Enrico Ruggeri - Quello che altri cantautori non dicono - Video

intervista di Marco Bercella

Lo si dice sempre, allorché esce il nuovo album di un autore affermato, però stavolta lo è per davvero: “La caverna di Platone”, ultima fatica discografica di Enrico Ruggeri, si colloca tra gli episodi da segnare col circoletto rosso all’interno di una carriera lunga e articolata, fatta di successi ma anche di cadute, di intuizioni folgoranti e di inevitabili incertezze. Ma soprattutto, ed è ciò che resta, di un discreto numero di brani entrati dalla porta principale all’interno del canzoniere popolare italiano, e di un certo numero di dischi a confermare che questa circostanza non sia stata frutto del caso. E “La caverna di Platone” si colloca proprio tra questi, al punto che le domande per questa intervista sono uscite di getto e solo dopo qualche ascolto che, come si vede, ha colto nel segno. Ecco l’esito della nostra chiacchierata, che vede un Enrico come sempre poco incline allo “zero a zero” o a buttare la palla in tribuna. Qui sotto anche la videointervista.



Leggendo il titolo della canzone che apre l’album, “Gli eroi del cinema muto” non ho potuto fare a meno di associarlo a “Sons Of The Silent Age” e a un’altra canzone, quella omonima, dell’album “Heroes” di David Bowie. Non ti chiedo cosa abbia rappresentato Bowie per te, visto che è da sempre uno dei tuoi riferimenti, quanto un tuo parere rispetto al processo di beatificazione che è seguito alla sua morte. Ora abbiamo un numero di bowiani dell’ultima ora che magari ne conoscono due o tre canzoni. Trovi questa cosa positiva oppure è qualcosa che ti fa sorridere?Ah beh…Bowie…! Intanto sono orgoglioso per il paragone…“Heroes of the Silent Age” mi piace e mi sa che me la rivendo, però vedrai che casino si farà anche quando morirò io, spero il più tardi possibile… vedrai, vedrai (sorride). Credo che sia fisiologico assistere a questo fenomeno, che però trovo in linea di massima positivo. Diciamo però che, all’interno di questa dinamica, la parte adolescente di me ci rimane un po' male, ma in fin dei conti è quello mi è sempre successo. Mi ricordo già ai tempi del liceo, quando arrivai un giorno per primo a dire che c’era uno fortissimo, ed era Lou Reed. Dopo un po’ esce “Walk On Wild Side”, vengono riscoperti i Velvet Undergound, arriva “Vicious”, poi “Perfect Day” e alla fine tutti erano fan di Lou Reed. Ma è successo anche a me, dall'altra parte della barricata: a volte intuisco che ci sono dei miei fan che inconsciamente mi amano di più nei periodi bui, quando magari fai un concerto ma il teatro non è pieno. Mentre nei periodi di auge in qualche modo, come dire, si sentono un po' meno centrali. Perché è chiaro che quando fai un concerto con un teatro non stipato riesci a dare il meglio: vuoi premiare quelli che, nonostante tutto, sono venuti. È un fenomeno abbastanza naturale. Per quanto riguarda Bowie, beh, comunque Bowie ha sempre avuto tanti ammiratori, più di Lou Reed sicuramente: poi è chiaro che, dopo la morte, succedono esattamente le cose che succedono quando muori.

Tra l'altro ti devo raccontare anch'io una mia storia su di te. Perché nel ‘77 o ‘78, non ricordo esattamente, ti presentasti coi capelli ossigenati e i Lozza bianchi nella scuola media che frequentavo, la Tito Livio, per coprire da supplente un’ora di assenza di un mio professore. Fosti abbastanza sorpreso quando ti dissi che ti conoscevo, e questo perché i fratelli maggiori della mia mia compagnia frequentavano la tua. Quindi ero già informatissimo sul tuo conto, e ti stupisti anche un po’ nel vedere un pischello di 12 anni che provava a parlarti di Lou Reed.
Vedi, vedi? Beh, con questa storia la povera Raffaella Carrà gongolerebbe (risata). Tra l’altro sai che la Tito Livio non c’è più? L’hanno abbattuta per costruirci un casermone terrificante.

Esattamente. Vabbe’, miei aneddoti personali a parte… “Il poeta” contiene dei riferimenti a Pasolini, ma a me è venuto in mente un poeta ancora più scomodo di Pasolini…
…Ezra Pound?

…proprio lui! Un uomo dalle idee anche opinabili ma soprattutto uno dei più grandi poeti del 900. Pound come sai venne rinchiuso e fatto passare per pazzo, e solo l’interessamento di grandi intellettuali, tra cui l’antifascista Hemingway, lo fece in parte riabilitare. Allora ti chiedo: fino a che punto secondo te è scindibile l’artista dall’uomo? Perché soprattutto nella nostra epoca del politicamente corretto l’opportunismo pare essere la regola…
Mah, guarda, la storia dimostra che l'uomo e l'artista sono e devono essere scindibili, perché, sai, al di là di qualche aneddoto su Caravaggio che girava col coltello e pochi altri, non sappiamo esattamente se Dostoevskij fosse una persona migliore di Čechov. Per quanto Tolstoj, soprattutto nella seconda fase della vita, diventa super-mistico e la moglie si lamenta perché dice di vivere insieme a un matto. Più passano gli anni, più sono convinto che il tempo sia quello che rende giustizia, perché gli aneddoti tendono a essere dimenticati mentre l’opera resta… certo, se ai tempi ci fossero stati i social, magari la moglie di Tolstoj sarebbe diventata come la Ferragni? Chi lo sa. Quindi oggi è un po' più complicato, però si può. Della mia vita privata non si sa praticamente quasi nulla. Si può fare. Anzi, io sono quantomeno perplesso e a volte la mia perplessità sfiora il disprezzo per quelli che vanno in televisione a parlare dei fatti loro, perché vuol dire che hanno poco da dire sul loro operato. Non mi piace. Se tu pensi - che so - alla discrezione con cui Fabrizio De André affrontò la vicenda del suo rapimento che finì più che altro in “Hotel Supramonte”, in una canzone. Non è che andava da Mara Venier a raccontare come stava quando l'hanno rapito, capisci? Prendiamo anche la discrezione di Francesco De Gregori con la sua compagna, sia quando era viva, sia adesso che la sua Francesca non c'è più. Per questo motivo resto convinto che i migliori siano quelli che cercano di focalizzare l'interesse su quello che fanno e non su come vivono.

