L'inizio del decennio Settanta è ricordato in Italia per la definitiva consacrazione della figura del cantautore cosiddetto impegnato. Il rigoglioso fermento degli anni 60 ci aveva restituito l'esistenzialismo di matrice francese proprio della scuola genovese, un cantautorato in linea con la nostra tradizione melodica (con struggimenti amorosi annessi), quello che prendeva le mosse dall'allora imperante movimento beat e infine il folk militante riconducibile al Cantacronache prima e all'etichetta "I dischi del sole" poi.
In parallelo a questi scenari, in uno scantinato romano di Trastevere apriva il Folkstudio, autentico crocevia di culture popolari che spaziavano dalla musica nera (fosse essa americana o direttamente africana) a quella sudamericana, al jazz, e al folk irlandese e a stelle e strisce. È principalmente questo il luogo in cui, complici le istanze del 68 e i riverberi della canzone di protesta americana, prende le mosse una giovane leva di artisti che, con formule musicali semplici, fa dei temi politici e sociali la propria ragione d'essere. Se la restante parte dell'Italia musicale poteva dividersi fra epigoni della canzonetta di stampo sanremese e un neonato quanto importante movimento progressive, il vero contraltare alla nuova forma di cantautorato era rappresentato dall'anomala coppia Battisti-Mogol. Canzone d'autore sì, forse non disimpegnata come la si faceva passare a quel tempo, ma di sicuro più incline alle vicende dell'individuo, con particolare attenzione alla dimensione intimisticamente umana più che collettiva. Anche dal punto di vista musicale la contrapposizione fra il modello del nuovo cantautore e l'archetipico Battisti ha buon gioco: strumentazione e arrangiamenti ridotti all'essenziale da una parte, orchestre e importanti sale di registrazione dall'altra.
Il grande assente della disputa cantautorale era il rock che, all'alba degli anni 70, era invece conteso fra i reduci della beat generation e i nuovi progressivi: per entrambi, tuttavia, il testo era per lo più funzionale quando non accessorio agli scopi musicali. Ma è in seguito alle vicende della neonata etichetta Numero Uno, fondata proprio da Mogol e Battisti coadiuvati dal produttore Alessandro Colombini, che si gettano i semi per la nascita di nuove alchimie. Il catalogo della scuderia comprende, oltre ovviamente a Battisti, una nutrita compagine prog (Pfm, Formula 3, Acqua Fragile, Jumbo, Il Volo), nonché interpreti del verbo mogol-battistiano come Adriano Pappalardo e Bruno Lauzi. È in questo dietro le quinte, fra infiniti intrecci di autori innovativi, musicisti talentuosi e irregolari assortiti che qualcosa si scontra, scintilla, si frulla ed esplode: senza poter omettere il catalogo Cramps (Eugenio Finardi, Claudio Rocchi, Alberto Camerini) e pur partendo da premesse diverse, i nomi storici del filone rock cantautorale nascono proprio lì e rispondono ai nomi di Alberto Radius, Edoardo Bennato. E di Ivan Graziani.
Sebbene alcune riviste dell'epoca ne accreditino i natali in mare aperto, su un traghetto fra Civitavecchia e Olbia, Ivan nasce a Teramo il 6 ottobre 1945 da madre sarda e da padre abruzzese. Quest'ultimo, Paolo, è il "fotografo di matrimoni" immortalato in "Io mi annoio" ("Cicli e tricicli", 1991), con lo studio a Teramo sul "Campo della fiera" ("La città che io vorrei" 1973 e "Ballata per quattro stagioni", 1976), in testi che sono solo due delle innumerevoli tessere di un vissuto inserite nel composito puzzle autobiografico del Nostro.
Le sue speciali attitudini artistiche emergono ben prima dell'adolescenza, allorché riceve in dono una batteria che diventa il suo passatempo preferito, assieme al disegno. Tutto questo fino a che il fratello maggiore non lascia nell'angolo della stanza - che a quel tempo condividevano - una chitarra. Sergio la imbraccia quel tanto che basta per capire che non sarebbe stata cosa: molto meglio gli studi che lo porteranno a diventare uno stimato insegnante (sarà lui il pigro personaggio che "cita i classici a memoria"? Ne parleremo).
Al piccolo della famiglia sembra aprirsi un mondo, giacché alle matite colorate si affianca il nuovo giocattolo, strimpellato così assiduamente da costringere i familiari e relegarlo in cortile, nella piccola costruzione destinata ai lavori fotografici notturni del padre. Quanto accade fra quelle mura anguste rimane davvero oscuro, ben più della camera che ne è unica testimone. Cosa saranno quei rumori che si odono da fuori, e come ci arrivano lì dentro? Non possiamo saperlo, ma è certo che in qualche modo personaggi come Big Joe Turner, Chuck Berry, Little Richard e Jerry Lee Lewis irrompono di prepotenza quel contesto fatto di sogni destinati a diventare realtà.
L'adolescenza trascorre fra l'Istituto d'Arte di Ascoli Piceno, le strade di Teramo (dove il pallone è soppiantato dalle gare a chi suona più forte e veloce la chitarra) e la stanza di un suo coetaneo che studia pianoforte, Gianni Dale figlio dell'orchestrale Nino, cantante e sassofonista molto noto in Abruzzo e nel cui complesso - i Modernists - farà il suo ingresso un poco più che diciottenne Graziani. L'ingaggio non è frutto di una raccomandazione, visto che Dale senior scopre il talento del giovane non già fra le sue pareti domestiche ma sul palco, durante un concorso musicale scolastico in cui gareggia anche il figlio. Poteva mancare tra le future canzoni il racconto romanzato dell'incontro destinato a cambiare una vita? "Si cantava in casa di amici quando un uomo dalla sala giù in fondo venne verso di me zoppicando "L'ultima guerra mi ha lasciato un ricordo. Tu sai suonare ed io son capo orchestra" disse "Vieni con me a cantare, mi chiamo Nino. Nino Dale and his modernists" ("Ivan Graziani", 1983).
