Suzanne Vega

Suzanne Vega

La folksinger che sfidò la solitudine

"Oggi sono una piccola cosa triste", cantava un tempo. Con le sue ballate intimiste ha aperto la strada a una nuova generazione di cantautrici. Nel segno di un folk-pop acustico di grande eleganza e sensibilità. Raccontiamo Suzanne Vega, anti-star del rock, attraverso le sue parole e i suoi dischi

di Claudio Fabretti, Michele Saran

"È la cantautrice più personale, forte e completa degli ultimi anni", proclamò il New York Times ai tempi del suo esordio. E mai profezia si rivelò più azzeccata, perché è stata proprio Suzanne Nadine Vega ad anticipare la rinascita del cantautorato femminile d'oltreoceano, ad aprire la strada alla generazione di Tori Amos, Sheryl Crow, Lisa Germano, Fiona Apple, Ani DiFranco, Alanis Morissette. Anche se l'artista californiana ha sempre dovuto combattere contro le resistenze e i pregiudizi di un music business già restio ad attribuire alle donne i loro meriti, figurarsi nel caso di una cantautrice che ha fatto della sobrietà e della discrezione il suo marchio di fabbrica. Un'antidiva per scelta, insomma. "Se tieni un basso profilo puoi durare più a lungo, anche se magari non finisci sui giornali - ci ha raccontato con una punta di soddisfazione durante una conversazione telefonica - Il mio modello è Leonard Cohen: l'avete mai visto ubriaco o con look stravaganti? Eppure è fantastico". Parole pronunciate con lo stesso garbo e la stessa grazia che mette nelle sue interpretazioni.

Al luna park del Greenwich Village

Originaria di Santa Monica, classe ’59, Suzanne si trasferisce da piccola a New York, la New York abitata dai folksinger e mitizzata novella Babilonia da Lou Reed.
Frequenta la comunità ispanica, ascolta musica sudamericana e studia danza alla High School of performing arts. Poi si laurea in inglese alla Columbia University. La passione per la musica - che coltiva scrivendo canzoni fin dall'età di quattordici anni - la indirizza verso il circuito folk del Greenwich Village. E sarà proprio un concerto di Lou Reed nel 1979 a folgorarla sulla strada del rock: "Era la prima volta che vedevo un artista affrontare con coraggio temi come la violenza e la disperazione. Capii che avrei potuto scrivere canzoni sugli esclusi, sulla gente della strada, che sarei potuta diventare una folksinger". Ed è proprio con testi minimalisti, innestati su delicate trame sonore, che Suzanne si presenta alle prime audizioni. "Era orribile - ci ha raccontato - Capitava di suonare davanti a un tizio che mangiava una bistecca di maiale e beveva birra, e alla fine ti diceva: No grazie".

Quando la ragazzina Suzanne muove i suoi primi passi nel mitico Greenwich Village, le appare - più che un mondo dimenticato - un parco giochi di memorie ed echi del passato, quasi una stupenda allucinazione, l’habitat ideale per le poesie che in segreto scrive mentre ancora va a scuola. E’ solo dodicenne quando sua maestà Pete Seeger la invita sul palco per il suo primo concerto in assoluto. Da lì fama, reputazione e successo crescono esponenzialmente, fino a farla diventare una sensazione in tutto il quartiere, una delle più richieste performer. Arriva a registrare i suoi primi provini nelle riviste “Fast Folk” curate dal non più giovane cantautore e cultore folk Jack Hardy, e la loro circolazione si spinge oltre i confini del genere.
Le persone giuste s’innamorano di lei. La sua tecnica all’acustica, che esalta e ammoderna quella di Joni Mitchell, ma più ancora il canto dimesso, umile, persino afono e assente, fanno intravedere il limpido talento della giovane Vega a un volpone rock come Lenny Kaye e a Nancy Jeffries della A&M. La nuova gittata di provini del 1984 è solo una conferma: Kaye studia i giusti impasti cromatici da affiancare alle sue storie, e i relativi musicisti da impiegare (in realtà uno stuolo impressionante, considerata la rapida ascesa della ragazza). Ne risulta una perfezione di spontaneità, tutta immortalata nel primo long-playing omonimo pubblicato finalmente nel 1985, un debutto che canta con dolcissima apatia la piattezza metropolitana, e che si rivelerà influente anche in stili e generi limitrofi al nuovo folk-rock, una piccola e silenziosa rivoluzione. Lo stile è molto personale: voce tenue, spesso sussurrata, frasi brevi: "Ho avuto l'asma per molto tempo, non potevo respirare e tenere le note lunghe", rivelerà poi.

