dalle solite percussioni elettroniche, Jackson appare invece un po' arrugginito e non riesce a far decollare brani indubbiamente sofisticati, ma senz'anima ("Dear Mom", "Happyland"). Non riesce nemmeno l'ardito ibrido metà classica-metà elettro-rock di "Just Because", mentre la scarna litania pianistica di "Stay" chiude il disco nel segno della nostalgia.
Nel complesso, comunque, pur distante dalle vette del primo capitolo, Night And Day II riesce a scongiurare il triste effetto dei sequel forzati, trovando un senso nel sincretismo musicale del Jackson del Duemila, forgiato dalle incursioni nel jazz e nella Classica e da una visione più ampia e trasversale del concetto di "canzone".
This was England
Ma, tanto per smentirci ancora, nel 2003 Jackson ritorna ancora più indietro, riunendo i membri della sua vecchia band - Graham Maby, Gary Sanford e Dave Houghton - per festeggiare i 25 anni del suo esordio, Look Sharp!. E fa pace col rock, dopo averlo ricoperto di contumelie negli anni Ottanta ("è conservatore, è maschilista e insulta l'intelligenza del pubblico"). Perché, spiega, "ogni tanto, almeno una volta nella vita, bisogna guardarsi alle spalle per poter andare avanti in modo migliore".
Un ritorno di fiamma non si sa quanto sincero, quello di Volume IV(quarto capitolo dell'ideale sequenza Look Sharp!-I'm The Man-Beat Crazy), registrato in soli dieci giorni, per cercare di catturare tutta l'istintività e l'immediatezza di questa rimpatriata. Fatto sta che le canzoni sono effettivamente dirette e ficcanti, a partire dall'iniziale "Take It Like A Man" dove Jackson mette i suoi fraseggi di piano al servizio di uno spumeggiante pop-rock, passando per il baldanzoso ska di "Thugz r Us", per il pungente pub-rock di "Dirty Martini" e per il lussureggiante funky di "Fairy Dust" (con qualche orpello pianistico a guarnire la pietanza), per approdare alle suggestioni beatlesiane di "Still Alive" (sorta di inno alla sopravvivenza con un passo alla "Ticket To Ride") e alla cavalcata punk finale di "Bright Grey". Canzoni non certo innovative, ma tirate e orecchiabili quanto basta, con le chitarre nuovamente in pista e l'indiavolato batterista Houghton a trascinarsi dietro la band.
Jackson ritrova anche il gusto della semplicità di ballate romantiche come "Chrome", "Blue Flame" e "Love At First Light", di quelle da cantare al piano a tarda notte, quando il night-club si sta svuotando, l'atmosfera si fa più intima e la malinconia ti prende alla gola.
Volume IV è un'istantanea post-datata dell'Inghilterra di 25 anni fa, quella ancora ebbra di furore punk e già irretita dalle prime fascinazioni wave. This was England. E ci piaceva non poco...
Seguiranno un tour mondiale, fotografato dal live Afterlife (2004), e, un anno dopo, un'altra serie di concerti, stavolta assieme a Todd Rundgren e al quartetto d'archi Ethel.
Singin' in the Rain
Il nuovo album Rain (2008) non cambia la storia di questo Leonard Bernstein del pop, confermando semmai la classe e il mestiere di un artista la cui passione filtra tuttora dalle sue canzoni. Il Jackson di oggi non è un autore sul viale del tramonto, che ha smarrito la voglia di suonare, ma anzi riesce ancora a spargere qualche malinconica brezza degna del miglior repertorio, di quelle che obbligano ad alzare volume e grado d'attenzione. "Sembrava sempre che piovesse - racconta - mentre lavoravo a queste canzoni, e pioveva ogni giorno mentre le abbiamo registrate. Amo la pioggia e non capisco perché molta gente fa questa associazione automatica con qualcosa di deprimente. Come faremmo senza la pioggia?".