Quello che gira in lungo e in largo per feste paesane, navi da crociera e villaggi vacanze è un imberbe rocker autodidatta ("andare a scuola di chitarra significherebbe limitare la mia creatività", ebbe poi a dire) cresciuto con un'acustica suonata con la cattiveria di quell'elettrica che ora ha l'occasione di mettere al servizio di musicisti professionisti: esiste una palestra migliore? Migliore forse no, ma altrettanto stimolante sì. Con la voglia di spiccare il grande salto.
Terminate le scuole superiori, la sua vita prosegue a Urbino dove completa gli studi in arti grafiche. Siamo nel 1966 e l'Italia è in piena fase di emancipazione artistica. Da un paio di anni dilagano i gruppi beat che fanno il verso alla British invasion, gente come The Rokes, Equipe 84 e New Dada che portano alla ribalta della nuova generazione le tinte psichedeliche degli Yardbirds, il rhythm'n'blues dei Rolling Stones, il pop policromo degli Animals. Ma anche le canzoni più o meno lisergiche che provengono dagli Stati Uniti, coi The Mamas and the Papas e i Beach Boys. Urbino non è esattamente il centro del mondo, ma è pur sempre un polo universitario in cui è facile trovare qualcuno con cui condividere le passioni musicali. Quel qualcuno risponde al nome di Velio Gualazzi (padre e futuro manager di Raphael, il vincitore l'edizione di Sanremo Giovani 2011), ma non è in senso stretto un incontro fra musicisti. Se da un lato, come abbiamo visto, il background di Ivan è quello del giovane professionista, Velio è solo un aspirante batterista ancora lungi dal cimentarsi con le pelli. Mica male il gap da colmare, e tuttavia la sua grande determinazione è la molla che accende un feeling destinato a fiorire qualche mese dopo, allorché il giovanotto riesce a comprarsi lo strumento del cuore e a esercitarsi quanto basta per diventare il perno della sezione ritmica di Ivan e i Saggi, il primo nome che si dà il neonato gruppo.
Più incoscienti che saggi: il terzo componente ha, fino a quel momento, un percorso artistico - se così lo vogliamo chiamare - molto simile a quello del batterista. Walter Monacchi incontra i due durante una festa, ed entra nel progetto grazie al magnifico bluff rappresentato dall'unico giro di basso del suo repertorio, che fa scambiare per un virtuoso un autodidatta alle prime armi. Nondimeno, anche nel suo caso, la volontà è il mezzo per raggiungere il livello necessario a tutti e tre per battere in lungo e in largo i palchi della zona, così la vetrina delle tante serate spese a suonare (specie quelle nel popolare Altromondo di Rimini) frutta l'attenzione dei discografici della Cbs: il 1968 è alle porte e il trio entra in sala d'incisione con un nome nuovo di zecca, Anonima Sound.
È proprio con la b-side del primo 45 giri "Fuori Piove" che il neonato gruppo compie un primo balzo verso le grandi platee: "Parla tu" (questo è il titolo), piace ai popolari conduttori Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, e i passaggi radiofonici diventano il viatico per l'iscrizione al Cantagiro. Si tratta della manifestazione canora più importante della penisola assieme al Festival di Sanremo, ma per una band al debutto può rivelarsi anche più efficace, essendo una competizione a tappe che garantisce molte più esibizioni e un'esposizione più duratura. Il brano, una beat ballad orchestrale che mette in luce l'inconfondibile timbro alto della voce di Ivan che non sconfina mai nel falsetto, si classifica all'ultimo posto, ma è l'abbrivio per la carriera professionista del gruppo. Seguono altri singoli: "L'amore mio, l'amore tuo" e "I tetti" di quello stesso anno, "Josephine" - scelta per l'edizione del 1969 del Cantagiro - e "Mille ragioni" e, sempre nel 1969, "Ombre vive" (coi testi a firma Mogol) e "Girotondo impossibile" che vedono una virata verso il nascente pop progressivo, grazie anche all'ingresso nella band del tastierista Roberto Carlotto, detto "Hunka Munka", che rivestirà una certa importanza nel prosieguo della storia.
Per Ivan è una fase estremamente contrastata: da un lato vi è l'esaltazione per il raggiungimento di un primo obbiettivo di popolarità, dall'altro il disagio dato dal poco spazio che l'industria discografica sembra concedergli a livello compositivo. Questo turbamento lo spinge a commettere qualche errore, come quello di rifiutare una canzone propostagli da Mogol in persona per l'etichetta Numero Uno: è la bellissima "Non credere", con Mina che di lì a poco ringrazierà portandola al successo con tanto di vendite milionarie. Il bello è che il pezzo è stato comunque registrato dal quartetto, evidenziando arrangiamenti davvero a fuoco - lo splendido tappeto tastieristico in stile Procol Harum di "Hunka Munka" - e un'interpretazione vocale che sarebbe probabilmente valsa la consacrazione. Il destino, unito a pizzico di cocciutaggine da parte dell'interessato, decide di far slittare l'appuntamento con la vera fama: "Non credere" uscirà come cd singolo (molto) postumo nel 2004 e verrà accreditato al solo Ivan, in una di quelle operazioni a metà strada fra il meritorio e il recupero merci dal fondo del magazzino.