L’apertura in punta di voce di “Cracking” (la chiusura di “Neighborhood Girls” è speculare, ma insolitamente vibrante e sostenuta southern-funk) imposta il tono globale di Suzanne Vega (1985) senza la minima fatica, in un carillon crepuscolare che lambisce la stasi tibetana, mentre sprofonda nella sconsolatezza. Seguono poesiole musicate con arrangiamenti domestici, amatoriali, più preda delle sue ossessioni che di una reale musicalità: la plumbea e sospirata “Small Blue Thing”, sottolineata da suoni elettronici bambineschi, ma anche da synth che dilatano la mestizia, è in realtà un flusso di coscienza cantabile, come se Vega avesse orchestrato alla bell’e meglio una sua immaginaria seduta psicanalitica. "Oggi mi sento una piccola cosa triste/ come un marmo/ come un occhio.../ Sono persa dentro la tua tasca/ sono persa contro le tue dita", canta in un testo imbevuto di mestizia e sofferenza. "Mi ci sento ancora, ma solo a volte - ci rivelerà - Il fatto è che la tristezza mi spinge di più a scrivere. Quando sono allegra, invece, preferisco fare altro. Tipo andare a ballare o fare shopping".
Ancora più subliminale, impossibile e muta è “Freeze Tag”, affidata quasi solo al soffice tintinnare dell’acustica. Così nel refrain di “Knight Moves”, un gioiello da cantata barocca che agita brividi di desolazione, forse la più silenziosa nei suoi strozzati tocchi flamenco. Così “Undertow”, dagli accordi sbozzati nel buio della cameretta, concedendo solo poco spazio alla coralità drammatica di un ritornello che si spegne subito, quasi timoroso di scuotere la monotonia in cui è incastonato.
Forse un po’ troppo didascalica nei suoi intenti narrativi-metaforici è “The Queen And The Soldier” (anche se sembra presagire i canovacci celtici di Loreena McKennitt). Su tutto comunque si stagliano due maniacali cantilene a perdifiato: una glaciale, invocante “Some Journey”, guidata dal canto che sembra scomparire nelle sue stesse parole, nelle sue domande e negli angoli bui del suo animo, e soprattutto una “Marlene On The Wall”, capolavoro folk-rock di emozioni implose, che accarezza una visione assieme mitologica e malinconica: "Marlene watches from the wall/ Her mocking smile says it all/ She records the rise and fall/ Of every soldier passing/ But the only soldier now is me/ I'm fighting things I cannot see/ I think it's called my destiny/ That I am changing". Lo spunto del testo non ha nulla a che vedere con più celebrati "muri", riferendosi - come lei stessa ha scherzosamente raccontato - a un "more anonymous wall", il muro della sua camera da letto, dove da ragazzina teneva appesa una foto di Marlene Dietrich.

Suzanne Vega resterà un classico del canto intimista femminile. La sua forza introversa e la sua magia d’atmosfera derivano da una sagace fusione delle sue componenti: voce onirica, testi cupi ma enunciati come in una favola, suoni insieme tecnologici e da camera, tocchi commoventi. Rarefatta sintesi di due inquietudini cozzanti, l’anelito di emancipazione dei 70 e il disagio urbano dei 90, profetizza - inconsapevolmente ma non troppo - una nuova generazione di cantautrici. Notevole la mise en place sfumata e a briglia corta dei turnisti (e dei produttori: su tutti il grande Kaye), cui Vega sembra addirittura trasmettere la propria mestizia; solo al vertiginoso violino elettrico di Darol Anger sul finire di “Some Journey” scappa uno sprint d’entusiasmo.

A consolidare il successo arriva una importante collaborazione con Joe Jackson per un'altra elegante ballata, "Left Of Center", inclusa nella colonna sonora del film "Pretty In Pink" (1986).