Con l'ausilio del pianoforte, eletto anche questa volta a strumento principe (del tutto assenti le chitarre), Jackson confeziona con sapienza piovose struggevolezze come "Invisibile Man", ballatone che rimandano dritti dritti a Night And Day ("Too Tough"), movimentati saliscendi armonici ("Citizen Sane"), inappuntabili lentacci col fazzoletto in mano ("Wasted Time", "Solo, So Low"), svolazzamenti jazzy in zona Steely Dan ("The Uptown Train") e sagaci ammiccamenti al rock'n'roll delle origini ("King Pleasure Time", "Good Bad Boy"). Il tutto per affermare l'entusiasmo di esserci ancora, che si evince pure nel seguito dato alla reunion della Joe Jackson Band, presente quasi al completo in questo disco, registrato tra gli uggiosi viali di Berlino, dove il musicista inglese si trasferirà in pianta stabile, contrariato dal proibizionismo "no smoking" della New York a tolleranza zero di Rudolph Giuliani.
Un album che gli estimatori storici non mancheranno di apprezzare, mentre agli altri occorrerà doverosamente annunciare che le strade d'avvicinamento a Joe Jackson passano da altri lidi e sono ben più luminose di questa.
Tre anni dopo è la volta di un nuovo disco dal vivo, Live Music (2011), registrato con una formazione a tre (insieme a Jackson, l'inossidabile Maby al basso e Houghton alla batteria). Con una scaletta che alterna brani autografi e cover, attingendo in buona parte da Night And Day (5 tracce), ma senza disdegnare ripescaggi ad effetto, come la punkeggiante "Got The Time", nel frattempo trasformata in inno metal dagli Anthrax.
Tra le cover, la beatlesiana "Girl" scarnificata in una piano-song retrò, una divertita rilettura della bowiana "Scary Monsters" e una scalpitante "Inbetweenies" del compianto Ian Dury.
I vestiti nuovi del Duca
Nel 2012, a cinque anni da Rain, Joe Jackson torna in studio per suggellare l'omaggio a uno dei suoi grandi miti, Duke Ellington. Ma non c'è emulazione nelle dieci tracce di The Duke (2012). "Ho una venerazione per lui, ma questo disco non vuole essere un omaggio deferente", precisa Joe. E per dimostrarlo sfila dall'armamentario strumentale di Ellington l'asse centrale: le trombe. Ne scaturisce un album che rilegge il repertorio del leggendario compositore jazz facendolo suonare in modo del tutto inedito. Un'operazione ambiziosa, per la quale Jackson ha mobilitato un supercast di musicisti, tra i quali la violinista Regina Carter, il bassista Christian McBride, il funambolo Steve Vai alle chitarre, Questlove e altri membri dei Roots, la cantante iraniana Sussan Deyhim, la diva r'n'b Sharon Jones e la vocalist brasiliana Lilian Vieira (Zuco 103), oltre a a sua maestà Iggy Pop, che duetta con lui in "It Don't Mean A Thing (If You Ain't Got That Swing)".
Fin dai primi rintocchi di piano e dagli arpeggi elettrici dell'iniziale "Isfahan", un bel tema strumentale di oltre cinque minuti, si intuisce che l'atmosfera è quella giusta: una vellutata serata di jazz classico e immortale, venato però da una tensione elettronica che lo avvicina a certe produzioni contemporanee, in bilico tra modern classical e world music. Perché le percussioni e i violini di "Caravan", ad esempio, sono puro cosmopolitismo musicale, specie se affiancati ai vocalizzi mesmerici (in Farsi) della sempre magnifica Sussan. E lo standard "Perdido" si impregna di sensualità e saudade brasileira, grazie alla interpretazione solare della Vieira. Ma le radici sono sempre ben piantate nella tradizione americana, come ci ricorda un r'n'b d'antan come "I Ain't Got Nothin' But The Blues", affidato all'ugola della soul-diva Sharon Jones e arricchito da un pazzesco lavoro orchestrale, che rimanda ai più maniacali Steely Dan.