Nel 1970 la band mette in cantiere il debutto sulla lunga distanza che in gran parte viene effettivamente registrato (e mai pubblicato), ma ai dubbi del leader si aggiungono delle piccole frizioni interne: a mettere la parola fine al progetto è la chiamata alla leva militare, che Ivan sfrutta come valido pretesto per allontanarsi dai suoi compari, i quali però proveranno a proseguire da soli. Il front man teramano è rimpiazzato dai due chitarristi Massimo Meloni e Lamberto Clementi, anche Walter Monacchi lascia e al suo posto subentra Piero Cecchini. Sotto le insegne dell'Anonima Sound Ltd, dopo il singolo del 1971 "Io prendo amore/Cerchi", nel 1972 esce l'album progressive "Red Tape Machine" che, fra i numerosi sessionmen, vede l'intervento in due brani dello stesso Ivan nell'inedita veste di bassista, segno che i rapporti personali coi vecchi compagni sono rimasti più che buoni. Ma se il treno dell'Anonima Sound trova qui il suo capolinea, quello di Ivan deve ancora partire.
All'inizio degli anni 70 egli si ritrova spesso a bazzicare per Milano, dove consolida dei rapporti d'amicizia che sfociano in collaborazioni artistiche. Oltre all'ospitata nel disco dell'Anonima Sound Ltd, Ivan riveste un ruolo centrale nel disco di Roberto "Hunka Munka" Carlotto "Dedicato a Giovanna G." (1972) in cui, oltre a suonare il basso e a occuparsi di tutti gli arrangiamenti, firma gran parte delle musiche. Pur con qualche ingenuo retaggio beat e una prosopopea magari eccessiva, il disco si distingue per l'innovazione nell'uso degli strumenti. Carlotto, che ha un passato da turnista in Inghilterra ed è in procinto di entrare nei Dik Dik, è dotato di tutti gli ultimi ritrovati elettronici sia quanto a tastiere che a batterie elettroniche, e questo - unito alla sua esuberanza vocale e a quella musicale del suo arrangiatore - permette comunque di ascrivere l'album fra quelli meritevoli d'essere inseriti in una buona discoteca di italian prog.
Un altro ellepì in cui Graziani ricopre una posizione essenziale è il doppio "Megalopolis" (1972) del grande amico Herbert Pagani. Quasi un apolide, eclettico (si dedica sin dagli anni 60 alla canzone d'autore, poi fa l'attore in tv, ma è anche conduttore radiofonico, pittore e scultore), bilingue francofono, ecologista convinto, in quell'anno non solo si cimenta anch'egli nel progressive pretendendo di avere Ivan accanto, ma lo ospita anche a Radio Montecarlo, improvvisando con lui degli innovativi siparietti per quel mestiere di dee jay che, di lì a un paio d'anni, avrà il battesimo in Italia grazie all'avvento delle radio libere.
Che Milano avesse conquistato una posizione rilevante è confermato dal fatto che diventa in breve la sede della sua famiglia nuova di zecca. Nell'estate del 1972, infatti, sposa Anna e vi si trasferisce in affitto, diventando socio di un piccolo locale in zona Brera nel quale, manco a dirlo, si esibisce con la chitarra. Con lo pseudonimo di Rockleberry Roll fa uscire il 45 giri "Drop Out/True Blue" che segna un punto di rottura sia con il progressive delle recenti collaborazioni, sia con il pop beat dell'Anonima Sound; e l'opzione della lingua inglese non è casuale, in quanto funzionale alla scelta di orientarsi verso un melodico glam-rock di matrice britannica che lasci briglia sciolta all'anima blues della sua chitarra.
Il risultato convince abbastanza, tanto che viene tarato sulla lunga distanza nell'album Desperation (1973), che se da un lato non fa dell'accuratezza nella produzione il suo plus, dall'altro permette di fissare alcuni punti del cantautore rocker che verrà. La concezione sin troppo spartana è in parte compensata dall'ormai familiare perizia chitarristica e dall'aiuto di egregi strumentisti come Roberto Carlotto e Nunzio Favia (già batterista dei progster Osage Tribe - gruppo in cui si avvista un giovane Franco Battiato - e poi collega di Carlotto anche nei Dik Dik), ma anche il songwriting mostra un background di tutto rispetto, fra pop ballad corali (la title track, "For Julia" e la beatlesiana "Sometimes Maryanna", che ritroveremo nel debut album in italiano col titolo "A volte in primavera"), frizzanti rock'n roll ("Crystal Dale", "The Message" , "Guitar Woman") e muscolari riaggiornamenti dell'era sixities ("Give You All My Love").
A Ivan verrà in seguito inopportunamente assegnato l'appellativo di Elton John italiano, laddove il solo punto in comune fra i due era la montatura eccentrica degli occhiali, ma se volessimo scovare qualche sembianza d'identità artistica, Desperation è il lavoro dove questa può essere, almeno in parte, rintracciata.
Altro giro, altro pseudonimo: nel 1973 esce solo per i juke-box il brano countreggiante "Longer Is The Beach" a firma Ivan & The Transport: se si eccettua Tatotomaso's Guitar del 1974, in cui Ivan nella veste del fantomatico Tatotomaso dedica undici brani strumentali al figlio nato da poco (per lo più cover arrangiate in ottica chitarra-bar, ma la perizia con lo strumento si conferma a maggior ragione), la parola fine ai progetti estemporanei viene siglata dal vero debutto a suo nome e in italiano: è finalmente pronto La città che io vorrei (1973).
