Fermi tutti. Perché, da qualche anno, anche
Enrico Ruggeri sembra essere stato contagiato dalla virtuosa sindrome da seconda giovinezza che ha colpito alcuni degli artisti presenti da qualche decennio sulla scena musicale. Che poi, potremmo anche discutere sul termine "giovinezza" sempre utilizzato in un'accezione positiva: specie oggi, infatti, non sarebbe del tutto così. Prendetelo allora come un espediente dialettico per non cedere alla tentazione di affermare
tout court, ascoltando dischi come questo, che "vecchio è bello".
Le motivazioni per cui, in anni recenti, ci capitano spesso tra le mani dei buoni dischi di musicisti non di primo pelo probabilmente albergano altrove: da un lato troviamo una schiera di nuove leve stritolate nei ruvidi ingranaggi dello streaming e del brano dal ritornello scemo da inserire in incipit secondo i crismi di TikTok, dall'altro autori come Enrico Ruggeri che un pubblico già ce l'hanno, e con esso la libertà di scegliere quando rilasciare un album, e soprattutto creatività e competenze a sufficienza per sapere cosa metterci dentro. In mezzo, nella terra di nessuno che ci si augura presto popolata possibilmente anche da ascoltatori, tanti giovani artisti di talento che devono schivare le saette dell'attuale mainstream, nella speranza di diventare il mainstream di un futuro prossimo migliore di questo. Insomma, "mala tempora currunt", con qualche legittima speranza per il domani.
Divagazioni a parte, se dovessimo individuare un momento cruciale nella carriera del cantautore milanese, esso andrebbe collocato in coincidenza della sorprendente
reunion dei
Decibel, lentamente maturata nella seconda metà degli anni dieci e concretizzatasi nel 2017 con "
Noblesse Oblige", un album che - nonostante qualche passaggio rivedibile - ha l'innegabile merito di innervare il suo canzoniere di una rinnovata energia. Sarebbe falso attribuire la stanchezza di qualche lavoro precedente al sodalizio lungo trentacinque anni col chitarrista Luigi Schiavone - anzi co-autore di alcune pagine epocali per la musica italiana, tra cui "Polvere" e "Il mare d'inverno", "Quello che le donne non dicono" e non solo - però è un fatto che, da otto anni a questa parte, Ruggeri sembra aver progressivamente ritrovato il bandolo di una matassa che si stava via via ingarbugliando.
Pur con un registro vocale sempre più
waitsiano, ispessito da sigarette che qualche contrattempo gli procurano
on stage, nell'album troviamo un pugno di canzoni che all'abituale maestria nella stesura dei testi associa paesaggi musicali in molti casi all'altezza del repertorio migliore. E questa, considerato il numero sterminato di brani composti in quasi mezzo secolo, non può essere considerata una circostanza da passare in secondo piano.
"La caverna di Platone" è un album fatto di spigoli e disincanto, di temi profondamente scomodi e memorie inusuali, di sguardi attenti sulla realtà che trasmutano in sbirciate romantiche verso un'altra realtà, più anelata che possibile.
Ad esempio, "Gli eroi del cinema muto" è il malinconico riflesso dell'inconscio che, come la
bowiana "Sons Of The Silent Age" (già, proprio da... "
Heroes"), ricorda quella parte di umanità avvelenata dagli effetti collaterali di un malinteso progresso e forse seppellita dai repentini mutamenti del mondo. "Il poeta" è il filo rosso che lega Oscar Wilde a Pasolini, passando attraverso Ezra Pound e a tutti quei liberi pensatori che hanno trafitto le coscienze con la penna venendo ripagati con scandalo e ludibrio.
"Zona di guerra" e "La bambina di Gorla" accendono un faro sui dimenticati di oggi e di ieri, con quest'ultima a rievocare uno dei tanti "errori" propri di ogni guerra, allorché gli Alleati nel 1944 bombardarono, sbagliando obbiettivo, la scuola elementare "Francesco Crispi" di Milano provocando una strage di bambini. Alla voce testi sconvenienti va aggiunto quello di "Das ist mir wurst", un epico e decadente 3/4 - e per questo in zona
Sparks e Decibel prima maniera, scritto a quattro mani con Silvio Capeccia - che diventa un richiamo appassionato all'Europa che fu, culla d'arte e di civiltà sideralmente lontana dall'attuale, quella cioè delle banche, delle multinazionali e dei centri di potere.
"Il cielo di Milano", col suo incedere spumeggiante, è un'istantanea nel viavai di una metropoli in cui "non si vede il sole", sempre più trafelata e distante, divisa tra miseria e bel vivere; mentre sono i temi più intimi a fare capolino nel brano omonimo (l'amore come illusione che tuttavia merita di essere vissuta) e in "Come prima più di prima", un
sequel degli sguardi che
Ruggeri ha già rivolto in passato all'universo femminile osservandolo dall'interno.
Ne "Il problema" - come "Il cielo di Milano" connotata da un ispirato
uptempo - ritroviamo il sardonico disincanto dell'Enrico degli esordi in una sorta di "'
A livella" di Totò riletta in contesti terreni ("...magari ti trovi solo con la testa tra le mani oppure assecondato da puttane e cortigiani/ magari non hai più soldi o la tua ricchezza è estrema, in ogni caso vivi il tuo problema"), ma la vera notizia è imbattersi in "Benvenuto chi passa da qui", brano interamente scritto e interpretato dal figlio Pico Rama (non si ricorda un disco di Ruggeri senza un brano inedito che non porti almeno la sua firma, eppure lui qui è "solo" la seconda voce) che sulle prime spiazza per la sua
naïveté, ma con gli ascolti diventa una piccola oasi d'innocenza in mezzo a tracce che a vario titolo indagano - tra poesia e racconto - mondi interiori, squarci di passato e realtà contingenti.
La canzone che chiude il disco è quella che probabilmente causerà dei turbamenti presso la
fanbase: "Arrivederci addio" - uno dei pezzi più belli e intensi dell'album - nella sua trama amorosa tratteggiata con l'abituale sapienza, lascia balenare il sentore che questa possa essere davvero... l'ultima canzone. Sarà davvero così? Difficile dirlo. Di sicuro, si tratterebbe di un'uscita dalla scena discografica degna di una carriera artistica importante che - questo è certo - avrà comunque un seguito sul palco, e nei mille altri progetti con cui il vulcanico
Rouge ha abituato il suo pubblico.
Post-scriptum [cit.]: l'edizione in vinile contiene 5 tracce aggiuntive rispetto a quella in cd e a quella presente sulle piattaforme digitali. Tra i "pro" si possono annoverare "La figlia perduta", bell'inedito firmato con Silvio Capeccia che non avrebbe sfigurato nella scaletta principale, e una cover di "Ha tutte le carte in regola" di
Piero Ciampi, restituita con l'intensità dovuta al "maledetto" cantautore livornese. Tra i "contro" il rifacimento di "She", lodevole tentativo di tributare due riferimenti eccellenti del nostro,
Charles Aznavour ed
Elvis Costello, che non "arriva" come nelle intenzioni, e in generale l'idea di disseminare le tracce
bonus all'interno di una scaletta che, al contrario, funziona già benissimo così. Peccati veniali, ad avercene.
02/03/2025