Alla sua voce, sempre inconfondibile anche se non più graffiante come un tempo, Jackson consegna invece un terzetto di appassionati omaggi: la swingante "I'm Beginning To See The Light", la struggente, pittorica "Mood Indigo" e una "I Got It Bad (And That Ain't Good)" romantica e disperata, quindi perfetta per il suo crooning. Quasi un divertissement, invece, il duetto conclusivo con un cavernosissimo Iggy Pop in "It Don't Mean A Thing (If It Ain't Got That Swing)", trascinato dall'orchestra e dai coretti su ubriacanti cadenze swing. Completano il quadro due altri riusciti strumentali: la scalpitante "Rockin' In Rhythm" e la sorniona "The Mooche/ Black And Tan Fantasy", impreziosita da superbi intarsi chitarristici.
Prodotto dallo stesso Jackson, registrato e mixato da Elliot Scheiner (Steely Dan, Bob Dylan, Sting), The Duke è il miglior omaggio possibile che Ellington potesse ricevere nel 2012, ma al tempo stesso un disco che reca integralmente la firma del suo autore.
Per il ritorno a un disco di inediti dopo sette anni, Jackson sfodera un progetto a sorpresa: un disco suddiviso tra quattro città e due continenti. Originariamente ideato come collezione di Ep, infatti, Fast Forward (2015) è imperniato in quattro sessioni di quattro brani ciascuna, registrate in quattro luoghi diversi: New York, New Orleans, Berlino e Amsterdam. Un'immagine, quella dell'avanzamento veloce, che esprime bene la frenesia dell'ex-Spiv, sempre in costante movimento tra generi e suoni. Sedici canzoni che riaccendono la fiammella di quella creatività pop ormai sopita in anni di erudite ricerche e contaminazioni tra classica e jazz.
Sorprende anzitutto la voce di Jackson, che sembra davvero aver beneficiato di quel lifting, malriuscito, ahimè, sui lineamenti ormai tremendamente plasticati del musicista inglese. Joe ha ritrovato la luminosità delle sue corde vocali, quel timbro euforico e sghembo che ci aveva sedotti nel nostro viaggio into the night, into the light. E ascoltare l'attacco di "Fast Forward" è un colpo al cuore per chi con quelle canzoni ci è rimasto sotto: sei minuti del miglior Jackson-sound con struggente assolo di violino della musa jazz Regina Carter a corredo, per raccontare come si debba andare avanti velocemente per leggere il futuro.
Attorniato da mostri come Bill Frisell alla chitarra, Brian Blade alla batteria e il suo storico bassista Graham Maby (oltre alla stessa Carter), Jackson si reimmerge nella sua amata/odiata New York cui dedicò ben due concept-album ("Night And Day" e "Night And Day II") anche attraverso una sorprendente cover della "I See No Evil" dei Television, pionieri del Cbgb's e della Grande Mela contagiata dai primi germi del punk. Chiudono il capitolo newyorkese l'incalzante "If It Wasn't For You" e la più soffusa "King Of The City", in cui Jackson si siede al piano cullandosi in atmosfere languide da night-club.
L'incursione tra i canali di Amsterdam si distingue invece per una maggior complessità delle parti strumentali, con Stefan Kruger e Stefan Schmid degli Zuco 103, la Royal Concertgebouw orchestra e il vocalist quattordicenne Mitchell Sink. Un set in cui brillano gli arrangiamenti ariosi uniti alla solidità pop di "A Little Smile" e "Poor Thing", ma soprattutto il groove latin-jazz di "So You Say", con una nuova prodezza melodica imbevuta in oceani di malinconia. Desta invece qualche perplessità la scelta di dividere con il candido enfant prodige broadwayano Sink le parti vocali di "Far Away": un effetto un po' Nikka Costa, per un brano comunque riuscito, con la sua fatata intro d'arpa e le sue armonie celestiali.
Berlino è ormai la seconda casa di Jackson, e il feeling si percepisce eccome nell'Ep inciso con Greg Cohen al basso acustico (Tom Waits, Ornette Coleman, Bob Dylan) e il batterista dei Tindersticks, Earl Harvin. Il ritornello alla Steely Dan e il riff ficcante di "Junkie Diva" (Amy Winehouse?) non fanno prigionieri, ma il climax emotivo è "If I Could See Your Face", contrita riflessione sulle differenze culturali, ispirata da un tragico fatto di cronaca del 2008 (l'assassinio per mano del fratello di una sedicenne afghana, accusata di voler seguire i costumi occidentali). Un brano prezioso anche sul piano musicale, con un assolo di organo di Jackson che sposa la tecnica del contrappunto (inclusa una citazione della "Toccata e fuga in Re minore" di Bach) con scale tipiche della musica araba, sublimando così, sul piano sonoro, il concetto d'integrazione. Berlino, però, è anche la patria del cabaret, e l'omaggio si consuma con la cover di uno standard anni Trenta tedesco, "Good Bye Johnny", intonato con stentorea voce recitante.