Alla nostra comune città dedichi una delle canzoni più ispirate del disco, “Il cielo di Milano”. Non è la prima in cui ti rivolgi alla tua città: nel 1983 cantasti una sfrontata e un po’ scorretta “Salviamo Milano”, e allora ti chiedo se alla fine Milano si sia salvata, oppure se la vedi un po’ in difficoltà…
Questo è il momento peggiore dai tempi della strage di Piazza Fontana, diciamo, e dagli anni 70 con gli autonomi che sparavano e i morti per strada. Però allora, almeno, c'era un'ideologia delirante e folle, tutto quello che vuoi, però erano crimini compiuti in nome di qualcosa...

…sai cosa, Enrico? Che a quei tempi i casini più facilmente te li dovevi andare a cercare, invece adesso te li ritrovi addosso tuo malgrado...
È proprio così, ma vedo che lo sai già.  Vedi, io sono abbastanza privilegiato, nel senso che essendo anche una persona âgé, non vado più in giro la notte per locali, per cui il massimo che posso fare è uscire a cena e tornarmene a casa. Però ho un figlio di 19 anni e mi racconta cose terribili: bande di extracomunitari tutti di seconda o terza generazione, le risse, le gang, che è un fenomeno terribile molto difficile da arginare. Però Milano resta una città accogliente, è una città razzista solo con chi ha voglia di far niente, questa è la verità. Ma se vieni a Milano e ti rimbocchi le maniche, puoi essere calabrese, congolese, sudafricano e dopo un attimo non se ne accorge più nessuno. Guarda, ti racconto una cosa: mia figlia, che adesso ha 15 anni, quando era alle elementari aveva un'amichetta del cuore e un giorno mi racconta di questa sua amica, di quello che hanno fatto insieme, dei loro reciproci gusti. Sua madre poi mi dice che questa bambina era nera… e sai questo cosa vuol dire? Che mia figlia a 8 anni aveva già gli anticorpi, non riteneva cioè il colore della pelle come un elemento rilevante da raccontare al padre, ed è una cosa che mi ha molto impressionato. Ogni tanto mio figlio, quello di 19 anni, dice: “Sì, oggi viene quel mio amico insieme al suo compagno”, ma ci nessuno ci fa caso, men che meno lui. Ma d'altra parte io sono convinto che, come dire, il male sia negli occhi di chi guarda. Io da ragazzo ascoltavo Bowie, Lou Reed, i New York Dolls, tutta gente dalla sessualità assolutamente vaga, promiscua, trasgressiva eccetera e anch’io non ci facevo assolutamente caso. Quelli che ci fanno caso sono gli altri, sono quelli che dicono: “Ah attenzione, qua ci vogliono le ‘quote’”, eccetera. Ma io ho scritto un pezzo che si chiamava “Trans” nel 1991, quando Lgbt era un codice fiscale.

Potrei dire la stessa cosa. Io frequentavo quella che per te era la “Piccola Broadway” poi ribattezzata “Taxi” qui a Milano, e sai che lì la promiscuità era di casa, eppure non mi è mai passato per la testa di scegliere le mie amicizie sulla base degli orientamenti sessuali, né loro con me suppongo.
È davvero una costruzione fatta ad arte, perché non c'è, secondo me, alcun tipo di discriminazione. La discriminazione arriva quando qualcuno vuole mettere in luce delle circostanze per potersi lamentare.

In “Zone di guerra” torni a parlare di un altro tema delicato. Tanti tuoi colleghi si riempiono la bocca sui media col pacifismo, ma poi nelle loro canzoni è più facile imbattersi in temi che nulla hanno a che vedere. Tu invece ci hai scritto una canzone, e non è nemmeno la prima, e quindi ti chiedo: in questo momento stiamo assistendo a due grandi tragedie non distanti da noi, solo che una ce la vendono come una guerra in qualche modo accettabile (a Gaza), mentre l’altra come un’aggressione a un popolo inerme (quello ucraino). Balza anche a te all’occhio questa incongruenza?
Hanno tutti paura, ecco perché certi temi non vengono toccati. Vedi, oggi il racconto è più importante della sostanza. Chi si impossessa dei canali può raccontare qualcosa che può fare anche più danni delle bombe: possono fare dei danni enormi, e comunque hanno il pallino in mano e a un certo punto si stabilisce che tutti quelli che sollevano una perplessità sono dei pericolosi eversivi. Addirittura, abbiamo la parola “divisivo” che viene usata in una accezione negativa, come se fosse obbligatorio pensarla tutti secondo un pensiero unico. Divisivo, in un paese civile dove ci si confronta, dovrebbe essere un termine per cui tu puoi essere amico di uno che la pensa diversamente da te.Io ho degli amici coi quali non ho nulla in comune, la pensiamo diversamente su tutto, però sono miei amici, e mi fa quasi più piacere parlare con chi non la pensa come me, che non essere confortato da chi ha le mie stesse idee. Invece quella parola è diventata una patente che ti viene attribuita perché non stai seguendo il pensiero che devi seguire.