"Luka sono io"

La ex-ragazzina timida dei folk-club newyorkesi, insomma, è riuscita a farsi largo, ad affermare una personalità forte, seppur apparentemente nascosta tra le pieghe della sua timidezza e ritrosia. Ma a farla diventare una star mondiale provvederà il suo secondo album, Solitude Standing (1987), grazie a una maggior apertura al pop e ai suoi due singoli di successo. "Luka", in particolare, spopola in tutto il globo, con la sua aggraziata veste chitarristica folk-pop a celare una dura storia di violenze domestiche sui minori. Una lenta e inesorabile discesa agli inferi che inizia con toni confidenziali (“Mi chiamo Luka, vivo al secondo piano, vivo sopra di voi, sì, penso che mi abbiate visto prima”) per virare presto in una disperata fuga verso la solitudine, come unica via d'uscita dalla paura ("E se chiedete ecco cosa dirò/ che non è affare vostro comunque/ Penso che mi piacerebbe stare da solo/ Con niente di rotto"). "Luka" nasce da uno spunto doppiamente autobiografico: "Alcuni anni fa, vedevo questo gruppo di bambini giocare di fronte al mio edificio, e c'era uno di loro, di nome Luka, che sembrava un po' diverso dagli altri - racconterà Vega - Nella canzone, Luka è un bambino abusato, nella vita reale non credo lo fosse, penso che fosse solo diverso". Ma nella nostra conversazione, l'artista americana rivelerà anche di essersi ispirata in parte alla sua stessa, dolorosa infanzia: "Mi sono nascosta dietro questo personaggio immaginario per raccontare l'incubo della violenza sui bambini, che da piccola ho vissuto sulla mia pelle. Ebbene sì, Luka sono proprio io". Un'infanzia difficile per molti aspetti, quella di Suzanne, che a 9 anni scoprì che lo scrittore portoricano Ed Vega, con cui viveva insieme alla madre a New York era solo il padre adottivo. "È stato uno shock, ho dovuto riesaminare la mia identità: mi piaceva l'idea di essere per metà portoricana, e invece, improvvisamente, scoprivo di essere bianca al cento per cento", ci ha rivelato ancora. "Luka" diventerà "canzone dell'anno" negli Stati Uniti e resterà una delle sue massime hit. In Italia sarà anche tradotta in una cover da Paola Turci.
L'altro colpo da ko è "Tom's Diner", incalzante brano a cappella ambientato durante una colazione al Tom's Restaurant sulla 112ª strada a Broadway, che sarà in seguito remixato da due produttori di musica dance britannici col nome di Dna e verrà perfino usato come traccia di riferimento in una prova del sistema di compressione Mp3. Una canzone con cui Suzanne rivela al mondo la sua poliedricità di interprete: non più solo sobria e timida folksinger acustica, ma anche chanteuse a tutto tondo, a suo agio nel canticchiare a mo' di filastrocca questa tenera pagina di diario metropolitano.
Ma anche nella sua opera seconda, la cantautrice di Santa Monica non rinuncia alla sobrietà di fondo della sua impostazione. Pochi orpelli e arrangiamenti spogli: solo qualche ricamo di tastiere a impreziosire "Luka", più qualche lieve pulsazione ritmica ad animare la title track (inquietante riflessione sulla solitudine, sempre in agguato come uno spettro) oltre a "In The Eye" e "Wooden Horse". Ma nel complesso a far da padrone sono le chitarre acustiche, al servizio del timbro flebile e aggraziato di Suzanne, dall'ipnotica "Ironbound/Fancy Poultry" alla romantica "Gypsy", dalle ipnotiche visioni notturne di "Night Vision" alla più radiosa "Language", che discetta ironicamente della vacuità delle parole. In scaletta anche il ripescaggio di una canzone incisa da Suzanne nella tarda adolescenza, l'eterea fiaba di "Calypso".

Per la cantautrice americana è un altro centro pieno, anche se manca forse una degna erede della magica "Marlene On The Wall". Solitude Standing raggiungerà la seconda posizione della Official Albums Chart e la numero 11 della Billboard 200. Non male per una small blue thing.