Il viaggio di Joe si conclude da dove era partito, dagli Stati Uniti, ma ripiegando nella provincia profonda di New Orleans, terra intrisa di jazz e poesia, con le sue storie di varia umanità sull'orlo dell'abisso. È forse il capitolo più segnato dalle tradizioni musicali del posto, grazie anche alla presenza di artisti locali, tra cui tre membri della band funk Galactic e una sezione fiati guidata dal sassofonista Donald Harrison. Ne scaturiscono l'uptempo "Neon Rain", il soul rapinoso di "Keep On Dreaming", i fiati dal sapore funky-jazz di "Satellite" e la chiusura in gloria di "Ode To Joy", omaggio al celeberrimo "An Die Freude" della Nona Sinfonia di Beethoven, con tanto di ritmo in 5/8 e tema affidato alla chitarra elettrica.
Quasi un'ora e un quarto di musica a fungere idealmente da summa dell'intero universo jacksoniano. The Man torna da protagonista, con tante idee e una verve inaspettata, che fa sperare il meglio anche per l'imperdibile segmento italiano del suo "Fast Forward Tour", atteso per marzo del 2016.
Registrato subito dopo la fine del lungo tour (103 tappe), il successivo album Fool (2018) mette in risalto l’affiatamento dell'attuale band, il sound è leggermente più asciutto, diretto, perfino aspro, sempre nel rispetto di quell’imprevedibilità stilistica già sperimentata anche nel recente passato.
I testi sono delle acute riflessioni sui temi basilari della vita, filtrate attraverso una chiave letteraria che alterna commedia e tragedia, nel tentativo di trarre un primo bilancio emotivo di una vita vissuta senza compromessi.
Le otto canzoni di Fool sono frutto di una scelta molto accorta, ogni brano è un tassello che si incastra alla perfezione in uno dei mosaici più variopinti dell’artista: si va dal leggiadro romanticismo dalle insolite reminescenze beatlesiane di “Dave” all’aristocratico scandire ritmico alla Donald Fagen di “Friend Better” fino alle più tipiche evoluzioni di “32 Kisses”.
Fa storia a sé l’incantevole ballata a tempo di rumba che chiude l’album, “Alchemy”, una sensuale e felpata canzone arricchita da un assolo di piano incantevole.
Ancora una volta Jackson si affida al piano per scandire tempi lirici di inaudita forza e bellezza, con quel taglio sinottico e flessibile che è diventato familiare (“Big Black Cloud”) e incurante del politically correct intona uno dei refrain più epici di sempre, cantando con toni bruschi e nervosi della confusione etica e sociale dei tempi correnti, affidando a un synth vintage e a un affilato suono di chitarra la grintosa sintassi sonora di “Fabulously Absolute”.
Anche nei brani più introspettivi il musicista sfodera energia e vigore armonico, difficile non pensare all’album Night And Day quando Joe accenna “Strange Land”: un brano dai toni cupi e malinconici quasi affini alla rassegnazione.
Le sorprese non finiscono qui, Joe sfodera un colpo di genio nell’esuberante title track: su un tempo ritmico quasi ska, infilza atmosfere orientali affidate al suono del sitar, nonché un trascinate refrain strumentale in chiave latin-jazz condito da eleganti assolo di piano e basso, sui quali il buon Graham Maby fa scivolare una citazione di “Don’t Stop The Carnival”.
Fool è quasi un novello Look Sharp!, un album che riparte dai temi cari al musicista con una consapevolezza e un equilibrio che non cedono alle lusinghe del moderno star-system. Ed è proprio in questa scelta da outsider che alberga il fascino di questo nuovo capitolo discografico.
