Apparsi sulle scene in coincidenza della primissima ondata punk del 1976, gli Stranglers ne cavalcano da subito l'onda, distinguendosi, però, per capacità tecniche fuori dal comune, dalle centinaia di band che in quello stesso anno pullulano dagli scantinati di ogni città inglese. Assieme ai Damned, agli Ultravox e ai Clash, sono fra i primi gruppi punk britannici a ottenere un contratto discografico e a scalare le classifiche mainstream del loro paese.
La line-up è particolare per una punk-band: alla voce (e chitarra) di Hugh Cornwell, il cui timbro cavernoso e insieme beffardo sarà un punto di riferimento per tante future gothic band, al corposo basso di Jean Jacques Burnel e al piglio nerboruto del sinistro batterista Jet Black, va ad aggiungersi il virtuoso Hammond (e synth) di Dave Greenfield, parente prossimo di quella "old school" che proprio in quegli anni mostrava i segnali eclatanti di una crisi già latente. Greenfield, comunque, non avrebbe certo sfigurato nemmeno alle prese con i funambolismi propri dei precedenti movimenti rock, fossero stati psichedelici o progressivi.
Ciò che al contrario accomuna gli strangolatori ai cliché del nuovo movimento, sono la forte vena dissacratoria e una composizione molto scarna e aggressiva, per quanto resa paradossalmente quasi barocca dalla presenza delle tastiere, le cui micro-divagazioni, unite a quelle della sezione ritmica, assumono spesso un sapore psichedelico.
Il primo album IV/Rattus Norvegicus, che già dal titolo richiama prosaicamente il "topo di fogna", ha la sin troppo scoperta volontà di rivalutare tutto quanto il "sentire comune" normalmente disprezza: ed è con questo approccio che vengono sciorinati brani sfacciati quali "Peaches", "Get A Grip (on Yourself)" e "Hanging Around", che entreranno a buon diritto fra quelli memorabili del punk "colto".
Per modo di porsi, ma soprattutto per via di testi piuttosto espliciti, il gruppo è spesso accusato di misoginia (celebre la già citata "Peaches", che recitava "walking on the beaches looking at the... peaches!"), e il look darkeggiante, alquanto inusuale nel 1977, li ha fatti tacciare di "fascismo", vuoi per i riferimenti alla mitologia nordica che hanno avuto il loro apice con The Raven, del 1979, vuoi per l'oscuro esoterismo che li ha portati a teorizzare l'esistenza di particolari extraterrestri, i "meninblack", creature che assumendo sembianze umane ci vivono accanto a nostra insaputa, decidendo le sorti del mondo. Se a tutto questo aggiungiamo la ritrosìa a smentire qualsivoglia voce sul loro conto, siano esse relative alle loro tendenze politiche o al sarcastico atteggiamento di disprezzo nei confronti delle donne, e i problemi con la legge che i quattro pare abbiano avuto (chi più, chi meno), possiamo avere un'idea del fascino controverso che esercitavano gli Stranglers in un periodo di tumultuoso fermento sociale e artistico.
Il 1977 è anche l'anno del secondo album, il dirompente No More Heroes la cui title track può tranquillamente inserirsi fra i manifesti di un'epoca che vede abbattersi la furia iconoclasta del punk su tutto quanto era stato oggetto di culto nel rock fino a quel momento ("No-more-heores-anymore!"). "No More Heores" non è che la logica prosecuzione, sui medesimi toni ma anche su livelli speculari, dei temi presenti nel fortunato disco d'esordio; tuttavia, come recita una delle sue canzoni più riuscite, e come vedremo poi, ...something better change!
Il successivo concept Black And White (1978) è la summa della prima parte di carriera e suggella una vena creativa che pare davvero inesauribile, spostando tuttavia le attenzioni, sia pur in modo ancora sotterraneo, verso quell'elettronica tedesca che tanta influenza ha avuto sulla nascente new wave: ma siamo ancora in una fase embrionale, tanto che la composizione è orientata verso un rock dai tratti sprezzanti, che assume persino venature di reggae bianco, come nel caso della bellissima quanto aggressiva "Nice 'N' Sleazy". La trilogia punk è celebrata nell'album dal vivo Live (X Cert) che, fra un insulto e l'altro di Cornwell al pubblico presente, mette in luce, se mai ce ne fosse il bisogno, la grande disinvoltura e la padronanza tecnica dei quattro "on stage".
Proprio quando gran parte delle meteore punk si dissolvono per dare spazio al neonato movimento new wave, inizia la seconda fase della loro parabola artistica, quella cioè che li porterà a flirtare prima con l'elettronica e successivamente con il pop, e che permetterà loro di muoversi con grande padronanza anche fra le coordinate musicali delle nuove wave-band.