Nella canzone che dà il titolo all’album, “La caverna di Platone” si parla dell’amore come di un’illusione, però prendendo come riferimento la celebre allegoria del filosofo greco: trovi che ci siano delle analogie tra l’illusione amorosa e quella per cui la realtà sia solo quella che ci appare?
Beh, in realtà Platone la declinò in maniera, come dire, più… pubblica, e meno privata. Devo dire che questa canzone è strana perché poi, se leggi il testo sì, è una canzone d'amore nella quale si dice che, comunque vada, possiamo illuderci per il tempo che ci sarà concesso. Poi però il titolo era talmente un assist da spingere in rete, e quindi l’album si chiama così. Per quanto riguarda la tua domanda, l'amore è un grande motore, ognuno lo cerca dove si ritiene più riscaldato, quindi non necessariamente quello per un uomo o una donna. Ad esempio, nel mio caso, uno dei momenti in cui io percepisco più amore è mentre sto facendo un concerto, quindi bisogna vedere. Insomma, “Ognuno ha tanta storia, tante facce nella memoria”, per dirla con Gabriella Ferri. Ognuno vive a modo suo, ma in fin dei conti tutto quello che facciamo è un misto di ricerca di consenso, affetto, amore e gratificazione.

Ne “Il problema” ho ritrovato il sardonico disincanto dell’Enrico degli esordi, una sorta di “’A livella” di Totò riletta in un contesto terreno. Non credi che, se si utilizzasse una chiave per cui non abbia senso inseguire il miraggio del benessere perfetto, vivremmo tutti un po’ meglio?
Proprio così. Anche se poi adesso c'è questa controtendenza nei social a fare il conformismo dell'anticonformismo per cui tutti dicono “Sì, ok, però piangere a Dubai è meglio che piangere in periferia, lamentarsi su una Rolls Royce è meglio che lamentarsi su una Panda. Sarà anche vero, però di fatto la ricerca della felicità prescinde del possedere dei beni materiali: non a caso gli psicanalisti non sono in Zaire, sono a New York perché lì hanno molti più problemi col loro cervello che non in posti dove i problemi sono più pratici, tipo il dover vivere con un paio di dollari al giorno. Io, ad esempio, ho avuto sia grandi rovesci che grandi fortune economiche, ma se tu guardi il diagramma della mia felicità è totalmente diverso da quello del mio conto in banca. Peraltro ai beni materiali tendi ad abituarti subito, perché se domani mi regalassero una Lamborghini mi farebbe anche piacere, ma dopo due settimane sarei già abituato e non mi farebbe più nessun effetto. Per cui la canzone racconta proprio di questo, magari sei ricchissimo oppure un diseredato, ma in ogni caso vedi il tuo problema.

“Das ist mir wurst” è musicalmente 100% Decibel, infatti porta anche la firma di Silvio Capeccia e ha un testo che contiene una presa di posizione precisa: sono le nostre radici a doverci guidare e non i modelli sociali ed economici che abbiamo importato. Pensi sia possibile cambiare questo stato di cose, questa sorta di colonizzazione?
Dipende da quello che intendiamo per colonizzazione. In un certo senso anch'io sono stato colonizzato da David Bowie, da Lou Reed, dai Roxy Music, dal prog, dagli Yes, da Emerson Lake & Palmer. Però quella che ho subito è stata - come dire - una colonizzazione pura, non di quelle scientificamente organizzate per manipolare i cervelli. E quando ero adolescente, sentivo della musica che non avrei mai più ascoltato con quell'intensità, e secondo me sentivo della musica di un livello che difficilmente si è ripetuto poi nei decenni successivi.

Attenzione a questo tipo di dichiarazioni, che poi passi per “boomer”…
Ma il mio è un altro discorso. Nel programma tv che ho curato e condotto, “Gli occhi del musicista”, ho provato ad esempio a dimostrare, secondo me con successo, che la musica italiana è viva e vegeta. Il problema non è certo la carenza di bravi artisti, i problemi sono lo streaming e il fatto che le radio si rivolgono solo in una certa direzione, e che le grandi trasmissioni televisive sono in mano a una o due strutture che mandano gli stessi 25 cantanti che si invitano tra loro.

Anche i promoter di Sanremo sono sempre gli stessi, anzi la promoter il cui artista vince a Sanremo è sempre la stessa da quattro anni…
Sì, lo abbiamo notato.  Quindi ci sono dei centri di potere che in qualche modo deviano la strada: io ho ospitato dei musicisti eccezionali, adesso vado alla rinfusa ma mi vengono in mente Erica Mou, Fulminacci, mi viene in mente Mirkoeilcane…

…il mio amico Avincola, che oltre a essere un eccellente cantautore sta anche per pubblicare un libro su Enzo Carella
Sì, bravissimo…ci sono tanti ragazzi che come lui magari sono stati a Sanremo una volta e hanno anche lasciato un segno, poi però sono usciti da quel giro di cui parlavamo prima e come conseguenza sono tornati, diciamo, in una dimensione da club, pur continuando a fare delle cose belle e interessantissime. La musica italiana continua quindi a produrre cose molto interessanti: terminato “Gli occhi del musicista”, sono a 300 mail ricevute da cantanti più o meno famosi, ma tutti non di prima fascia, e molti di loro fanno delle cose veramente belle. Il problema è ovviamente un altro, ossia che due o tre persone detengono il potere e gestiscono con molta perizia e con molta bravura - dal loro punto di vista - quei 20 o 25 artisti, che poi sono sempre quelli.

Ma ci sarà un seguito a “Gli occhi del musicista”? Siccome temo si debba abbandonare l'idea che si possa insegnare la popular music nelle scuole dell'obbligo, almeno una piccola oasi all’interno del servizio pubblico ce la possiamo meritare…
Naturalmente non dipende da me. Questa volta sono ancora più fiducioso, visto che i dati d'ascolto sono stati molto superiori alla prima edizione. Però, come puoi immaginare, questo può non bastare. Io ho una valanga di idee, tipo “Gli occhi del musicista”, oppure semplicemente avrei voglia di rendere quel programma più, come dire, abituale. Ma non posso decidere io ed è l'unica cosa su cui non ho voce in capitolo, perché i dischi ormai decido io quando farli, i libri decido quando pubblicarli, mentre per la televisione non sono io a farlo.