Non ci vuole molto a capire che, a differenza dei concitati progetti di una fase a dir poco sovrabbondante, è questo il lavoro su cui si sono concentrate le migliori energie di quel periodo. Affiancato dal fido Hunka Munka e dai suoi organi, supportato dalla moglie Anna che ne supervisiona i testi (lo farà molte altre volte in futuro), il disco è interamente scritto e arrangiato dallo stesso autore che sciorina in forma naif tutta quella versatilità destinata a connotarne la carriera. Malinconia, autoironia, gusto per la caricatura, delicati acquerelli di una provincia perduta nella vita di ogni giorno ma non certo nel cuore: sono molti degli ingredienti che campeggiano in questa città dei sogni. E ciò sin dalla copertina, in cui non viene "messa la faccia" ma qualcosa di più, ossia la foto del proprio matrimonio con tanto di parenti schierati. Malinconia, si diceva, come nella splendida ballata che apre l'album e che gli dà titolo ("...sì lo so che non è vero, sì lo so ma son sincero, e non esiste più, non ritrovo più la città che io vorrei, è scomparsa ormai, ingoiata ormai..."), giocata fra momenti sussurrati contrapposti a esplosive aperture corali di Hammond cuciti insieme da un'ineccepibile chitarra acustica. E poi delicate calligrafie delle sue prime letture ("Tom Sawyer"), sogni di giovinezza intrisi di beat psichedelia ("Colori"), ma soprattutto turbanti narrazioni di vite occultate: i perdigiorno di "Nah Nah Nah" e del rockaccio "L'ubriaco", e in special modo lo storpio de "Il campo della fiera" che "canta canzoni e tende il piattino", sognando di poter correre dietro all'amore e dietro a quella vita che gli è miseramente preclusa.
Ma non si può tralasciare "Luisa", per voce e chitarra, che è la sorprendente dimostrazione di come si possano sviluppare delle trame spiazzanti giocando su abusati cliché amorosi, per un testo in cui la dolce e inappuntabile amata di bianco vestita, con alle mani la "crema di Yves Saint Laurent", viene infine strangolata con una calza di seta probabilmente a causa della sua troppa perfezione. Se è vero che il disco avverta una certa naïveté, lo è altrettanto che le sue tinte essenziali e a tratti bucoliche calzino come un guanto su canzoni dall'aura ora fiabesca, ora divertita, ora scherzosa, ora malinconica.
Si tratta dunque di un'opera molto originale, che non conosce una grande popolarità ma che ottiene passaggi radiofonici e buoni riscontri critici. Pur con qualche piccolo pegno pagato sull'altare dell'esuberanza, "La città che io vorrei" finisce dritto fra le opere centrali della poetica grazianiana tanto che non si comprende il motivo per cui, in alcune biografie, esso venga quasi ignorato o al massimo relegato fra i passaggi non del tutto riusciti. Circostanza che, per paradosso, ci sentiremmo semmai di attribuire ad alcuni episodi immediatamente successivi, proprio nel momento in cui Ivan disporrà - in teoria - di tutti i collaboratori e di tutti i mezzi artistici necessari per fare le cose in grande.
Quel che è sicuro è che le performance del Graziani strumentista non passano inosservate alle orecchie dei colleghi, tanto che nei tre anni seguenti i suoi talenti diventano davvero ambiti. I primi a pensarci sono i membri del nostro gruppo di grido a livello internazionale: è la Pfm - appena prodotta dal guru prog Pete Sinfield e reduce dalle gesta inglesi del Festival di Reading, nonché da un lungo e felice tour nordamericano - alla ricerca di un cantante chitarrista che permettesse agli altri componenti di dedicarsi alla sempre più complesse parti strumentali. Non se ne fa nulla e alla fine la scelta ricade su Bernardo Lanzetti, ma di quelle prove e della mai sfociata collaborazione abbiamo testimonianza nelle musiche di "From Under", il brano con cui la Pfm che apre "Chocolate Kings" (1975), co-firmate proprio da Ivan.
Ma la grande occasione non tarda a concretizzarsi, e in modo del tutto estemporaneo. Nel 1975 egli è alla ricerca di un nuovo contratto e, nel corso del suo peregrinare per le sale prove di Milano, si ritrova per un'audizione negli studi della mogoliana Numero Uno con cui aveva inciso l'ultimo 45 giri suonato con l'Anonima Sound, "Ombre vive". Mentre aspetta il suo turno, strimpella la chitarra: nell'altra stanza c'è Lucio Battisti che, incuriosito, entra per capire chi stesse suonando; fu un amore a prima vista, o piuttosto il genuino intuito dell'artista reatino? Sia come sia, il chitarrista abruzzese entra subito a far parte dello staff di musicisti che sta incidendo il nuovo disco di Battisti "La batteria, il contrabbasso, eccetera" (1976), creandosi i presupposti per la svolta tanto attesa.
Le incisioni si svolgono al Mulino, un casolare convertito da Mogol in un avveniristico studio di registrazione nel bel mezzo della "Brianza velenosa" (ad Anzano del Parco, nei pressi di Como), dove gli artisti e le loro compagne vivono giorno e notte a stretto contatto fra loro cementando legami conviviali e, talvolta, di amicizia.
È grazie al singolare contesto da comune artistica che Ivan può contare sull'intero gruppo di Battisti per le registrazioni di Ballata per quattro stagioni (1976), che invece si svolgono negli Studi Fonorama di Milano per via dei danni subiti dal Mulino a seguito di un allagamento. La formazione comprende Claudio Pascoli alla produzione e ai fiati, Lucio Fabbri agli archi, un diciottenne Walter Calloni alla batteria, Hugh Bullen al basso e Claudio Maioli alla tastiere. Ci troviamo dinnanzi a un combo di virtuosi di estrazione jazz che, se ne "La batteria..." rimangono vincolati alle atmosfere soft-disco imposte dal suo carismatico autore, nell'album di Ivan si ritagliano uno spazio ben più ampio. Forse troppo, a giudicare dal risultato finale, e non tanto per le capacità tecniche che pure positivamente emergono. Ciò che si annacqua è quello stile che, sebbene immaturo, abbiamo già imparato a conoscere: Ballata per quattro stagioni è un lavoro un po' indeciso sulla direzione da prendere, quasi che il bendidio a disposizione avesse finito col confondere le idee impedendo di approdare a un risultato coerente.