Nel 1979 esce The Raven, album accolto in maniera piuttosto fredda dalla critica, che non comprende l'avvicinamento alle suggestioni robotiche mitteleuropee di quello che è stato sino ad allora, in fin dei conti, del puro rock and roll.
Questa fase rappresenta il punto più alto della loro carriera: il disco si apre con il sontuoso fraseggio di tastiere di "Longships", passa attraverso l'ossessivo giro di basso di "Dead Loss Angeles", concede qualcosa alle classifiche con "Nuclear Device" e con "Duchess" (nella quale un incredibile Greenfield sciorina un giro di tastiera a dir poco straordinario), per arrivare alle ritmiche robotiche e/o pseudo demenziali di "Shah Shah A Go Go", di" Don't Bring Harry" e soprattutto della lugubre marcia aliena "Meninblack", nella quale canta, con ogni probabilità, uno di quegli extraterrestri spesso citati nel corso delle loro strampalate e semiserie interviste. Con The Raven, gli Stranglers si consacrano, dopo esserlo stato per il movimento punk, come una band di punta anche della new wave.
Sull'onda tracciata dalla nuova rotta intrapresa, i quattro si mettono al lavoro per far uscire l'ancor più elettronico The Meninblack, un altro concept, dopo Black And White, che esce all'inizio del 1981 (alcuni lo accreditano come edito nel 1980). Già dal titolo, che riprende quello di un brano di The Raven, si evince che esso è la prosecuzione concettuale del predecessore, in cui viene approfondita la tematica degli uomini in nero, focalizzata in un mood ancora più impersonale e sinistro, per quanto un po' meno ispirato. I riferimenti si trovano nel rabbrividente valzer che apre l'album, "Waltzinblack", puntellato da risolini tanto indefiniti quanto agghiaccianti, nella kraftwerkiana "Waiting For The Meninblack", nonché nel tributo all'uomo-macchina intitolato, manco a dirlo, "Manna Machine".
Con la ferrea volontà di non fermarsi mai, sempre diversi ma fedeli al loro marchio di fabbrica, sul finire del 1981 Cornwell & C. danno alle stampe un vinile che segna una nuova virata, questa volta verso il pop, spiazzando così anche il pubblico di (ormai) fedelissimi neopunkster elettronici. La Folie è il disco di "Golden Brown", un gemma pop che si snoda su un'armonia di synth suonato a mò di spinetta e sulla voce trasognata di Cornwell, che raggiunge i vertici delle classifiche britanniche, nonché dell'omonima "La Folie", un lento decadente interpretato in un elegante francese dal bassista Jean Jacques Burnel.
Giunge finalmente il momento di passare all'incasso con la celebrativa Collection 1977-1982, trainata dal singolo inedito "Strange Little Girl" che riprende, invero in modo meno riuscito, le tematiche romanticheggianti care ai brani più melodici di "La Folie".
Ormai il feeling con il pubblico in Inghilterra e in Europa è un dato acquisito, anche se lo stesso non si può dire delle platee americane, che rimarranno per sempre la loro chimera; così i nostri non perdono altro tempo e nel 1982 sfornano Feline, con il quale raggiungono il loro apice per quanto concerne la raffinatezza e la cura certosina degli arrangiamenti. L'album dalla fascinosa copertina "nero su nero" raffigurante una pantera recupera in maniera più marcata il suono del synth, ma non abbandona, e anzi enfatizza, le ricerche melodiche contenute nel precedente lavoro, ricamandole con preziosi arabeschi di chitarra acustica dal sapore latineggiante: quello che ne viene fuori è un seducente esercizio di pop d'oltremanica scaldato al sole di Spagna; assai esaustive in proposito le hit "Midnight Summer Dream" e "European Female", cantata da J.J. Burnel. Entrambi i brani trovano un'adeguata cornice in altrettanto preziosi videoclip, il secondo dei quali riprende le tematiche del "Bacio della pantera", rappresentando i nostri alle prese con una "femme fatale" che, rinchiusa in una gabbia, prende le sembianze del pericoloso felino.
