Lucio Corsi

Lucio Corsi - La freccia bianca del glam italiano

Menestrello rock fuori dal tempo, capace di indossare i panni di David Bowie (cuciti a mano) e amare più di tutti Renato Zero, Lucio Corsi è uno dei cantautori italiani più sorprendenti degli ultimi anni. Una carriera inaugurata nel 2015, tra alti e bassi, nell'affollatissimo panorama indie e suggellata dieci anni dopo sul palco dell'Ariston

di Giuliano Delli Paoli, Lorenzo Righetto, Stefano Macchi

Tra David Bowie o Marc Bolan chi preferisci?
Renato Zero

Ci rispondeva così Lucio Corsi, a ridosso dell’uscita di Cosa faremo da grandi?. Era il 19 gennaio 2020, il mondo di lì a poco sarebbe cambiato per sempre e il cantautore toscano era ben lontano da immaginarsi un giorno superstar sanremese, sulla bocca di tutti e perdipiù in cima alle classifiche italiane. Lucio Corsi, campesino della Maremma grossetana, ha sempre amato sorprendersi e sorprendere, o cambiare la sua vita nel tempo di una gravidanza o poco più.
Dai colli toscani scivola sulle sponde del Naviglio della "Grán Milán" per fare l'artista: sì, chiaro, l'artista. Prima all'accademia, che sta stretta, poi sulla strada a suonare e suonare, con la chitarra, forse un'armonica, vestiti stretti che stan larghi pure al giovane Bowie che, per quanto possa dichiararsi un sorcino doc, resta comunque uno dei suoi fari oggettivi.

corsi1Lucio Corsi non ha un carattere ribelle. E a Sanremo si è visto bene, quando si è spogliato delle sue paure per regalarle al mondo con la delicatezza di un perdente di successo che non teme giudizi e che accetta il suo io senza patemi, così com’è da sempre. Fin da quando era poco più che ventenne, Lucio avrebbe dovuto infatti scalare i palazzi, saltare i fossi per lungo, pescare nel torbido. O forse no. Perché Corsi, in fondo, rappresenta una generazione nuova, un po' menefreghista e talvolta interessata, fatta di sensazioni che contano secondi e incertezze che sembrano durare anni.

E dagli esordi sforna canzoni in continuazione, dal momento esatto in cui, girando con la scorta dello Zaganelli che intuisce e ci crede, viene pescato dal Dragogna (Ministri) per Picicca Dischi con cui, in una manciata di settimane, scrive e registra Altalena Boy, Ep di 5 pezzi al quale va aggiunto il precedente e passato extended play Vetulonia Dakar, anch'esso di 5 pezzi. L'esperimento proposto dallo smilzo e "donchisciottesco" ragazzo di Vetulonia è una battaglia contro i mulini a vento, in generale una lotta con armi finte in cui da una parte c'è il nuovo Lucio e dall'altra il vecchio Corsi. Nel nuovo si sente il "Principe", come se cantasse "Atlantide" mentre fa un giro della morte in altalena ("Altalena Boy"), Brunori Sas ("Alieni") che fa l'autostop agli extraterrestri direzione Santiago oppure, nella bella "L'astronave", Jovanotti che alla fine s'infila sempre.
Ma è con "Godzilla" che Corsi entra in gioco e ci introduce il one man band del precedente Vetulonia Dakar, in cui ascoltiamo il rurale e genuino essere del ragazzo: "Cocomero" e "Søren" su tutte, con la tuta dell'Errea e le galline-dinosauro che s'appoggiano sul terreno delle chitarre del primo Bennato e un'attitudine da Gaetano.