Le ballata che dà il titolo all'album e "E sei così bella" - per quanto tuttora apprezzate dagli ascoltatori più affezionati - rimangono impigliate anche coi testi fra i già noti canoni cantautorali degli anni 70, le linee vocali di "Il mio cerchio azzurro", "I giorni di novembre" e "Donna della terra" si fanno portare a spasso dalla sontuosità degli strumenti senza un vero approdo, la riproposizione in chiave rock de "Il campo della fiera" non è male, ma perde il confronto con la versione incisa nel disco precedente, "La pazza sul fiume" è francamente poco ispirata. Non mancano le buone canzoni: la colloquiale "Come" risalta una maturità che sta prendendo forma, "Dimmi ci credi tu" è il punto di maggiore equilibrio fra il sagace virtuosismo dei suoi primattori (con tanto di citazione di fiati al "Sogno d'amore" del compositore classico Franz Liszt) e un metro melodico vincente, infine "Trench" è uno scintillante strumentale poliziottesco che rimanda, così com'è, a quel che sarà negli anni 2000 il repertorio retrò dei Calibro 35. Non è un passo falso tout court e nemmeno un passo indietro, quanto piuttosto il lodevole tentativo di accomodare il tiro verso la giusta direzione.
Grazie alle qualità tecniche che ormai tutti nell'ambiente conoscono e al sostegno di discografici che ci credono, arriva il momento in cui si aprono ancora diverse porte. Nel 1976 viene chiamato a Roma assieme a Pascoli, Bullen, Calloni e Maioli, per suonare nel nuovo album di un autore in cerca conferme dopo il doppio numero uno in classifica dell'anno precedente (33 e 45 giri, con "Lilly"), quell'Antonello Venditti destinato a diventare suo sponsor artistico, ma anche uno dei suoi amici più cari. Il disco di Antonello non ci riuscirà: per il cantautore romano "Ullàlla" - in cui Ivan mette mano anche a livello di arrangiamenti - segna una temporanea battuta d'arresto commerciale, ma nel tour che segue i due saranno insieme sul palco. Una bella vetrina, non c'è che dire, anche perché a corroborare l'amicizia entra in gioco la nuova produzione del rocker teramano I Lupi (1977), in cui Venditti ricambia il favore contribuendo alla produzione e agli arrangiamenti.
È questo un lavoro cruciale, giacché vengono messi in campo quasi tutti i connotati che troveremo nei capolavori che seguiranno. A proposito di capolavori, è proprio qui che viene calato il primo carico da undici della discografia: "le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse e la giacca a vento...". L'incipit del ricordo di Marta, col suo sorriso e i suoi capelli "fermi come il lago", di "Lugano addio" è un frame che vale più di un'inquadratura in 3D ad alta risoluzione, in quello che diventa un commovente vortice di intrecciate rievocazioni: gli appassionati racconti della ragazza, la memoria della propria infanzia, l'immagine del padre sulla spiaggia ("...le reti al sole/ i pescherecci in alto mare/conchiglie e stelle/ le bestemmie e il suo dolore..."), il senso di consapevole smarrimento procurato dall'assenza ("...addio cantavi/ e non per falsa ingenuità/tu ci credevi/ e adesso anch'io che sono qua..."). E non ultimo lo struggente "po-po-po" di quella che può essere definita la ballata perfetta, nonché il primo successo da hit parade: e pensare che, incredibilmente, è solo la "b-side" di un 45 giri nel cui lato "A" c'è la pur buona ma non così immediata title track dell'album.
Fra i tòpoi delle liriche dell'album I Lupi, resta un po' sottotraccia quell'ironia intravista nel lavoro d'esordio in italiano, poi tralasciata, e ora presente solo come amaro contorno della prima esplicita bad story (di una corposa serie) narrata da Graziani. Se è vero infatti che la prima vittima di una vicenda cominciata bene e finita malissimo è la candida Luisa de "La città che io vorrei", in "Motocross" la narrazione perde quel substrato surreale per incastrarsi nella quotidianità di una provincia già più volte tratteggiata. Nell'esemplare cornice di un semiacustico mantra rock e di un brillante espediente lirico ("evviva il cross, evviva il motocross"), si inserisce il magico incontro con una ragazza "magra come un giunco" e con "i fianchi da bambina", che si rivela poi essere l'esca per il furto della sua moto nuova fiammante ("il 250 giallo, di marca giapponese" comprato a suon di cambiali), con tanto di botte prese dai di lei complici in un anfratto sperduto fuori dal paese. Qui, e in molte altre occasioni che verranno, lo svolgersi del racconto si rivela come l'efficace quanto esaustiva sceneggiatura di un cortometraggio, o meglio come la composizione a strisce di un fumetto a colori.
Anche se il nucleo del gruppo che lo accompagna rimane pressoché immutato, l'uscita di Claudio Pascoli (coi suoi fiati) dalla produzione e il contestuale ingresso di Venditti segnano un'ulteriore personalizzazione del sound, che si allinea agli stilemi di un più consono rock cantautorale in cui a farla da padrona è la "one guitar" di Ivan, volteggiante con disinvoltura fra articolati arpeggi acustici e affilati riff elettrici.