Si arriva così al 1984 con Aural Sculpture, che già mostra i primi segni di una creatività e di un mordente che si vanno progressivamente esaurendo, stretti fra velleità da classifica, peraltro centrate (anche il singolo "Skin Deep" ottiene ancora risultati lusinghieri sia in Uk che nell'Europa continentale, in particolare in Germania), e un poco convinto ritorno al sound degli esordi. Di questo lavoro è certo da ricordare la già citata "Skin Deep" nel cui videoclip i quattro si staccano la pelle dal viso alla stregua di uomini serpente, e come serpenti riappaiono sempre uguali a se stessi: è la degna metafora delle loro vicissitudini musicali che li hanno resi sempre riconoscibili malgrado i loro cambiamenti. La nuova fatica, accolta in modo tiepido dalla critica che li cataloga fra i "prostituiti del movimento punk", può comunque vantare una "side a" di assoluto valore, che ben riassume in 20 minuti il percorso artistico di otto anni vissuti a grandi livelli, con personalità e spessore fuori dal comune.
La strada del lento declino, da che hanno definitivamente sposato un pop che va sempre più edulcorandosi, prosegue nel 1986 con Dreamtime, da cui viene estratto l'ottimo brano dalle forti tinte melanconiche "Always The Sun", e ha il suo epilogo nel 1990 con 10, invero assai brutto, che determina la dipartita del frontman Hugh Cornwell (il quale farà posto al valido Paul Roberts), non prima di aver inaspettatamente centrato in extremis un quinto posto nelle classifiche dei singoli americani con "Sweet Smell Of Success" che profuma di beffa: è un premio assai esiguo a una carriera che avrebbe meritato maggiori fortune anche in America, colto peraltro con un brano assolutamente minore.
La storia degli anni 90 è quella di una band che ormai ha ben poco da dire ma che conserva, grazie al prestigio del suo nome, uno zoccolo duro di fan "duri e puri" nella nativa Inghilterra e nel nord Europa, grazie al sostegno dei quali continua a sfornare dischi alquanto anonimi senza soluzione di continuità, resi a malapena credibili dalle brillanti doti canore del nuovo frontman che pare una felice sintesi fra Peter Murphy e, appunto, Hugh Cornwell.
Davvero degno di nota resta comunque il live 5 Live 01, uscito nel 2001, nel quale il talentuoso Paul Roberts si cimenta, senza pagar dazio alcuno, in tutti i grandi successi della band, con un doppio disco dal vivo che tutti gli estimatori di questo gruppo dovrebbero avere. Altrettanto di recente, sono stati ristampati i primi dischi infarciti di rarità e di b-sides che hanno ottenuto un buon riscontro di vendite, segno che il glorioso nome degli strangolatori non è uno di quelli di cui ci si dimentica facilmente.
Quasi a confermare la curiosa tendenza del nuovo millennio, che vuole l'autorevole ritorno di alcune delle vecchie glorie degli anni Ottanta apparentemente condannate al definitivo oblìo (The Fall e Wire, giusto per far due nomi), nel 2004 esce Norfolk Coast. Il disco, sorprendentemente licenziato dalla Emi dopo il peregrinare del gruppo negli anni 90 fra le etichette indipendenti minori, mostra incoraggianti segni di ripresa, andando a recuperare, in maniera più che credibile, l'antico piglio dei tempi di IV Rattus Norvegicus. Ma questo segnale, per quanto positivo, ha tutto sommato un'importanza secondaria: il loro prestigioso capitolo nel grande libro del rock, gli Strangolatori in Nero lo avevano già scritto da tempo.
L'impressione rimane valida anche per i seguenti album del 2006, Suite XVI, e del 2012, Giants, che mostrano una chiara linearità con la matrice pop/rock che la band inglese ha voluto intraprendere. Se nel primo una certa venatura più grezza e punk può trovare ancora alcuni spiragli di espressione, nel secondo si è davanti un innesto retrospettivo completamente rivolto agli anni Settanta, con il loro blues rivisitato e alle fughe melodiche di certo psych inglese. Nonostante la capacità del gruppo di concludere alcune discrete composizioni, in cui a richiami loureediani si affiancano melodiche nostalgie, l'immagine generale si incrina su una chiara mancanza di profondità concettuale. Si ha l'impressione di una band che cerca di sopravvivere al suo stesso ricordo con espedienti talvolta bizzarri e comunque eterogenei, piuttosto che riflettere sulla propria creatività e sul proprio futuro artistico.