Tornando a “Das ist mir wurst”, a proposito di Decibel, trovo questa canzone oltremodo sparksiana: stai ancora seguendo le gesta dei fratelli Mael? Per me, a distanza di mezzo secolo, rimangono ancora un unicum straordinariamente fresco e originale.
Certo, e l’8 luglio sarò a vederli a Milano. Pensa che il germe per la riunione dei Decibel è nato in un teatro di Londra dove ho incontrato Fulvio e Silvio: eravamo tutti lì per assistere al concerto nel quale gli Sparks proponevano con l'orchestra il loro album più importante, “Kimono My House”. Lì è nato tutto: siamo stati assieme, poi siamo andati a farci la foto, come tutti i turisti, attraversando le strisce pedonali di Abbey Road. Insomma, abbiamo trascorso del tempo insieme e poi ci siamo tornati per girare un video quando abbiamo fatto il primo album post-reunion.

Nella versione in vinile, e quindi non presente sulle piattaforme digitali, ho trovato anche una tua versione della bellissima canzone di Piero Ciampi “Ha tutte le carte in regola” e con questa tua interpretazione mi è uscita una domanda che spesso mi è capitato di pormi anche con testi che scrivi di tuo pugno: ti riconosci in questa figura dell'artista solo, disincantato e incompreso, oppure è una figura romantica che senti il bisogno in qualche modo di fare tua?
Beh, Ciampi ha scritto delle grandi poesie con dei musicisti che le hanno trasformate in grandi canzoni. Lui è, era, un disadattato, un alcolizzato, una persona probabilmente anche insopportabile, però aveva una tale poesia e una tale intensità, una tale disperazione che lo hanno reso uno dei punti fermi. Io ricordo sempre un episodio: lui era molto amico di un calciatore irregolare che si chiamava Ezio Vendrame che giocava nel Lanerossi Vicenza, uno che giocava coi calzettoni abbassati, i capelli lunghi e la barba. Un giorno Ciampi va allo stadio a vedere il suo amico... ebbene, Vendrame mentre sta giocando se ne accorge, prende il pallone tra le mani e non lo molla, va verso la tribuna e dice: “Adesso voi applaudite questo genio e solo dopo noi ricominciamo la partita”. Comunque, visto che hai parlato della versione in vinile dell’album, lì oltre a questa canzone ce ne sono altre quattro che non sono presenti sulle piattaforme musicali.

“Benvenuto chi passa da qui” è una canzone scritta da tuo figlio Pico Rama. Ora, correggimi se sbaglio, ma a mia memoria non ricordo in uno dei tuoi album un brano inedito firmato da qualcuno che non comprenda anche Enrico Ruggeri, men che meno un cantante a cui cedi il microfono mettendoti un po’ dietro le quinte. Lo dobbiamo leggere come un atto d’amore incondizionato, oppure un primo incontro - magari con un seguito - su un terreno comune che, artisticamente parlando, fino a oggi era lontano anni luce dal tuo?
Vero, non è mai successo prima. Però non si tratta di un atto d’amore, è una sua canzone e, come ho già detto più volte, Pico non ha voglia di confrontarsi col mercato, non gli interessa fare la promozione. Vive in campagna, è un hippie scaraventato nel 2025 e io questa canzone l’ho sentita per caso, perché lui manco me le fa sentire le sue cose. Però l'aveva registrata, ed è stato Sergio Bianchi a farmela ascoltare. Sergio è il produttore, fonico e ingegnere del suono del mio album, e stava lavorando su dei pezzi con Pico, ed è lui che mi ha detto: “Guarda, questa la devi proprio sentire”. Siccome “La caverna di Platone” è un album pieno di significati, anche con pezzi crudi, duri, e dove si sorride poco, “Benvenuto chi passa da qui”, con il suo testo che parla di conciliazione, era la canzone perfetta per alleggerire, per portare un sorriso in un album dove non ce ne sono tanti di sorrisi.

Vorrei allora soffermarmi più in generale sul rapporto padre-figlio, perché anch’io ho un figlio adulto, e allora non so se anche a te è capitata la stessa cosa: quando lui era piccolo, avevo un sacco di aspettative, però arriva fatalmente il momento in cui ti rendi conto che poco o niente di tutto ciò che ti eri messo in testa e nel cuore si verifica, e ti ritrovi di fronte a una persona che è, giustamente, altro da te e ci devi fare i conti.
È un percorso naturale. Jodorowsky lo definiva l'assassinio del padre, che è una parte della crescita. Pico mi ha assassinato in una maniera che mi ha anche stupito, perché non è assolutamente legato a nulla di pratico per fortuna: lui vive veramente con dieci euro al giorno in campagna, è totalmente autonomo ed è una persona completamente diversa da me. Questo ovviamente mi ha stupito, ma devo dire che lo ammiro per questo suo rifiuto sdegnoso di tutto quello che rappresenta la civiltà dei consumi.

Forse allora questo essere fuori dagli schemi un po’ lo avrà preso da te.
Sì, beh, lui è veramente molto più estremo, perché poi io i dischi li faccio, li pubblico, faccio l'intervista e vado in televisione. Cerco, come dire, di mantenere autonomia e dignità. Però faccio anche quadrare bilanci, perché poi quando vuoi tenerti il tuo studio, puoi tenerti i tuoi musicisti, puoi fare i dischi con la tua etichetta, poi hai bisogno di far tornare i conti. Ecco, lui non ha nessuno di questi problemi.

Certo, c’è una parte imprenditoriale che è molto importante in tutti i lavori incluso il tuo, anzi soprattutto nel tuo, perché evidentemente non si vive soltanto di composizioni musicali, ma anche della possibilità di farle conoscere a più persone possibili.
Il denaro è libertà e va usato bene. Io l'altro giorno ho fatto un post sui social nel quale ricordavo che quando io vinsi Sanremo con “Si può dare di più”, mi piovevano i soldi addosso e mi sarei potuto permettere altro che una Lamborghini o una Ferrari. Invece con quei soldi decisi di fare una tournée con 42 elementi d'orchestra, gli Champagne Molotov sul palco, i tecnici e tutto il resto, e fui il primo in Italia a fare una cosa simile. Insomma, 70 persone che andavano in giro per l’Italia e se tutti i teatri fossero stati pieni come per fortuna è successo, noi saremmo andati al massimo in pari. Il mio ragionamento era: se mi compro una Ferrari avrò più o meno piacere rispetto a fare 40 e più concerti con un'orchestra? Quale dei due piaceri sarà superiore? La mia risposta è stata: mi diverto molto di più con un'orchestra che non a pavoneggiarmi in giro per Milano con una Testarossa. È stato un capitolo importante, diciamo, della costruzione del palazzo.