Guardare di notte dall'alto un temporale significa inevitabilmente
capire che piove solamente dai lampioni in giù
("Le api")

L’impatto è buono. Anche se il successo dista ancora diversi anni luce. Il primo significativo cambiamento della sua avventura musicale arriva poco dopo, quando Lucio si cimenta sul terreno scivoloso del cantautorato “meta-morfico” e istintivo, del ritorno consapevole all’infanzia (magari, mai abbandonata), dell’uso della favola per rappresentare le proprie esperienze. Un filone scivoloso, perché interpretato da mostri sacri così come calpestato in tempi recenti, e intrinsecamente pericoloso, perché ripercorrere l’infanzia mette spesso a nudo la presenza di idee che la distorcono e la propria faciloneria d’adulto.
Nonostante la breve gestazione (almeno in fase di registrazione), avvenuta nella casa di campagna maremmana di famiglia, Bestiario musicale viene pubblicato nel 2017 e stupisce per la profondità del suo disegno, tra arrangiamenti degni di un Sufjan Stevens buttero (“L’upupa”, il singolo “La lepre”) e una capacità lirica da vero ammaestratore. Un po’ l’irrequietezza romantica, nostalgica, irsuta di Lucio Dalla (presente anche negli Abiku, qui nell’ottima “La volpe”), un po’ la giocoleria paroliera di Bruno Lauzi, sotto sotto l’aspirazione a dialogare con la generazione dei cantautori-poeti (“La lepre”, “L’istrice”, “L’upupa”): Bestiario musicale è in realtà abile a fare sua la tradizione, proiettandola nel suo piccolo ambiente di tenda per bambini, illuminato di figure stilizzate e dimentico del mondo esterno.

"Il trasferimento nella grande città ha suscitato in me una maggiore affezione per la Maremma. Questo è certo, ho capito che la vivo davvero bene. Forse anche la malinconia di non avere più intorno tutti quegli animali, tutti quegli ulivi, mi ha fatto venir voglia di parlarne", ci dice in una prima intervista l'allora giovanissimo Corsi. Come nella vera letteratura per bambini, le canzoni del Bestiario possono essere lette per un verso o per l’altro, oppure in tutti i versi insieme; nella semplice constatazione che i bambini non sono esseri diversi dagli adulti a cui somministrare, più o meno a tentoni, contenuti semplificati (quelli stanno solo nella mente dell’adulto “semplice” o pigro).
Nonostante manchi spesso, ai pezzi, una vera identità melodica (fino a diventare mero divertissement d’accompagnamento rinascimentale per il divertente spoken word di Lucio ne “La lucertola”), sono gli arrangiamenti il vero fuoco del disco, composti all’insegna di un Diy minimalista e cangiante, accesi di glam ne “Il lupo”, di una grandeur da cameretta in “Il cinghiale”, come in uno spettacolo teatrale in cui a parlare è la scenografia, e non gli attori.
Pur nell’abito estremamente elegante (l’elegia notturna de “La civetta”) e nel carattere vulcanico, orgogliosamente “di traverso” di Lucio, il Bestiario musicale è un’opera leggera, miyazaki-ana nello spirito (e finalmente italiana senza rimpianti nella sostanza), quasi timida nel proporre il proprio sguardo sul mondo, consapevole del peso di avere i mezzi, per una volta, per disegnare il mondo come lo si vorrebbe. Mostrando invece, così, l’immenso potere di una mente in grado di immaginare la possibilità, quello che spesso viene a mancare negli adulti.

Sia la copertina del 'Bestiario Musicale' che quelle degli Ep precedenti sono dei quadri di Nicoletta Rabiti, mia madre. A questa cosa tengo molto, anche per i dischi futuri userò suoi disegni. Prima di iniziare a suonare disegnavo molto, da piccolo volevo fare il disegnatore di automobili! C’è da dire che i miei genitori non mi hanno mai forzato, spingendomi a fare musica o altro, mi hanno sempre lasciato libero. Questo è un gran bene