Nel 2013 viene pubblicato Feel It Live!, resoconto del tour di Giants. L'album mostra una band che a fatica riesce a riproporre il furore degli anni d'oro del punk, rimanendo anche distante tanto dagli esperimenti electro quanto dalle divagazioni dark-wave che caratterizzarono altri frangenti di una carriera oramai quasi quarantennale. Gli Stranglers suonano più che altro come un’onesta band alt-rock, con un repertorio senz’altro importante e le ben note spiccate capacità tecniche. Il piglio risulta però un tantino spuntato, e le composizioni più recenti non reggono quasi mai il confronto con i brani storici, restando inesorabilmente schiacciati sotto il peso di una discografia enciclopedica, e peccando di scarsa originalità. La line up attuale vede confermata la presenza del cantante / chitarrista Baz Warne (colui che dal 2006 è succeduto al ruolo che fu di Hugh Cornwell e Paul Roberts) accanto ai membri storici Jean-Jacques Burnel (basso e voce), Dave Greenfield (tastiere) e Jet Black (batteria). Certo che riascoltare i synth di “The Raven” fa sempre un bell’effetto, così come l’immersione nelle gemme del primissimo periodo (l’esordio “Rattus Norvegicus” del 1977 viene riproposto per gran parte). Gli inguaribili nostalgici non mancheranno di godere sulle nuove versioni dei celeberrimi cavalli di battaglia (le conclusive “Duchess” e “Tank” su tutte ): questo disco è destinato soprattutto a loro. Difficile invece che “Feel It Live!” possa riuscire nell’intento di allargare la base degli estimatori, conducendo nuovi adepti verso i lidi degli Stranglers.
Servono otto anni per arrivare a Dark Matters, il nuovo e primo episodio in studio senza Dave Greenfield (morto di Covid nel 2020) e Jet Black (costretto all'abbandono nel 2015 per motivi di salute legati all'età). Due colpi che avrebbero messo fuori gioco probabilmente chiunque tranne Burnel, ormai ultimo componente originale in servizio stabile, la cui esperienza nel karate deve aver permesso alla band di reagire con rinnovata forza. Il disco riparte dalle 8 tracce (su 11 complessive) già ultimate quando Greenfield era ancora in organico e da un numero altissimo di idee nel cassetto di JJ (si parla di trecento), che insistono sia sul tributo all'amico scomparso prematuramente sia sulla necessità di restare fedeli a un suono tra i più iconici degli ultimi 50 anni. La scommessa è vinta grazie principalmente a due singoli in grado di lasciare il segno ("And If You Should See Dave...", "If Something's Gonna Kill Me (It Might As Well Be Love)"), ma è tutto l'album a sembrare più ispirato dei vari episodi che compongono il repertorio recente. "This Song" è inglesità punk-rock nella sua quintessenza, "Breathe" un 3/4 che ricorda i momenti migliori di Matt Johnson. Le due anime del suono Stranglers (le tastiere di Greenfield e il basso di Burnel) restano le colonne portanti su cui edificare un disco che ritrova la buona scrittura e forse anche uno scopo, ovvero prendere coscienza del tempo che passa e di ciò che ne deriva in termini artistici. Un risultato notevole, considerate le premesse.
Contributi di Michele Guerrini ("Giants"), Claudio Lancia ("Feel It Live!") e Paolo Ciro ("Dark Matters")
IV/Rattus Norvergicus (United Artists, 1977) | ||
No More Heroes (United Artists, 1977) | ||
Black And White (United Artists, 1978) | ||
Live (X Cert) (live, IRS, 1979) | ||
The Raven (United Artists, 1979) | ||
(The Gospel According To) The Meninblack (Liberty, 1981) | ||
La Folie (Liberty Records, 1981) | ||
The Collection 1977-1982 (antologia, Liberty Records, 1981) | ||
Feline (Epic, 1983) | ||
Aural Sculpture (Epic, 1984) | ||
Dreamtime (Epic, 1986) | ||
All Live And All Of The Night (live, Epic, 1988) | ||
10 (Epic, 1990) | ||
Greatest Hits 1977-1990 (antologia, Epic, 1990) | ||
Live At The Hope And Anchor (live, EMI, 1992) | ||
The Old Testament: The U.A. Studio Recordings (1977-1982) (cofanetto, EMI, 1992) | ||
In The Night (China Records, 1992) | ||
About Time (When!, 1995) | ||
Written In Red (When!, 1997) | ||
Coup De Grace (Eagle, 1998) | ||
5 Live 01 (live, doppio cd, SPV, 2001) | ||
Peaches: The Very Best Of The Stranglers (antologia, EMI, 2002) | ||
Norfolk Coast (EMI, 2004) | ||
Suite XVI (EMI, 2006) | ||
Decades Apart (antologia, doppio cd, EMI, 2010) | ||
Acoustic In Brugge (live, Edel, 2012) | ||
Giants (Edel, 2012) | ||
Feel It Live ! (live, Edel, 2013) | ||
Dark Matters (Coursegood, 2021) |
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