Ancor più spiazzante il nuovo capitolo che cinque anni dopo aggiunge un nuovo tassello al variegato mosaico musicale del compositore inglese: Mr. Joe Jackson Presents: Max Champion In "What A Racket!" (2023), interamente dedicato al music-hall, genere al quale ha spesso ammiccato il pop inglese, dai Beatles ai Kinks. E' una raccolta di canzoncine umoristiche e sentimentali per voce e orchestra apparentemente scritte dal misterioso personaggio del titolo. Un omaggio ironico e divertito – da parte dell’arguto The Man - alla “prima forma di intrattenimento di massa creata dalle classi lavoratrici” le cui origini vanno individuate “nei pub e nelle strade della Londra di metà 19° secolo”.
Jackson presenta una piccola orchestra di 12 elementi che esegue 11 brani, tutti accreditati all’enigmatico Mr. Champion, che – stando alle sue parole – sarebbe nato nel 1882 nell'East End di Londra e avrebbe intrapreso una carriera di musicista bruscamente interrotta dalla Prima Guerra Mondiale, fino a cadere nell’oblio e tornare quindi a emergere, a partire dal 2014, quando i suoi spartiti sono stati riportati alla luce. Un salto nel tempo, dunque. Ed è difficile non immedesimarsi nelle atmosfere d’epoca fin dall’overture di “Why Why Why”, riflessione sulla futilità della vita condita da un’orchestrazione eccitata e alticcia da far invidia al miglior Tom Waits, così come del resto la sarabanda festosa della title track. Sembra davvero di ritrovarsi per un attimo tra le poltroncine rosse di qualche teatro dei primi del Novecento, dove prostitute e aristocratici si mescolavano per cantare insieme con le superstar dell'epoca. Episodi come "The Sporting Life" – comica parabola sull’indolenza verso lo sport – e la non meno arguta "Health & Safety" sono un travolgente mix di energia e marcato British humor.
I brani del music-hall rappresentavano la vita quotidiana dell’epoca vittoriana con risvolti satirici, ma toccavano anche temi cupi, come i crimini di strada. Molti erano caratterizzati da contenuti sessuali velati, trattati con doppi sensi, metafore e giochi di parole. Ecco allora la pantomima voyeuristica di "The Shades Of Night", in cui il protagonista si aggira per la città osservando scene di vita intima attraverso le finestre, e l’ambigua "The Bishop And The Actress", che esplora relazioni tra mondi apparentemente opposti, mentre dietro la struggente ballata trapuntata d’archi di "Dear Old Mum" si nasconde un testo feroce che narra di come "Mum" avesse 10 figli, “tutti felici e puliti” finché non hanno iniziato a morire uno alla volta mentre Mum beveva gin e faceva i giochetti.
È un disco difficile da giudicare, What A Racket!. A metà tra forbito scavo musicologico e divertissement, tra recita e allegoria satirica, vibra soprattutto dell’inesauribile vitalità di Jackson, tra coinvolgenti performance al pianoforte, vocalizzi surrealmente enfatici nello stile d'epoca e cori da pub imbevuti d’alcol. È un’operazione ambiziosa e allo stesso tempo senza pretese, se non quella di schernire i moralisti - dell'epoca ma anche di oggi – che hanno sempre snobbato il music-hall considerandolo un genere "non rispettabile". Di sicuro testimonia l’intatto stato di forma del sessantanovenne compositore inglese.
Eternamente controcorrente, refrattario a tutte le mode e i cliché, questo allampanato anti-rocker continua a saltellare senza posa da un genere all'altro, sfiorando a volte la megalomania, ma - ed è questo il miracolo - senza mai scivolare in quella superficialità che il camaleontismo spesso comporta. Anzi, forte del suo "look sharp", è riuscito sempre a penetrare a fondo lo spirito autentico di ogni stile. Dal punk al reggae, dal rock al blues, dal pop al jazz, dallo swing all'afrocubano, dal soul alle colonne sonore fino alla Classica, non c'è praticamente ambito musicale che il suo genio onnivoro non abbia toccato e approfondito. Così come è quasi senza precedenti, in campo pop-rock, la sua poliedricità di musicista, cantante, paroliere, compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra. Vengono in mente Zappa, Rundgren, Oldfield e pochissimi altri, ma nessuno di loro è riuscito a mantenersi così a lungo su questi standard di qualità.