corsi2Dopo aver aperto i concerti degli amici Baustelle e Brunori Sas, Corsi vive il 2017 suonando un po’ ovunque in giro per l’Italia, accolto da centinaia di fan ammaliati dalla bontà di questo menestrello venuto un po’ dallo Spazio e un po’ da una spiaggia di qualche lido toscano semi-abbandonato.
Il 2019 è invece l’anno che segna l’inizio della svolta. Corsi firma per la Sugar della Caselli. Pochi mesi e arriva Cosa faremo da grandi?. Terza prova e terzo centro. Il cantautore toscano torna in scena con la sua tavolozza strabordante di colori, tra fantasmagoriche visioni e metaforiche allusioni.
Corsi a questo gito punta dritto a una formula cantautorale dal piglio e dall'estetica glamour, senza per questo rinunciare alla sua nota inclinazione verso un immaginario fanciullesco, pimpante, fiabesco, poetico e sbarazzino. Un compendio di sonorità orchestrali e riff degni del Bowie più glam ("Freccia bianca" su tutte) che si snodano soavemente tra una strofa e l'altra, tra un abbraccio e il ricordo di un sogno mai realizzato. Il tutto enfatizzato con classe dal magistrale supporto di una carrellata di musicisti di prim'ordine, a cominciare dal fidato Bianconi (mellotron, prophet, moog, cori, acme siren). Una vera e propria orchestrina che asseconda il musicista toscano in ogni momento, suggellando la sua verve da giullare d'altri tempi negli episodi più "corali" ("Trieste", "La ragazza trasparente") e restando in disparte quando si trasforma nel menestrello impegnato, ma non troppo ("Senza titolo").
Cosa faremo da grandi? raccoglie nove piccoli grandi perle, sollevate dalla sabbia come le conchiglie citate nella title track posta saggiamente in apertura. Uno di quei brani, quest'ultimo, che l’amato Renato Zero avrebbe scritto se fosse nato nei NovantaRefrain che ruota come una giostra antica su parole che coinvolgono il disagio perenne e senza via d'uscita di una generazione che affonda assieme al barcone costruito da padri troppo avidi e spreconi.

C'è un mistero in ogni giorno che comincia
Dopo una notte che finisce
Io non ho mai capito
Chi ha colorato le conchiglie
E come fanno a viaggiare
Per queste grandi distanze
Se vado al porto lo chiedo alle barche
Che prendono il sole ma restano bianche

Il mare con i venti e le sue onde ("come ruote di biciclette"), i pesci e i gabbiani, la spiaggia e il sale è molto più che una semplice cornice immaginaria. È il contesto in cui si svolge l'intera narrazione del disco che per l'occasione diventa anche una sorta di cortometraggio a puntate, diretto da Tommaso Ottomano. E basta ascoltare la morbida e cullante "Onde" per avere un'idea compiuta della faccenda. Così come appaiono limpidi alcuni riferimenti all'epopea d'oro del glam dei primi Settanta, con il suo carico di fraseggi acustici e archi in festa ("Amico vola via").
Cosa faremo da grandi?
si rivela un incantevole scrigno di epiche melodie contornate da una poetica sublime. Un album con il vento in poppa che naviga beato e a vele spiegate in un mare magnum di fascinazioni pop. Lucio Corsi è capitano e marinaio del proprio veliero in fuga dall'abitudinario. Un'imbarcazione il cui fascino senza tempo accarezza ed esalta, conducendo l'ascoltatore verso un atollo dimenticato in cui ritrovare ancora una volta l'essenza di uno spirito glam-rock tutt'altro che sepolto, alla stregua di un forziere dall'incredibile tesoro e dal suggestivo bagliore.