Alla fine degli anni Ottanta, Suzanne Vega consolida la sua reputazione di provetta folksinger in impeccabili concerti in America e in Europa, aperti sempre da "Tom's Diner". Conquista copertine e infrange cuori: i magazine musicali, inizialmente restii a dare troppo spazio a quella timida e pallida antidiva in guanti neri immortalata sulla copertina di Solitude Standing, si lasciano conquistare dal fascino coraggioso di un'artista che mostra un'incredibile lucidità di visione e chiarezza d'intenti. Incluso il rifiuto di un certo jet-set newyorkese che pure, in quegli anni, la corteggiava: "Niente feste, frequento poca gente. L'altro giorno però ho visto Lou Reed, è sempre un tipo divertente", ci ha raccontato, sempre in quel periodo. E a proposito della sua città adottiva, New York, ha tratteggiato un ritratto a due facce: "È diventata una città piena di rabbia e di violenza, mi fa soffrire; ma la vita culturale è sempre molto stimolante".

I nuovi oggetti del desiderio

Il nuovo decennio Novanta si apre con Days Of Open Hand (1990) dalla copertina inquietante e misteriosa, con Suzanne che affiora da una cornice su sfondo nero con strane mani a contornarla.
Dopo due dischi dal forte impatto (più folk il primo, più pop il secondo), la cantautrice californiana smarrisce per strada un po' di immediatezza, rifugiandosi in un suono molto più denso e strutturato, con atmosfere più sognanti ma anche cupe, umbratili, in cui si fanno largo inediti sintetizzatori.
Non mancano però aperture melodiche di razza, come quella dell'iniziale "Tired Of Sleeping", che narra la smania di nascere di un bambino su una soffice coltre di mandolini e chitarre. Altrettanto accattivante la filastrocca scanzonata di "Book Of Dreams", che segna forse il momento più allegro e brioso di un disco dominato invece da un mood piuttosto desolato e pessimista, anche quando il ritmo sale su andature rock più sostenute (la dolente "Men In A War", metafora sui mutilati di guerra).
Gli episodi più elettrici, come "Rusted Pipe", con armonie d'organo e tintinnanti percussioni, e l'onirica "Big Space", rinnovano le intuizioni sintetiche del celebrato predecessore ma senza convincere appieno.
Meglio, semmai, gli episodi più spogli e acustici, come la visionaria litania di "Predictions", la trasognata "Institution Green" - riflessione amara su una società sempre più alienata e materialista - la paranoica "Those Whole Girls", con versi reiterati ossessivamente su arpeggi inesorabili fino a sfumare nel vuoto, e la litania ebbra di passione di "Room Off The Street", cadenzata da chitarre latine, flauti e percussioni gitane. Brani che costituiscono il cuore spirituale del disco, sublimato poi dagli aromi orientaleggianti e dai versi esistenzialisti della conclusiva "Pilgrimage". Ma il climax drammatico sta probabilmente nei versi raggelanti di "Fifty-Fifty Chance", istantanea di un tentato suicidio appesa alle corde tese di un violoncello e di un malinconico violino, fino a quell'inquietante quesito finale: "Will she try it again?".
Disco coraggioso, ancora intriso di classe e personalità, ma non graziato da hit o potenziali tali, a volte anche un po' irrisolto nella sua tensione tra drammaticità e incanto, Days Of Open Hand non riuscirà a ripetere il successo dei due album che l'hanno preceduto, segnando una battuta d'arresto per l'ascesa della cantautrice di Santa Monica.