...eppure sono abbastanza sicuro che chi è arrivato secondo quest’anno a Sanremo non avrà bisogno del tuo consiglio. Perché Lucio Corsi sembra essere uno di quei ragazzi, di quegli artisti, che si è posizionato nella giusta prospettiva. Lo seguo sin dagli esordi e, quando ho visto l’accoglienza sanremese, sulla mia pagina di Facebook mi sono autocelebrato con una previsione del 2021, quando scrissi: “Quello in foto è il miglior cantautore della sua generazione, adesso non lo sapete ma fra un po’ ve ne accorgerete tutti”. Ammetto di essere stato molto fortunato, perché le variabili sono davvero tante e il talento è solo una di queste, ma penso davvero che lui sia sulla strada giusta…
Sì sì, le premesse ci sono tutte e sono ottime… anche il fatto che ora faccia un tour nei club depone a suo favore, non fa voli pindarici. Lui è uno dei nostri, e infatti lo avevo invitato a “Gli occhi del musicista”: mi dissero che non poteva senza però comunicarmi il motivo, ma evidentemente era già in odore di Sanremo perché, come sai, se vai al Festival c’è un embargo preventivo di un mese in cui non puoi apparire in tv.

Sei consapevole del fatto che una canzone come “Arrivederci addio” - anche perché trovo che sia assai riuscita dal punto di vista compositivo e non solo nel testo - procurerà irreparabili struggimenti tra la tua folta platea di ruggeriani, ma soprattutto di ruggeriane? C’è una verità, ahimè, universale di cui tutti dobbiamo prendere atto che è quella dell’addio… ma non dirmi che questa sarà davvero la tua ultima canzone…
Mah… non lo so. Dunque, io sono convinto di aver fatto le cose migliori della mia vita dal 2017 in avanti, soprattutto dal punto di vista della musica, degli arrangiamenti. L'album “Noblesse Oblige” coi Decibel mi ha aperto un mondo, perché sono andato in studio con dei ragazzi, dei signori, che non mettevano piede in uno studio di registrazione da almeno 35 anni, e da quel momento ho smesso di passare i pomeriggi ad ascoltare i plug in. I plug in, per chi non lo sapesse, sono quella cosa per cui accendi su un pc tutti i suoni di tastiera: “interstellar due”, “space quattro” eccetera, e poi passi i pomeriggi a sceglierli. Invece con Silvio Capeccia ci si trovava e si iniziava a dire: “Qua ci mettiamo l’Hammond o il Mellotron, o magari un Mini Moog o un piano Wurlitzer”. Per fortuna Silvio aveva tutte queste tastiere e da lì è ripartito tutto. Una mia collaboratrice mi ha detto: “È la prima volta che ti vedo entrare in studio sorridendo”. Da qui è partita una festa che è sfociata in due album dei Decibel, poi un album dal vivo, poi “Alma” e infine “La rivoluzione”. Quando è uscito “La rivoluzione”, già pensavo che quello fosse il mio ultimo disco, perché una roba così non mi sarebbe riuscita più. Invece ci ho messo tre anni, ho buttato via decine di canzoni, le ho rifatte, le ho risuonate ed è uscito “La caverna di Platone”. Quindi intanto per la prima volta mi chiedo se mi potrà ancora uscire un album di questo livello, almeno per me. Secondo, lavorare tre anni per un pezzo di plastica che finisce negli scaffali dei collezionisti, degli amici sta diventando un po' fine a sé stesso: non voglio essere l'eroe del cinema muto, quindi la mia perplessità - al di là del fatto che bisogna riuscire a fare un album come “La caverna di Platone” e non so se sarò in grado - al di là di questo, è l’oggetto che sta diventando un po’ “il cinema muto”. Ultima cosa: io con 40 album potrei fare concerti per ancora cent'anni cambiando la scaletta a ogni tournée, quindi davvero non lo so. Se la domanda è: “Hai intenzione di smettere?”. La risposta è no, di fare concerti no di certo. Per quanto riguarda andare in studio altri tre anni a fare un disco, non lo so.

Quindi di sicuro ti vedremo presto ancora dal vivo…
Certo, suoneremo per promuovere il nuovo album a partire dalla prossima primavera: iniziamo il 1° aprile proprio da Milano, ai Magazzini Generali, e il 3 aprile al Largo Venue di Roma, a cui seguiranno altre date.

Questa avrebbe dovuto essere l’ultima domanda, ma mentre parlavi me n’è venuta un’altra, che è anche un po’ una critica che vorrei muovere, se posso, alla tua carriera. Anche tu sei un ascoltatore e un appassionato di musica e non so se ti sia capitato di pensare “Caspita - ad esempio - gli Emerson Lake & Palmer perché sono usciti con questo disco? Avrebbero potuto prendere due canzoni da questo, tre dall’altro e quattro da quell’altro ancora e avrebbero fatto un capolavoro”.
Beh, hai ragione. Guarda ti faccio subito un esempio, “Pezzi di vita” nel 2015 e “Un viaggio incredibile” nel 2016: insieme avrebbero potuto fare un buon album. Erano dei dischi fatti un po' con il pilota automatico su una formula che funzionava, o almeno che produceva apparenti benefici sulla canzone. Quindi sono assolutamente d'accordo: a volte mi sono fatto fregare dall'entusiasmo, e a volte l'entusiasmo diventa poca autocritica e impazienza, che sono qualità che si imparano proprio quando sei abbastanza vecchio. Quindi questa volta dico, scherzando ma neanche troppo, che “La caverna di Platone” è il best dei tre album che non ho fatto nel 2023, 2024 e 2025: in altri tempi avrei fatto tre album, questa volta ho fatto il best di tre album che non sono mai usciti.