Dal 21 ottobre all'11 novembre 2020, Corsi vive il suo primo sussulto popular in Tv, per quanto sia ancora praticamente uno sconosciuto ai più, come ospite fisso insieme alla sua band - composta da Antonio Cupertino, Marco Ronconi, Iacopo Nieri, Giulio Grillo, Filippo e Michelangelo Scandroglio - del programma televisivo “L'assedio”, condotto da Daria Bignardi su Nove. E’ il primo vero contatto con un pubblico mainstream e con un parterre ben più nutrito di mille o al massimo duemila persone. Tra concerti, pause discografiche e folate social, il 21 aprile 2023 Corsi riappare in gran forma con il suo terzo album, La gente che sogna, a cui segue un tour estivo partito suggellato il 17 giugno, con l’apertura del concerto degli Who al Firenze Rocks.
Astronave e giradisco. Forse è tutto qui, in queste due parole, nei significati più estroversi, nella rotazione che da moto muta in suono, melodia, passo. Lucio Corsi fin dalle prima note del suo quarto disco gioca con le parole come un bambino mentre fantastica sul piccolo mondo che c’è in casa. Ma sa che è alla fine è “necessario un incubo per risvegliarsi con sollievo” (“La gente che sogna”). E che “tutti volevano arrivare lì, nel mondo senza difetti, dove gli umani erano gli unici assenti, dove le statue camminavano per stare al passo coi tempi” (“Astronave Giradisco”). E allora tutto torna. Perché La gente che sogna è, all’inizio e alla fine della fiera, una bella chimera. Un castello in aria "arredato" mentre le dita accarezzano i poster di Bowie appesi per sempre in cameretta. E ancora uomini tristi “dentro casa, con il cuore a pezzi, nel buio di una miniera” (“Orme”).
Il cantastorie toscano ormai sa cosa vuol fare da grande e torna con un disco tutto pancia e anima, mentre in copertina c’è una nuova ballerina, dipinta per lui ancora una volta da mamma Nicoletta. Le “Orme” che il menestrello di Vetulonia contempla strofa per strofa sono soltanto una ferita su cui soffiarci sopra. Una metafora pensata immaginando Ivan Graziani ospite a cena dei Banco del Mutuo Soccorso. Corsi “mette lo smalto alle labbra e sulle dita il rossetto”. Oltretutto “il tempo funziona solo davanti allo specchio” (“Glam Party”).
La gente che sogna
sfugge “dalle grinfie della sera”, pur aggrappandosi alla notte di un tempo perduto. Un tempo lontanissimo. Il tempo dei riff di Mick Ronson, che è guru in ogni accordo. “Hunky Dory” è infatti miraggio. L’opera a cui tendere. Corsi mette in fila nove canzoni “dentro la radio”. Insomma, crea un album che nulla stravolge al cospetto dell’immediato passato, ma che ha il dono del sogno ostinato. L’irriconoscibile E.T. di “Astronave Giradisco” è appunto l’immagine che meglio si staglia lungo l’apparente stagno. Musicalmente siamo dalle parti di un Bowie in libera uscita sui colli fiorentini. Dunque “Il satellite d’amore di Lou Reed” vola alt(in)o, prima che “Magia nera” paghi qualche ovvietà di troppo rincorrendo “Suffragette City” senza troppo sfiorarla. La citazione (?) del conte Dracula di Carletto il principe dei mostri, ovvero Fujiko Fujio, cambia però le cose e chiama a raccolta gli amanti dei manga d’altri tempi. E tanto basta.
Glam, revival, l’uomo che cadde sulla Maremma: si può dire di tutto. La gente che sogna resta comunque sia un album sfacciato, birbante, giocoso. Una ruota panoramica su cui è sempre bello risalire.

corsi_2Prima di riapparire e sfondare praticamente tutto, Lucio Corsi si fa nuovamente “aiutare” da un mondo che in teoria disterebbe moltissimo dal suo. E’ Carlo Verdone, stavolta, a fargli da Cicerone, introducendolo al grande pubblico il 13 novembre 2024, giorno in cui Corsi pubblica il singolo “Tu sei il mattino”, compreso nella colonna sonora della terza stagione della serie” Vita da Carlo”, che racconta appunto la quotidianità e il passato del grande regista e attore romano, e in cui il cantautore toscano appare come guest star interpretando peraltro sé stesso.
Sono le prove generali per l’approdo all’Ariston e l’insperata convocazione all’Eurovision 2025, a cui Corsi arriva essendosi classificato secondo al 75° Festival di Sanremo, subentrando così al rinunciatario vincitore del Festival Olly, che decide a sorpresa di mancare la kermesse europea per "drammi" tecnici-esecutivi, lasciando almeno al buon Lucio (che avrebbe meritato di vincere il Festival a mani basse) la gioia e soprattutto la vetrina di una manifestazione che, per quanto oscenamente kitsch, resta un'occasione di lancio considerevole.