Consapevole di aver incupito un po' troppo il suo suono, Vega cambia drasticamente registro sul successivo 99.9 F° (1992), che fa sfoggio anzitutto di ciò che mancava allo sfortunato predecessore: un singolo vibrante e memorabile. Trattasi della stupenda ballata "In Liverpool", altro superbo saggio di folk-pop magicamente cantilenato da Suzanne per un quadretto malinconico di una Liverpool domenicale, senza traffico sulla strada e con una luce tenue e sottile, proprio come la persona a cui la cantautrice americana si rivolge ("Uno dei miei primi ragazzi", per sua stessa ammissione). Graziata da un'apertura melodica commovente, "In Liverpool" va a inscriversi nel pantheon delle sue canzoni più intense e toccanti, capaci di trafiggere il cuore col minimo degli orpelli.
Ma non finisce qui, perché l'intrepida Suzanne ha in serbo anche una piccola rivoluzione sonora, ascrivibile sotto l'ibrida sigla "folktronica", ma capace persino di sconfinare a pochi passi dall'industrial. Ne è un riuscito manifesto l'apertura di “Rock In This Pocket”, con il sottile, splendido timbro vocale di Suzanne avvolto in robusti strati di synth e scandito da battiti tambureggianti sullo sfondo. Una commistione tra spirito folk e veste sintetica che si rinnova nei rumorismi elettronici di “Blood Makes Noise”, tra linee di basso gommose e potenti, e nella incalzante title track, dove la dolcezza armonica dei vocalizzi si sposa a scariche elettriche e graffianti riff di chitarra.
Poi, però, c'è tutta la grazia acustica della Vega folksinger, pronta a riemergere con il suo carico di groppi in gola e lacrime trattenute, in frangenti intimisti come l'ombrosa “Bad Wisdom”, la contrita “Blood Sings” e la conclusiva “Song Of Sand”, tutta sospesa su un filo sottile di arpeggi di chitarra e vocalizzi esangui, con refoli di violini in lontananza ad accrescere il pathos.
Primo capitolo della collaborazione con il produttore e compagno Mitchell Froom, che sposerà poco dopo la pubblicazione dell'album, 99.9 F° è un altro atto di coraggio di un'artista decisa a non restare confinata nella sua comfort zone e capace di modellare il suo stile su una gamma di sonorità diverse e distanti, senza disperderne l'intimo nucleo musicale e, soprattutto, l'anima.

Tra i Nine Objects Of Desire (1996) del successivo lavoro, ci sono pure due passioni adolescenziali mai sopite: bossa nova e jazz. Più in generale, sotto la sapiente guida di Froom, Vega continua a esplorare e sperimentare territori musicali più strutturati, anche se si attenua l'audacia del predecessore, con la scomparsa pressoché totale (ad eccezione forse del techno-rock di "Casual Match") di quei ritmi para-industrial e di quei campionamenti metallici che affioravano in superficie alla temperatura di 99.9 F°. Restano però le tastiere stratificate, le percussioni ossessive e gli arrangiamenti sofisticati, modellati sulla vocalità sempre delicata e sinuosa di Suzanne.
La prodezza si chiama "Caramel", un elegante e suadente samba alla Astrud Gilberto illuminato da una nuova radiosa apertura melodica. Suggestivo e struggente anche l'atto finale di "My Favourite Plum" con Vega deliziosa musa, pienamente a suo agio tra sinuose trame di archi, chitarre e organo vintage, ad alto tasso di melanconia.
Ma le ibridazioni di genere proseguono con l'elegante pop jazzato di "Thin Man", la miscela bossa-nova/funk di "Stockings" e il groove oscuro di "Headshots", a celare una nuova dolente riflessione sugli errori passati. Perché Vega non ha smesso di guardarsi dentro, di riflettere allo specchio, con il suo versificare sempre sottile e acuto, come testimonia la pungente "World Before Columbus" ("If your love were taken from me/ Every color would be black and white/ It would be as flat as the world before Columbus/ That's the day that I lose half my sight").
Il bozzetto folk da incorniciare, invece, risponde stavolta al nome di "Honeymoon Suite", un richiamo prepotente alle radici da cui tutto è nato, con la suggestiva declamazione di Suzanne poggiata su un morbido arpeggio di chitarra acustica.

Con i suoi Nove oggetti del desiderio, insomma, Suzanne Vega si presenta nei panni di una chanteuse matura e raffinata, sicuramente più eclettica degli esordi, per certi versi anche pacificata - dalle nozze con Froom ha avuto una bambina, Ruby. Un cammino artistico, il suo, che si è intrecciato anche con una sincera ricerca spirituale. Buddhista da diversi anni, ci ha rivelato di non partecipare più ai riti come un tempo: "Ma a casa tengo ancora il mio piccolo altare; l'unico problema è che ora tra la vasca dell'incenso e le candele ci sono i pupazzetti dei sette nani di Ruby!".

Suzanne Vega può dunque guardarsi indietro e scorrere la sua carriera attraverso i suoi già numerosi successi, racchiusi nell'antologia Tried And True (1998), impreziosita da un nuovo accattivante inedito come "Book & A Cover", con la sua voce tenue ad ammonire sulla necessità di non giudicare facilmente dalle apparenze ("What's that they tell you/ About a book & a cover?/ Don't judge so quickly/ They'll tell you one thing and then another"). Nel frattempo, avvia anche un'attività parallela da scrittrice, a partire da "The Passionate Eye", un libro di racconti, poesie e canzoni inedite, tradotto in Italia come "Solitude Standing" da Valerio Piccolo per Minimum Fax.