(2 marzo 2025)

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Il falco e il gabbiano


A voler essere esaustivi, per intervistare Enrico Ruggeri occorrerebbe una giornata intera. Trent'anni di carriera, ventidue dischi esclusi i live e le raccolte, e in mezzo l'attività di scrittore, di autore, di calciatore della Nazionale Cantanti, di conduttore televisivo, di globetrotter per migliaia di concerti live. E con la dote di un'invidiabile nicchia di pubblico attento e fedele come pochi altri. Tutto questo senza considerare le grandi passioni sportive (l'Inter in primis), e l'insieme di un universo artistico che ha mutato più volte direzione pur restando sempre fedele a sé stesso.
Enrico Ruggeri personaggio, oltre che artista, con cui si può indifferentemente parlare di letteratura russa, di attualità, di calcio, senza avere mai il timore di ricevere osservazioni scontate, o un rifugio per il luogo comune. Un musicista che ha messo in pubblico l'intimo e il profano con uguale slancio, superando il naturale pudore pur di obbedire a un insopprimibile istinto comunicativo. Con quella voglia di esserci e di esporsi che può dividere, che talvolta lascia perplessi, ma che mai abbandona il campo all'indifferenza.
Nei venti minuti della cordiale chiacchierata, abbiamo circoscritto gli argomenti soprattutto ai movimentati esordi e ai più recenti progetti. Senza declinare alla tentazione di un fugace excursus sportivo...

Enrico Ruggeri è da molto tempo un autore affermato, e ora anche un presentatore di successo. Però vorrei parlare del lato forse meno noto della tua carriera, quello che si riferisce agli inizi, agli anni 70. Ci racconti dei tuoi esordi, prima, durante e subito dopo i Decibel, intendo...
Furono anni eccezionali, formidabili, perché stava nascendo quello che fu l'ultimo grande movimento di base, che era il punk, e io mi trovai fortunatamente ad avere diciotto anni nel momento in cui in Inghilterra e in America stava esplodendo tutto. Rimasi letteralmente folgorato da quella musica, anche perché i musicisti che mi piacevano prima di quel ciclone furono anche i padri del movimento. Quindi David Bowie, Lou Reed, New York Dolls, Mott The Hoople, Roxy Music: tutti nomi che il punk lo avevano ispirato dall'alto. Questo si rivelò un grande vantaggio nel momento in cui cominciai a scrivere le mie canzoni.
Fosti talmente dentro al fenomeno che, con i Decibel, apristi i concerti per Adam And The Ants e per gli Xtc…
E anche degli Heartbreakers, il gruppo nato da una costola dei New York Dolls. Beh sì, quella fu un'altra esperienza fantastica, poter condividere il palco con musicisti di cui leggevo le gesta sulle pagine di Ciao 2001, che era un po' la bibbia per chi amava la musica rock. Si vedeva già che gli Xtc avevano un altro passo, difatti sono poi sopravvissuti al punk. Una cosa notevole di questo movimento fu che generò degli artisti capaci di sviluppare in seguito una loro specifica curiosità. Non solo Patridge e soci, ma anche Elvis Costello, Joe Jackson, gli Stranglers, gli Ultravox (che poi diventarono più elettronici), gli stessi Clash.
Quindi, ecco, quando suonai accanto agli Xtc mi resi subito conto che il punk avrebbe preso delle strade diverse per espandersi secondo le caratteristiche personali di ogni singolo artista…

Ascolti ancora gruppi come Sparks, Stranglers, Ultravox? 
In linea di massima sì, in particolare gli Stranglers, che è forse l'unico gruppo di cui compro i dischi ancora oggi.
Fra l'altro hanno suonato lo scorso anno a Milano…
Già, ma torneranno all'inizio del prossimo anno, e io vedrò di esserci.

Enrico Ruggeri con i DecibelChe aria si respirava nella Milano politicizzata di allora, e come ti ci trovavi tu, che non hai mai fatto dell'ideologia un tuo vessillo?
Si respirava un'aria molto pesante in realtà. I punk erano visti con sospetto, perché si vestivano di nero e perché portavano i capelli corti. Inoltre c'era un fenomeno alquanto diffuso che oggi sembra dimenticato, ovvero che i vari David Bowie, Lou Reed, e più in generale tutti quei musicisti che giocavano sul dandismo e sull'ambiguità sessuale, erano odiati dalla sinistra. Ricordo, ad esempio, che rischiai le botte perché fui trovato in possesso di un disco di David Bowie: la sinistra militante e stalinista era sessuofoba e omofoba molto più di quanto non lo fu la destra negli anni successivi. Insomma, l'atmosfera era pessima, anche se chi faceva musica in qualche modo si salvava, perché aveva qualcosa d'autentico in cui credere.
In quegli anni il rock undergorund milanese era popolato da artisti quali Faust'O, Maurizio Arcieri, Alberto Camerini, Garbo, Ivan Cattaneo. In che rapporti eri con loro e che opinione ne hai adesso?
Faust'O, fra gli artisti italiani che hanno inciso dischi negli ultimi quarant'anni, è il più grande rammarico, giacché aveva davvero tutto per diventare un numero uno.
E comunque sono tutti musicisti che ho rincontrato nel tempo, tutte persone per le quali la follia è stata superiore alla voglia di programmarsi. L'artista deve certamente possedere una dose di follia, però deve anche avere una certa capacità di programmazione della propria vita. E loro, chi più chi meno, non ebbero questa caratteristica, però fu davvero una bellissima generazione. Faust'O era un po' più dandy elettronico di me, io ero più da strada, Camerini era più incline al rock' n' roll: c'era insomma un quadro molto variegato e interessante.