Per interagire serenamente con Volevo essere un duro (2025), quinta prova di Corsi, occorre però abbandonare il suo fantasma sanremese, quello che vince facile come il naufrago della pubblicità del gratta e vinci, dato il vuoto assoluto intorno a lui, compreso un Dario Brunori approdato "anzianissimo" all'Ariston per allietare le mamme e i papà con un brano stucchevole e peraltro alla De Gregori, cioè la sua fotocopia, va da sé. Perché solo svincolandosi dalle tiritere a basso mercato e dai giudizi nazionalpopolari, pre e post sanremesi, si può tornare liberamente a valutare il cantautore di Grosseto e con una certa serenità.
Va detto inoltre che Volevo essere un duro comincia con un mezzo capolavoro, piaciuto tantissimo anche a Verdone, sponsor ufficioso di Corsi - come visto - in tempi non sospetti. La sopracitata “Tu sei il mattino" è una di quelle canzoni che se fossero uscite negli anni 70 avrebbero conquistato l'universo-mondo italico, sia per la qualità della scrittura che per l'assoluta compattezza melodica, a restituirci inoltre una variante intima di Cosa faremo da grandi? confermando in definitiva che il giro melodico indovinato da Corsi, e proposto un po' a naso in diversi momenti del suo canzoniere, è ancora vivo e punta a catturare gli animi di quelli a cui mancano molti pezzi del suo passato.
Corsi fa per fortuna un po' quello che vuole, anche per quanto concerne la licenza espressiva, fregandosene delle potenziali censure dei puristi che gironzolano dalle nostre parti ormai da un po' di tempo. E allora che elogio alle sigarette sia, in appunto "Sigarette", nel primo momento alla Ivan Graziani del disco. Ecco, Graziani. È lui il riferimento assoluto di Corsi in un album che è il più umano della sua discografia. Il meno fiabesco, per farla breve.
Il trentunenne Lucio scende quindi finalmente dall'albero delle stelle, posa Dodò, manda finalmente a quel paese Topo Gigio, Pinocchio, il gatto, la volpe e le conchigliette poverine le ho mangiate tutte, come direbbe il carpentiere al tricheco. Ed è cosa buona e giusta. E veramente cosa buona e giusta è anche uscirsene con nove semplici canzoni e nessuna ospitata di convenienza. Aria all'epidermide. Anche in questo, Corsi compie una scelta saggia, fuori dal tempo e quindi sana.
"Francis Delacroix" è invece l'altra perla di Volevo essere un duro e contiene una marea di citazioni nobili, che si avvicendano come palline pazze, per una danza surreale, talvolta amabilmente lapalissiana e irta di quadretti impossibili. Da Gengis Khan a Don Chisciotte, Wojtyla e Colombo: non manca quasi nessuno. Corsi si esalta in una canzonetta che avrebbe fatto gola a Graziani (ci risiamo!) e forse pure Carella. E che attesta il suo stato di grazia, al netto dei riempitivi che arrivano puntuali poco dopo, su tutti il rock piacione, ermetico e poco incisivo di "Let There Be Rocko", con il quale il cantautore descrive le bizzarrie di un Lucignolo (si presume) della sua adolescenza.

Questo disco parla d'infanzia, di amicizia e d'amore. È un disco di fantasia con i piedi per terra. In questo album ho cercato di trovare il sogno non fuggendo nel cielo ma strisciando sui marciapiedi, passando sotto i tavoli da pranzo o nascondendomi negli armadi. È un disco di ricordi personali mescolati a storie di altra gente. Ci sono molti personaggi in queste canzoni, da Rocco, il bullo della scuola media, al Re del rave, una sagoma romantica e sgangherata, fino a Francis Delacroix, mio grande amico, forse immaginario, ma non importa

C'è di certo poi troppo John Lennon dietro i tasti di "Situazione complicata", ma va bene così. Annotata la splendida copertina disegnata ancora una volta dalla madre di Corsi, Nicoletta Rabiti, Volevo essere un duro non ha la potenza fantasmagorica di Cosa faremo da grandi?, ad oggi il suo album evidentemente più riuscito, ma è un disco che si fa comunque volere parecchio bene, con momenti di grande cantautorato italiano, quelli che mancano da un pezzo in questo paese di top, super, bomba sciorinati anche per l'ennesima ciofeca urban qualcosa lanciata tutti i santissimi giorni dai quartieri generali meneghini. Il che è decisamente tanto, oggi più che mai.