Fra gli altri episodi degni di chiosa annotiamo la sinistra ballata che dà il titolo all'album, con quei suoi lupi che induriscono i sentimenti e che sono metafora di una guerra non solo d'armi ma anche di quotidianità, la cruda "Il topo nel formaggio" che magari non sarà altrettanto efficace quanto a testi, ma che si rifà con gli interessi nei variegati movimenti strumentali, e poi la vendittiana "Eva", la ladra seduttrice dai turbamenti oscuri, in uno dei tanti riusciti ritratti femminili dell'intero repertorio. Fra i pezzi prescindibili menzioneremmo la dialettale "Ninna nanna dell'uomo", troppo appiattita su un malinconico folclorismo, e l'incerto ermetismo de "Il soldo" che chiude l'album.
Ci sono volte in cui la copertina di un disco anticipa, quanto a ispirazione, ciò che si andrà ad ascoltare: quella di Pigro (1978) è una di queste. Il maiale con gli occhiali che campeggia sulla copertina è griffato Mario Convertino, in quale coglie con la consueta genialità due tratti caratteristici di Graziani: la sua acuta ironia, e il vezzo rappresentato appunto dall'enorme occhiale rosso che, da qualche tempo, fa da paio col personaggio.
Quello che entra in sala d'incisione assieme ai vecchi compagni del Mulino (incluso il sax di Claudio Pascoli) è un artista con le idee molto chiare circa la direzione da prendere. Se in "Ballata per quattro stagioni" fu la band a menare le danze, e se ne "I lupi" si respiravano ancora dei retaggi progressive tanto nei testi che nei componimenti, col nuovo disco Ivan assume il controllo totale della situazione, forgiando un altro paio di classici ma soprattutto sdoganando il mestiere del rocker nostrano, i cui frutti verranno raccolti da altri negli anni a venire (partendo da Vasco Rossi per arrivare a Ligabue). Il primo di questi classici è "Monna Lisa", col bassone disco-rock di Bullen e il "quattro quarti" di Calloni a cadenzare la storia comico-grottesca di un matto che improvvisa il furto della Gioconda al Louvre, con annessi il sequestro del custode (che "ora ha la bocca piena di biglietti del museo"), il museo circondato ("di sotto stanno urlando/certamente mi dicono di uscire") e l'immancabile danneggiamento della preziosa opera ("e io sto torturando la tela col rasoio e con le unghie"). L'altra sempreverde è "Pigro" (anch'essa, come "Lugano addio", è una b side che supera in popolarità la pur bellissima "Paolina" inserita nel lato A), un rockaccio scandito da un riff definitivo di chitarra acustica, nel quale in soli due minuti e venticinque secondi riesce a mettere alla berlina i vizi e le ipocrisie dei benpensanti prendendo benevolo spunto dai tic sociali del fratello maggiore, l'affermato docente universitario di cui si faceva cenno all'inizio della storia.
Ma il resto non è contorno, tutt'altro. Con "Sabbia del deserto" ritornano i temi dell'adolescenza e della vita di provincia portando con loro un involontario quanto triste presagio ("...e l'inquietudine cresce dentro come un cancro..."), il blues-rock "Fango" riprende i tanto cari temi noir ("a ventun anni è già assassino"..."la casa è buia, e ha due finestre/una guarda la strada/ l'altra il vicolo dei rifiuti"), "Gabriele D'Annunzio" ripiega sul folk per disegnare la vita di un contadino dal nome ingombrante, tenuto alla larga dalle donne (per forza, visto che "lavarsi non serve, il maschio ne perde"), che si dispera in uno squallido autoerotismo da solitudine e che finisce con lo sposare la vedova Ricci, "una donna di novantadue chili" che "lo picchia ogni sera con il nervo di bue" rivelandosi una compagna altrettanto triste e avvilente. "Al festival slow folk di b-Milano" è l'amabile presa per i fondelli dei gruppi prog ospiti fissi dei festival a quel tempo tanto di moda, che spesso nascondono il vuoto assoluto dietro agli intellettualismi di facciata, mentre "Scappo di casa" racconta con efficacia un'altra vicenda di rabbia, solitudine e prostrazione.
Ancorché non raggiunga gli apici di popolarità del repertorio maggiore, "Paolina" è un'altra gemma che vi si va a incastonare. Il ritratto di donna assume i sapori malinconici di una solitudine un po' subita e un po' cercata ("...a casa la sera/ dopo il lavoro/due uova dentro al piatto/la televisione che fa chiasso" ma pure " ...al cinema sola/in ultima fila/paura e amore per buio: le solite indecisioni..."), fino a quando il narratore non esce allo scoperto cercando di scuoterla da quell'apatica quotidianità ("Paolina stiamo insieme, hai trent'anni ormai"), reiterando il suo nome senza ricevere risposta; il tutto è sviluppato su un toccante saliscendi armonico governato da una limpida chitarra acustica.
Pigro è considerato da molti come la massima vetta raggiunta dal cantautore abruzzese ma, se così non fosse, poco ci manca: la verità è che il triennio 78-80 corrisponde al periodo di massima grazia creativa, per cui diventa francamente difficile fissare le gerarchie su quale sia l'opera migliore.
Noi proviamo a sbilanciarci e diciamo Agnese dolce Agnese (1979). La carriera procede col vento in poppa in un susseguirsi di concerti, interviste sui giornali, un buon successo da classifica, ma anche con la sala d'incisione: non c'è neppure il tempo di archiviare "Pigro" che, ad arricchire il canzoniere, arrivano dieci nuovi ispiratissimi brani. La formazione che partecipa alle registrazioni è in larga parte rinnovata, o meglio si assiste a una sorta di passaggio di consegne: il basso di Hugh Bullen è rimpiazzato da quelli di Bob Callero (anch'egli con un passato prog negli Osage Tribe) e Beppe Pippi, mentre alla batteria a Calloni si affianca Gilberto "Attila" Rossi che, con lo stesso Pippi, compone anche dal vivo una delle più apprezzate sezioni ritmiche che affiancheranno il nostro chitarrista; completano il combo il battistiano Maioli alle tastiere, integrato dal nuovo entrato Fabrizio Moschini.