Il rosso e il grigio

Sospesa tra la malinconia di Laura Nyro e l'austera eleganza di Joni Mitchell, Suzanne La Dolce traccia dunque una nuova via che consentirà a tutte le fanciulle con la chitarra di quel periodo di uscire dal loro bozzolo e immaginare un futuro di successo. Non sarà un caso, quindi, vederla troneggiare a mo' di madrina qualche anno dopo sul palco del Lilith Fair, il trionfale tour itinerante tutto al femminile ideato da Sarah McLachlan. Perché tutto quel fenomeno, più o meno consapevolmente, ha preso le mosse proprio dalle prime ballate strimpellate alla chitarra dalla ragazza che teneva la foto di Marlene in cameretta. "Non pensavamo di avere tanto successo, è stato fantastico. Merito soprattutto di Sarah, che ha creato un clima accogliente e ha avuto l'intuizione di destinare in beneficenza parte degli incassi per sostenere i diritti delle donne", ha commentato.
Nonostante il successo, però, il personaggio-Vega continua a restare un'incognita. Nessun pettegolezzo, nessuna stravaganza ha mai toccato la vita di questa rockstar sui generis. "Eppure la mia vita è molto strana - rivela con un pizzico d'orgoglio - solo che nessuno lo sa. Sono riservata, ma non timida, e mi sento una scrittrice più che una rockstar". Già, scrivere canzoni, è questa la sua vera passione: "Molte volte nascono come sogni, le buttò giù senza pensarci. E dopo capita che non riesco più a capire che cosa volevo dire", ammette candidamente.

La fine degli anni Novanta è segnata da giorni dolorosi di distanze e separazioni. Anzitutto, il divorzio di Vega dal marito, Mitchell Froom, che segna indelebilmente Songs In Red And Gray (2001). "Era sempre in giro per lavoro, non riuscivamo più a tenere in piedi il nostro rapporto. È triste, ma la carriera ha contato più degli affetti - ammetterà - Ma sono pochi i brani dell'album che raccontano di Mitchell". Tra le note, però, le emozioni sono palpabili: "Spero che le donne che stanno affrontando un divorzio troveranno un sollievo nell'ascoltare queste canzoni: nonostante i temi trattati, non sono malinconiche".
Ma è un disco di addii, Songs In Red And Gray. Anche sul piano artistico. Sarà infatti l'ultimo capitolo discografico del lungo sodalizio con la A&M Records, l'etichetta che aveva fortemente creduto in lei e che pubblicava i suoi dischi dal 1983.
Prodotto da Rupert Hine, già al fianco di Tina Turner, l'album tenta di riportare Suzanne Vega alle sue radici di folksinger con una manciata di canzoni sobrie e riflessive: "Sono pezzi acustici con testi molto enfatici. Ricordano lo stile dei miei primi dischi, ma sono più diretti, più personali, più emotivi", ha spiegato la cantautrice di Santa Monica. Il titolo del disco fonde opposti estremi: "Il rosso simboleggia la passione, il cuore; il grigio la ragione. Il rosso richiama la giovinezza, il grigio la maturità". E le tredici tracce attraversano stati d'animo contrastanti: malinconia, speranza, angoscia, rabbia.
Si passa così dal doloroso senso di perdita di "Harbor Song" e "Widow's Walk" al j'accuse orgoglioso di "Machine Ballerina", dai cupi tormenti di "Soap And Water" e "Penitent" alla grazia innocente di "Priscilla". La conclusiva, struggente ballata di "St. Claire" è forse il momento più alto dell'intera opera. Ma l'esito è, nel complesso, piuttosto fiacco. Il songwriting di Suzanne Vega sa essere ancora raffinato ed elegante, ma è venuta meno completamente l'anima più "inquieta" della sua musica.
Il suono di Songs In Red And Gray, di conseguenza, è un pop gentile ed edulcorato, pulito e innocuo, esile e, in definitiva, sterile. Gli ammiccamenti modernisti, forniti da sintetizzatori e pulsazioni ritmiche elettroniche, incapaci di innestare emozioni, non fanno che aggiungere confusione e disorientamento.

