Da sempre avvezza alla penombra delle quinte e alla ribalta sbrecciata e fumosa dei teatri off suburbani, la Faithfull si rifà viva con una replica riveduta e aggiornata dei celebri monologhi pop-rock a cui deve la sua seconda (terza?) giovinezza. A due anni dall'ottimo "Easy Come Easy Go", è ancora Hal Willner a orchestrarne la rentrée nei minimi particolari e ad assemblare il lussuoso cast di contorno, che s'addice a ogni prim'attrice: Lou Reed e Wayne Kramer (Mc5) alle chitarre, il bassista dei Meters George Porter Jr. e (in alcuni brani) il Dr. John al piano.
La novità, come si evince anche dai nomi coinvolti, risiede piuttosto nell'approccio e nei contenuti musicali e nel fatto che, accanto a un sempre cospicuo serraglio di cover estratte dalla vena aurifera dei classici minori, compaiono anche tre brani firmati Ma'am Faithfull. Se nel precedente a dominare era un'atmosfera dolorosa e decadente, la profondità chiaroscurale di un lungo flashback autobiografico, qui, salvo qualche episodio più felpato e intimista, a prevalere è un vitalismo country-blues, un suono caldo, diretto e colorato di soul, che rimanda più al meticciato rock statunitense che all'aristocrazia pop europea.
L'impressione è però che la voce consunta e senescente della Faithfull sia un po' in affanno nel rincorrere i ritmi sostenuti e gli arrangiamenti vigorosi e si perda in alcuni brani pure pregevoli come "No Reasons", l'autografa "Prussian Love", la sudista "Gee Baby" o la splendida "Back In Baby's Arms" (scritta da Allen Toussaint nel 1975), mentre sembra decisamente più a suo agio nei riverberi dell'acustica e sognante versione di "Love Song" (scritta da Lesley Duncan, più nota come corista per Elton John e i Pink Floyd), nella teatrale "The Old House", nel recital vagamente mitteleuropeo di "Past Present And Future" (costruita sul canovaccio pianistico di "Sonata Al Chiaro Di Luna" di Beethoven e portata al successo, a suo tempo, dalle Shangri-Las) o nel pop sofisticato di "Goin' Back" (Carole King per Dusty Springfield).
L'energica e orientaleggiante "Eternity", la puntatina noir dell'opener "Stations" (dei Gutter Twins, ovvero Mark Lanegan e Greg Dulli) e la pretenziosa "That's How Every Empire Falls", incorniciano un "atto unico" gradevole, manierato, nostalgico anche se, nel complesso, un gradino inferiore rispetto all'ultima prova.
21/02/2011