Per la terza volta consecutiva, Ivan guida da solo le operazioni trovando la migliore alchimia tra l'amata dimensione live e la produzione di banco. "Taglia la testa al gallo" è un folk-rock completamente emancipato dai canoni angloamericani, in quanto i testi attingono dall'immaginario folcloristico dell'Italia centro-meridionale mentre, sul versante musicale, il rock è trasfigurato nella danza tradizionale del saltarello abruzzese. A questa corrisponde un'altra dicotomia, con la quale Graziani da un lato omaggia la terra materna, la Sardegna ("...commare mia commare/ dimmi che senti/ dimmi che provi/ se la tua terra è ancora in mano ai quattro mori..."), dall'altro quella paterna con la forma musicale. D'altronde anche ne "Il prete di Anghiari" - un mirabile racconto gotico sulle superstizioni e sulle dicerie di paese incorniciato da una partitura di chitarra degna del miglior Mick Ronson - tornano dei riferimenti atavici che, fino a questo momento, avevano trovato voce nell'espressione più strettamente cantautorale di molte liriche di Fabrizio De André. Questo filo conduttore è ribadito, colmo di un'immancabile ironia a tinte oscure, ne "Il piede di San Raffaele", in cui la fede è paventata come il rimedio terreno a frustrazioni altrettanto terrene: la signora Sofia cinicamente sfruttata dall'amante diciottenne, l'omosessuale Isidoro sbeffeggiato per i suoi capelli ossigenati e per la sua sciarpina di seta; entrambi potranno trovare sollievo ai patimenti solo baciando "il piede santo di San Raffaele".
Il richiamo alle origini della nostra cultura popolare sarebbe stato ancor più esplicito, ancorché scabroso, qualora la casa discografica non avesse imposto un cambio decisivo al titolo e al testo: il piede che viene baciato, infatti, sarebbe dovuto essere il pesce con cui il santo viene raffigurato nella sua iconografia. Nella tradizione campana - a metà strada fra rito pagano e cristianesimo - baciare il pesce di San Raffaele è infatti il viatico per la prosperità, ma l'immagine, pur fedelmente inserita nel contesto narrativo, viene vista come troppo blasfema dagli zelanti discografici per il suo evidente doppio senso a sfondo sessuale.
Sono ancora molti gli episodi su cui vale la pena di soffermarsi. "Fame", ad esempio, è la sagace rievocazione in chiave blues rock di un periodo di difficoltà realmente vissuto appena dopo la chiusura del progetto con l'Anonima Sound: "Hai conosciuto la fame/ è una signora di classe/vive nella spazzatura... lei si presenta al momento giusto/ col suo profumo di pollo arrosto...", così nitida da divenire il soggetto della splendida copertina dell'album a firma del grande fumettista di Frigidaire Tanino Liberatore. Poi l'esaltante trama chitarristica con riffone a corredo di "Doctor Jekyll And Mr. Hyde", destinata a diventare un must degli show dal vivo, e il capolavoro "Agnese", oggetto di una sterile querelle su un plagio a opera di Phil Collins, che nel 1988 esce con l'assai somigliante hit planetaria "A Groovy Kind Of Love". Ivan gigioneggerà a lungo sull'equivoco al punto da trasformarla nell'intro live della sua canzone, con ciò non sapendo - o più probabilmente fingendo di non sapere - che quel brano è a sua volta la cover di un successo del 1965 firmato da Toni Wine e Carole Bayer Sager. È dunque Ivan il plagiatore? Il mistero si dipana ascoltando la "Sonatina in sol maggiore" del compositore settecentesco Muzio Clementi a cui entrambe le canzoni paiono esplicitamente ispirarsi. Ad ogni buon conto, "Agnese" è una ballata da lasciare senza fiato e si affianca a "Lugano addio" nel novero delle canzoni più celebri, vendute e acclamate del nostro, con tanto di tributo nell'incipit a George Harrison di "While My Guitar Gently Weeps" ("Se la mia chitarra/ piange dolcemente..."). Se episodi ineccepibili come "Veleno all'autogrill" e il piccolo turbamento amoroso dal triste epilogo di "Canzone per Susy" rischiano di passare in secondo piano, è solo perché a rubar loro la scena ci sono "Agnese", "Il prete di Anghiari", "Taglia la testa al gallo".