Nel frattempo, nel 2003, esce l'antologia Retrospective: The Best of Suzanne Vega (la versione inglese include un bonus cd, quella deluxe della serie "Sound & Vision" ha un Dvd con alcuni suoi videoclip e un cd aggiuntivo con ben venti canzoni).

A sei anni dall'ultimo, deludente album in studio, Vega torna con Beauty & Crime (2007) suggellando l'avvio del nuovo sodalizio con la Blue Note Records. È "un mosaico di piccole storie su New York basate su racconti che mi sono stati fatti o su cose che ho visto o percepito", racconta la stessa cantautrice. Insomma, il suo "New York Stories" o il suo "Night And Day", volendo prendere a paragone due straordinari cantori della "newyorkesità" come Woody Allen e Joe Jackson.
Pur così distante, ormai, dai modelli di frontgirl in voga negli anni Duemila, l'antidiva americana riesce ancora a sedurre con le sue confessioni in punta di voce, come nella sinuosa bossanova di "Pornographer's Dream", che immortala una inafferrabile musa sexy ("Lei è il sogno di un pornografo, disse/ so cosa intendeva/ ma mi fece immaginare: che genere di sogno potrebbe fare, che non sia ancora stato consumato?").
Non mancano i consueti bozzetti autobiografici, sempre sentiti e sinceri, come l'intensa "Ludlow Street" (in memoria del fratello Tim, graphic designer scomparso a trentasette anni), in cui il suo pop acustico si tinge di sfumature jazzy, o ancora la dolcissima ninnananna "As You Are Now", dedicata alla figlia Ruby, e le affettuose confidenze al nuovo marito in "Bound" ("Tutte queste parole/ come tesoro/ e angelo e caro/ affollano la mia bocca/ sulla strada al tuo orecchio"). Sono piccole perle d'artigianato pop, tutt'altro che trascendentali, ma sempre dotate di quell'eleganza che non è mai venuta meno, anche nei momenti più opachi.
C'è poi l'omaggio alla Grande Mela, tratteggiato attraverso ritratti sensuali ("New York Is A Woman") o squarci di desolazione post-11 Settembre ("Angel's Doorway", che immortala un poliziotto con i vestiti avvolti in "una nuvola di polvere, sporcizia e distruzione"). Con una galleria di personaggi, reali e presenti come l'amico writer newyorkese di "Zephyr And I", oppure appartenenti a un passato mitico, come la scrittrice Edith Warton, celebrata in punta di fingerpicking su "Edith Wharton's Figurines", e come gli amanti Ava Gardner e Frank Sinatra, cui è dedicato il dialogo apocrifo di "Frank & Ava", dall'hook accattivante e dal testo irriverente ("On the way to the bidet / Is when the trouble used to start").
Tutto molto garbato ed educato, ma senza particolari sussulti. Anche il contributo potenzialmente disturbante di Lee Ranaldo (Sonic Youth) viene anestetizzato in questa elegante cornice di una New York in bianco e nero, dove il ritmo si alza di rado ("Unbound", "Zephyr And I"), ma senza mai farci sobbalzare. Suzanne Vega si conferma artista sensibile e di classe, ma senza più la grazia melodica di quando raccontava di Marlene, Luka e Liverpool, sentendosi sempre una "small blue thing".

Tra ripescaggi e letteratura

Nel 2010 la cantautrice americana rilegge acusticamente la sua carriera nella collana dei quattro Close-Up, collezioni tematiche che pescano dai suoi sette album: Love Songs (2010), People & Places (2010), States Of Being (2011) e Songs Of Family (2012).