Vorrei soffermarmi sui testi, per rimarcare delle differenze. Agli inizi, scrivevi delle liriche che sono state per un po' di tempo il tuo marchio di fabbrica, con i loro connotati disturbati e trasgressivi per i canoni dell'epoca. Di che cosa erano figlie, e come le giudichi ora?
Quei testi mi piacciono tuttora, anche se io sono molto cambiato. E' logico che a vent'anni la pensi in maniera diversa che non a cinquanta: va da sé che la scrittura risenta di questa diversa prospettiva. Sarebbe tremendo il contrario: io detesto quelli che a cinquant'anni scrivono ancora testi da ragazzi. A vent'anni avevo un po' di male di vivere, un po' di voglia di colpire, quel pizzico d'arroganza e la poesia che deriva magari dall'aver letto qualche Rimbaud o qualche Bukowsky di troppo. E anche una serie di conflitti non risolti: è evidente, ad esempio, che le mie liriche di allora testimoniavano di una gran fatica a conciliarmi con l'universo femminile. Sono, in definitiva, lo specchio piuttosto fedele di quello che ero, ma anche delle mie letture, che a vent'anni erano diverse da quelle dei quarant'anni.
Con queste riflessioni hai in parte anticipato un'altra domanda riguardo ai testi. Ho rilevato una sorta di percorso inverso nella tua scrittura: agli inizi di carriera i temi ricorrenti erano il passato, il ricordo, la memoria, mentre negli anni recenti sei arrivato a parlare d'attualità, di temi sociali (la guerra, la pena di morte). Ce ne spieghi i motivi?
Perché questi sono tempi in cui mi fa piacere dire la mia. E poi oggi guardare un telegiornale mi suscita delle emozioni forti simili (per quanto di natura diversa) a quelle che vivo nelle mie vicende personali. Esattamente come quando t'innamori, o più in generale come quando affronti delle situazioni che hanno a che vedere con la sfera privata.

Ai tempi di "Polvere" la rivista musicale Tuttifrutti ti definì un aristocratico del dissenso. Ti riconosci in questa definizione?
Non mi ricordavo più di questa cosa, ma mi ci riconosco moltissimo: è una definizione che mi piace parecchio e in cui mi ritrovo.

Come hai vissuto il tuo passaggio dal rock underground al cantautorato colto? Te lo chiedo soprattutto perché nel corso della tua carriera sei passato più volte sul luogo del delitto, sia pur attraverso strade diverse...
E' stato un processo naturale. Miglioravo come musicista e di conseguenza mi si aprivano nuovi orizzonti. Magari ascoltavo una volta in meno i Clash per fare spazio ad Aznavour e così, man mano che le vedute si ampliavano, mi accorgevo che la musica aveva per me possibilità infinite. A questo occorre aggiungere il mio amore per i testi e il rispetto per la lingua italiana, che ha giocato un ruolo decisivo. Era troppa la voglia di non buttare via nessuna occasione per scrivere un bel testo, e questo giocoforza mi ha avvicinato a tipi di musica che fossero più funzionali a ciò che volevo esprimere. E' chiaro che "Il portiere di notte" non avrebbe mai potuto avere una base heavy-metal, non avrebbe avuto la stessa incisività...
...e soprattutto Mina non l'avrebbe inserita nel suo repertorio… 
Direi decisamente di no, infatti.

Quello che solo gli aficionados sanno, è che c'è anche il tuo zampino su brani culto dell'italo-disco anni 80. Mi riferisco a "Tenax" e "Le Louvre" di Diana Est e a "To Meet Me" di Den Harrow. In una fase di riscoperta del genere a livello planetario (c'è un sacco di gente, specie  in America, che impazzisce per queste cose), vorrei che mi raccontassi qualche aneddoto su come sono nate quelle collaborazioni...
Tutto nacque dall'esigenza di sbarcare il lunario facendo cose divertenti. Inoltre c'era la voglia di lasciare una piccola firma su tutto ciò. La nostra firma era di creare personaggi che avessero un nome straniero che avesse assonanza con una parola italiana. Nacquero così Jock Hattle (giocattolo), Den Harrow (denaro), Joe Yellow (gioiello), Albert One, per arrivare all'episodio "Tenax" che fu obiettivamente più valido anche artisticamente: questa comincia a essere una canzone non contestualizzabile. Direi bella, o carina, in assoluto. L'altro comune denominatore fu che si andava in sala d'incisione e lì prendeva forma tutto tranne l'identità del cantante. Il cantante arrivava per ultimo, si decideva dopo, e questo è il tipico spaccato della dance italiana anni 80.

Enrico Ruggeri (nello studio-tv di Leggendo un articolo-intervista apparso tempo fa sul Corriere della Sera, che prendeva spunto dalla canzone del tuo nuovo album intitolata "Il giorno del black-out", viene fuori l'immagine di un Ruggeri ostile a internet e alla tecnologia. Vuoi spiegarmi meglio la tua posizione al riguardo?
Mi rendo conto che leggendo quell'articolo si coglie quel senso, però io non voglio assolutamente tornare alle carrozze coi cavalli. E lungi da me anche voler rimettere, come si suol dire, il dentifricio dentro al tubetto...
…anche perché sembra più una canzone sull'incomunicabilità e sull'alienazione che ha preso come pretesto internet...
Dici bene. Con quel brano io volevo solo mettere in guardia dalle storture del sistema telematico. La stortura più evidente è che uno magari trascorre la notte a chattare con un ucraino, e poi non sa neppure chi sia il suo vicino di casa. Il pericolo è di perdere un po' di contatto e di dimensione umana. In fondo anche fare due chiacchiere sul pianerottolo con quello del piano di sopra può essere una cosa piacevole. Una volta si faceva, adesso molto meno.