Anche se il quarto d'ora di celebrità è finito da tempo, anche se in tanti continueranno a giudicarlo lezioso e pedante, Joe Jackson resterà sempre un rifugio prezioso per quanti non vogliono lasciarsi irretire dall'ultima next big thing e preferiscono affidarsi al respiro senza tempo della sua musica. Un'oasi dove potersi sempre rifocillare di leggerezza, classe e intelligenza. E scusate se è poco.
Contributi di Gianfranco Marmoro ("Fool")
Look Sharp! (A&M, 1979) | 8 | |
I'm The Man (A&M, 1979) | 7 | |
Beat Crazy (A&M, 1980) | 7 | |
Jumpin' Jive (A&M, 1981) | 7 | |
Night And Day (A&M, 1982) | 9 | |
Mike's Murder (colonna sonora, A&M, 1983) | 6 | |
Body And Soul (A&M, 1984) | 8 | |
Big World (A&M, 1986) | 8 | |
Will Power (colonna sonora, A&M, 1987) | 6 | |
Live 1980/86 (live, A&M, 1988) | 8 | |
Tucker: The Man And His Dream (colonna sonora, A&M, 1988) | 6,5 | |
Blaze Of Glory (A&M, 1989) | 6 | |
Stepping Out: The Very Best Of Joe Jackson (antologia, A&M, 1990) | ||
Laughter & Lust (Virgin, 1991) | 5 | |
Night Music (Virgin, 1994) | 5 | |
Heaven And Hell (Sony Classical, 1997) | 7 | |
This Is It: The A&M Years 1979-1989 (antologia, A&M, 1997) | ||
Symphony No. 1 (Sony Classical, 1999) | 7 | |
Summer in the City: Live In New York (Manticore/Sony Classical, 2000) | 7 | |
Night And Day II (Manticore/Sony Classical, 2000) | 7 | |
Steppin' Out: The Very Best Of Joe Jackson (doppio cd, antologia, A&M, 2001) | ||
Two Rainy Nights: Live in Seattle & Portland (live, Great Big Island, 2002) | ||
Volume 4 (Rykodisc, 2003) | 6 | |
Afterlife (live, Rykodisc, 2004) | ||
Rain (Rykodisc, 2008) | 6,5 | |
Live At The Bbc (doppio cd, live, Spectrum, 2009) | ||
Live Music (earMusic, 2011) | 6 | |
The Duke (Razor & Tie/Edel, 2012) | 7 | |
Fast Forward (Ear Music, 2015) | 7,5 | |
Fool (Ear Music, 2018) | 7 | |
Mr. Joe Jackson Presents: Max Champion In "What A Racket!" (Ear Music, 2023) | 7 |
Is She Really Going Out With Him? (videoclip da Look Sharp, 1979) | |
It's Different For Girls (live in Cleveland, da I'm The Man, 1979) | |
Mad At You (videoclip da Beat Crazy, 1980) | |
Jumpin' Jive (live da Jumpin' Jive, 1981) | |
Steppin' Out (videoclip da Night And Day, 1982) | |
Breaking Us In Two (videoclip da Night And Day, 1982) | |
Slow Song (live at Rockpalast, da Night And Day, 1982) | |
You Can't Get What You Want (Till You Know What You Want) (live, da Body And Soul, 1984) | |
Happy Ending (videoclip da Body And Soul, 1984) | |
Right And Wrong (live, da Big World, 1986) | |
Hometown (live, da Big World, 1986) | |
Nineteen Forever (videoclip da Blaze Of Glory, 1989) | |
Hit Single (live in Sydney, da Laughter And Lust, 1991) | |
Song Of Daedalus (live, da Heaven & Hell, 1997) | |
Love Got Lost (with Marianne Faithfull, da Night And Day II, 2000) | |
Good Bad Boy (live From Islington Academy, Londra, da Rain, 2008) | |
The Duke Documentary (documentario sulla realizzazione di The Duke, 2012) |
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