E' il preludio al suo ottavo Tales From The Realm Of The Queen Of Pentacles (2014), primo albo in sette anni, il disco della ripartenza rimpinzato di ospiti illustri, ma appesantito da un eclettismo superficiale e narciso ("Fool's Complaint", "Jacob And The Angel", persino un grunge in "I Never Wear White" e un campionamento hip-hop in "Don't Uncorck"), che cerca più che altro consensi facili nelle nuove generazioni.I due singoli di lancio falliscono miseramente, tanto “Don’t Uncorck What You Can’t Contain” nella sua produzione mediorientale da classifica, quanto “Fool’s Complaint” nella sua esplicita consumabilità radiofonica, lontana anni luce dalla signorilità di “Luka” e “Left Of Center”.
Per quanto Vega percorra il territorio in lungo e in largo, la “Crack In The Wall” basata sul banjo rischia di suonare anonima come qualsiasi cantante pop di Nashville, “Portrait Of The Knight Of Wands” ricalca nettamente la “Hotel California” degli Eagles, e “Jacob And The Angel” è un’antipatica storiella parabiblica nella vena dell’ultima Rickie Lee Jones. Tracce di arrangiamenti simbolici e della sua migliore sensibilità narrativa emergono semmai in “Song Of The Stoic” (anche se il suo stile adulto applicato all’epoca della recessione suona davvero male), ma poi il quasi-medley gospel di “Laying On Of Hands/Stoic 2”, opera della produzione più che dell’autrice, va fuori strada. Alla fine Vega ritrova intimamente sé stessa solo nell’esecuzione sottotono e quasi chiesastica di “Silver Bridge”, segno che la cantautrice non può davvero fare altro che ripetersi.

Il debutto a teatro con "Carson McCullers Talks About Love" (2011), con cui Vega omaggia la scrittrice statunitense di cui condivide l'indole delle emozioni nascoste e amplificate nel quotidiano, si trasforma in Lover Beloved: Songs From An Evening With Carson McCullers (2016), di nuovo in collaborazione con quel Duncan Sheik che già l'aveva aiutata alla realizzazione della pièce.
Sulle prime sembra un disco retrò da pensionata annoiata, anche se è un vintage coerente con il clima musicale in cui si muoveva McCullers, dallo scat da pianobar "Carson's Blues" (che vale più per i solo di bandoneon e trombone), il cocktail-jazz cullante "New York Is My Destination" e una decente prova di metamorfismo rhythm'n'blues in "The Ballad Of Miss Amelia".
Fortunatamente ci sono anche numeri degni del suo passato migliore, in cui Vega passa dall'omaggio esteriore a un'analisi più scavata, come se indagasse il ritratto della scrittrice a mo' d'immagine a specchio della sua anima. La pianistica "Annemarie" potrebbe insegnare qualcosa alla solitudine di Cat Power, "Lover, Beloved" è un gioiellino di discrezione sensuale e "Carson's Last Supper" è una prodezza d'introspezione Lisa Germano-esca. E una "12 Mortal Men", poco più che sospirata, in realtà è un tour de force vocale difficile e persino acrobatico, dati i suoi standard tenui.

L'ultima uscita a nome Suzanne Vega è il live An Evening Of New York Songs And Stories (2020), raffinato "recital" teatrale a sfondo newyorkese, in cui si intrecciano canzoni, racconti e omaggi, come quello al maestro Lou Reed con la cover di "Walk On The Wild Side".

Suzanne Vega

Discografia

Suzanne Vega (A&M, 1985)

8,5

Solitude Standing (A&M, 1987)

7,5

Days Of Open Hand (A&M, 1990)

6,5

99.9 F°(A&M, 1992)

7

Nine Objects of Desire (A&M, 1996)

6,5

Tried And True (antologia, A&M, 1998)

Songs In Red And Gray (A&M, 2001)

5

Retrospective: The Best Of Suzanne Vega (antologia, A&M, 2003)

Beauty & Crime (Blue Note, 2007)

5,5

Close-Up Vol. 1 - Love Songs (Amanuensis Procution, 2010)

Close-Up Vol. 2 - People & Places (Cooking Vinyl, 2010)

Close-Up Vol. 3 - States Of Being (Cooking Vinyl, 2011)

Close-Up Vol. 4 - Songs Of Family (Cooking Vinyl, 2012)

Tales From The Real Of The Queen Of Pentacles (Cooking Vinyl, 2014)

4,5

Lover Beloved: Songs From An Evening With Carson McCullers(Amanuensis Productions, 2016)

6

An Evening Of New York Songs And Stories (live, Cooking Vinyl, 2020)

7

Pietra miliare
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Streaming

Left Of Center
(video, da Pretty In Pink Soundtrack, 1986)

Luka
(video, da Solitude Standing, 1987)

Book Of Dreams
(video, da Days Of Open Hand, 1990)

Blood Makes Noise
(
video, da 99.9 F°, 1992)

No Cheap Thrill
(
video, da Nine Objects Of Desire, 1996)

Book & A Cover
(video, da Tried And True: The Best Of, 1998)

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