Fra le decine di canzoni che hai scritto, ce ne sono alcune che raccontano storie sportive, mi vengono in mente "Il fantasista", "La donna del campione" e la toccante "Gimondi e il Cannibale". Pensi che lo sport sia una metafora di vita?
Lo sport è una metafora fantastica. Il pugilato, il ciclismo ci hanno regalato delle storie meravigliose da raccontare, tanto che potrei scriverne per dieci album. Devo dire però che sarebbero dieci album di storie di sportivi d'altri tempi: è assai più affascinante cantare di Nuvolari che non di Räikkönen, evidentemente.
…Così com'è più suggestivo leggere gli articoli di Gianni Brera piuttosto che quelli seriali in cui spesso ci s'imbatte oggi… 
Beh probabilmente l'invasione massiccia della televisione, per molti versi assai piacevole (grazie alla quale ogni giorno ci si può vedere tre partite importanti tra Serie A, Premier League, Champions League eccetera), ha tolto il gusto per la narrazione e anche una certa poesia che le era propria. Pensa anche al ciclismo. Quando si sentiva Orio Vergani alla radio che scandiva: "C'è un uomo solo al comando della corsa, la sua maglia è azzurra, il suo nome è Fausto Coppi", ciò valeva più di diciotto telecamere mobili. Dopodiché è evidente che rivedere oggi una partita degli anni Sessanta a due telecamere fisse è per lo più un obbrobrio, però indubbiamente il modo di raccontarla restituiva un'enfasi particolare.

Adesso di cosa ti stai occupando, stai facendo ancora tv e poi che altro?
Mi sto occupando, come il solito, di molte cose. A ottobre ho suonato il cinquantesimo concerto della mia tournée... estiva: per farlo ho prolungato appositamente la stagione calda fino all'autunno inoltrato. Inoltre sto lavorando in studio a una colonna sonora di un film ("East West East", del regista albanese Gjergj Xhuvani, ndr) e poi sì, sto conducendo questa nuova trasmissione, "Quello che le donne non dicono" che, come "Il bivio", è di concezione italiana. Quindi niente format
L'Enrico presentatore televisivo sta funzionando…
Sì, chiacchierare in tv è molto piacevole, soprattutto se lo si fa in seconda serata e quindi senza ballerine, natiche, e cose simili… 

…Però, adesso che il peggio è passato, potresti scrivere una canzone sulle sofferenze che abbiamo passato noi interisti nei vent'anni prima delle recenti vittorie…
Più che altro dovrei scrivere una canzone sull'arte del club di rovinarsi anche le feste. Questa nostra capacità è proverbiale: si vincono due scudetti (in realtà sono tre, ma diciamo pure solo due), e invece di festeggiare si litiga con l'allenatore e lo si manda via. Tutto questo è abbastanza curioso…
...più unico che curioso, direi…
Certo, se pensi che altre squadre che non vincono nulla confermano gli allenatori, dicendo di avere in panchina dei santoni padri del bel gioco. Noi invece mandiamo via Mancini…
Sei dunque un manciniano convinto?
Non sono un manciniano, sono per la continuità. Mi piace sapere che il Manchester United, che ha vinto e che ha perso come molti grandi club nel corso del tempo, ha lo stesso allenatore da diciotto anni. Mentre noi, al contrario, riusciamo nell'impresa di farci esplodere la bottiglia di champagne fra le mani…
C'è una sorta di masochismo in tutto ciò…
Già. E noi in questo campo siamo bravissimi.

(Giugno 2008)

 



Discografia

DECIBEL
Decibel (Spaghetti, 1978)7,5
Vivo da re (Spaghetti, 1980)8
Novecento (Spaghetti, 1982) senza Enrico Ruggeri6,5
Noblesse oblige (2017)6,5
L'Anticristo (2018) 7
ENRICO RUGGERI
Champagne Molotov (Cgd, 1981) 7,5
Polvere (Cgd, 1983)8
Presente (Cgd, 1984)6,5
Tutto scorre (Cgd, 1985)8,5
Difesa Francese (Cgd, 1986)7
Enrico VIII (in cd: "Enrico VIII e Difesa francese", Cgd, 1986)8,5
Vai Rrouge! (live, Cgd, 1987)7,5
La parola ai testimoni (Cgd, 1988)7,5
Contatti (Cgd, 1989)6
Il falco e il gabbiano (Cgd, 1990)8
Peter Pan (Cgd, 1991)8
La giostra della memoria (antologia con inediti, Cgd, 1993)7
Oggetti smarriti (Cgd East West, 1994)7
Fango e stelle (Cgd East West, 1996)7
Domani è un altro giorno (PDU, 1997)6
L'isola dei tesori (PDU, 1999)7
L'uomo che vola (Columbia, 2000)7
La vie en rouge (doppio cd, live, Columbia, 2001)6,5
Gli occhi del musicista (Anyway/Sony Music, 2003)5
Punk prima di te (Anyway/Sony Music, 2004)5,5
Amore e guerra (Anyway/Sony Music, 2005)6
Cuore, muscoli e cervello (triplo cd, antologia, Anyway, 2006)
Il regalo di Natale (con Andrea Mirò, Anyway, 2007)5
Rock Show (Anyway, 2008)6,5
All in - L'ultima follia di Enrico Ruggeri (Anyway, 2009)
La ruota (Universal, 2010)7,5
Le canzoni ai testimoni (Universal, 2012) 5,5
Frankenstein (Anyway/Universal, 2013)6,5
Frankenstein 2.0 (Anyway/Universal, 2014) 7,5
Pezzi di vita (Sony Music, 2015)5,5
Un viaggio incredibile (Sony Music, 2016) 5,5
Alma (Anyway, 2019)7
La rivoluzione (Anyway/Sony Music, 2022) 6,5
La caverna di Platone (Anyway/Sony Music, 2025)8
Pietra miliare
Consigliato da OR

Streaming

Decibel - Contessa
(Festival di Sanremo 1980)

Diana Est - Le Louvre
(Festivalbar, 1983)

Polvere
(esibizione a "Incontri d'estate", da Polvere, 1983)

Nuovo Swing
(esibizione a "Popcorn", 1984)

Rien Ne Va Plus
(esibizione al "Festival di Primavera", 1986)

Portiere di notte
(live, 2007)

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