Ma soprattutto "Fuoco sulla collina": il resoconto di un sogno, come ci dice lo stesso Ivan proprio in apertura di un brano che, se non ci fosse stato anticipato nulla, sembrerebbe meno zeppo di simbologie. Ma un sogno è un sogno e non può che dare adito alle più svariate e (il)legittime interpretazioni. Nella concitata e insieme soffocata atmosfera onirica, il protagonista, un sedicenne, ci appare immobile all'interno di un giardino, quando invece vorrebbe prender parte a dei non precisati combattimenti che stanno avendo luogo in quel momento su una collina poco distante, e di cui, dalla valle, intravede i bagliori dei fuochi e ode l'eco dei rumori. Il ragazzino non vagheggia che di unirvisi e di partecipare con i compagni, poi, alle gozzoviglie della vittoria; ma un uomo senza volto (perché girato di spalle) lo trattiene e lo riporta alla realtà delle cose, appellandolo così amaramente: "Illuso, romantico e fesso (...) i fuochi di cui stai parlando, sono fari puntati sul campo dei trattori che stanno trebbiando". Eccola, dai contorni sfocati e dalle vaghe ambientazioni centro-italiche e senza tempo, nientemeno che una metafora, ben condensata, della disillusione che il passaggio all'età adulta comporta rispetto alle aspirazioni combattive e ai moti di ribellione tipici dell'adolescenza. Così l'uomo senza volto non può che essere l'Ivan adulto, ormai cinico e amareggiato, che l'Ivan-adolescente non può vedere in viso né riconoscere. Ma occorre fare un passo ulteriore, arbitrario, senza dubbio, ma quasi obbligatorio se si tiene a mente la concretizzazione dell'uomo-Graziani, il vero adulto. Come non personalizzare allora l'inerzia di quel sedicenne? L'adolescente del testo, infatti, sulla collina non ci corre, e non prende parte alle azioni corali dei suoi coetanei, almeno quanto l'Ivan-artista non prende parte attivamente alla contestazione dei suoi colleghi coevi. Questo sogno allora potrebbe significare un piccolo rimpianto, o al contrario la lungimiranza circa l'esito di battaglie destinate a rivelarsi effimere. Quel che in ogni caso è impossibile ignorare è come tanto lui, rimasto nel giardino, quanto loro, combattenti sulla collina, siano stati d'altro canto la diretta prole di una generazione gloriosa che sulle colline, giunta all'appuntamento con la Storia, aveva combattuto veramente. Ai tanti echi si aggiungerebbe, così, anche un lieve senso di inferiorità nei confronti della generazione precedente e il rammarico per tutto quel non vissuto.
Che ormai Ivan faccia parte del gotha dei rocker italici è certificato dal fatto che Mario Lavezzi lo chiama a partecipare all'operazione lancio del nuovo stile musicale di Loredana Bertè che, con quella mescolanza di sensualità caraibiche e di rockeggiante aggressività di "Bandabertè" (1979), si accinge a dare un'impronta decisiva al pop nostrano dei nascenti anni 80. Il suo nome è a fianco a quelli dello stesso Lavezzi, del compare di session battistiane Alberto Radius e di Ivano Fossati nel set di autori delle musiche. Il brano regalato alla interprete calabrese è "Colombo", i cui testi sono del conduttore e giornalista Attilio "Art" De Rosa che aveva già firmato quelli di "Doctor Jeckyll & Mister Hyde" nei due rarissimi casi in cui il chitarrista condivide con altri l'imprimatur delle sue composizioni. La figura di Art apparirà anche nelle vesti di soggetto nelle liriche di "Limiti", che apre il disco "Nove" (1984): "Hey Attilio che fai?", attacca sornione Ivan dispensandogli consigli amorosi. Il bravo De Rosa viene improvvisamente a mancare nel gennaio del 2012 a soli 57 anni, con ciò accomunando il suo destino a quello del carissimo amico.
Il nuovo decennio si apre all'insegna delle coerenza stilistica e della continuità creativa, pure suffragate da significativi elementi di novità nelle modalità di realizzazione. Non sappiamo fino a che punto voluti e quanto invece subiti (ma questo sarà un leit motiv di altre uscite che seguiranno), fatto sta che alla produzione gli si affiancano l'ex-Perigeo Giovanni Tommaso e il controverso canadese Douglas Bennett. Se con il primo le cose procedono d'amore e d'accordo, sentite invece cosa dice Ivan dell'altro: "Che ruolo ha avuto Bennett? Quello di finirsi il bar della Rca, dio bono! Ho voluto un produttore perché capivo che non è giusto chiudersi sempre in se stessi, però nel momento che mi sono accorto che invece era la persona sbagliata, o perlomeno che non era esattamente il produttore che poteva aiutarmi a fare certe cose, ho dovuto per forza tornare sulle mie posizioni... La prima versione di 'Firenze' sembrava un film, io ho eliminato parecchie cose in barba a certi stimoli che mi arrivavano dall'alto...". A parte questi intoppi, se l'intento era di ottenere un sound più intonato alle stilose esigenze estetiche del momento, senza tuttavia smarrire la spontaneità dei lavori precedenti, possiamo dire che Viaggi e intemperie (1980) centri in pieno il bersaglio.
Si diceva di "Firenze (canzone triste)". Con questo brano, Ivan cala il tris definitivo di ballate che coniugano un'abbagliante bellezza a una straordinaria popolarità: dopo Marta di "Lugano addio" e "Agnese" color di cioccolato, ecco l'irrequieta "donna d'amare in due", assieme a Barbarossa "studente in filosofia", nella cornice di una Firenze universitaria e colma di storia, ma anche di momenti che stanno repentinamente trasformandosi in ricordi. Già, perché di lì a poco non resterà che la solitudine, con lei che se ne va, con Barbarossa che si accinge a tornare nella nativa Irlanda con la sua laurea in filosofia, e il cantastorie lì solo a domandarsi: "Ma io che farò in questa città, fottuto di malinconia e di lei?", per quello che diventa sui due piedi un instant classic della canzone d'autore italiana.
Ma la vena creativa non si esaurisce qui. "Isabella sul treno" è un vorticoso boogie condito dall'ennesimo racconto tanto verosimile quanto inusuale tratteggiato con la consumata maestria del fumettista d'autore, "Angelina" - con una giovane Rossana Casale a far da seconda voce - è un altro uptempo che immortala i patimenti di cuore di una ragazza in contrasto con la frenesia di una Milano brulicante, "Tutto questo cosa c'entra con il r&r" è una cavalcata tiratissima in cui il luogo comune amoroso ("Vieni al chiar di luna a far l'amore con me") viene fatto e pezzi dal crudo contraltare della violenza ("...porta una tua amica, noi saremo in tre: un boschetto fuori mano, una violenza e poi...), per poi sfociare in un'acuta interrogativa retorica: "Sì ma, tutto questa cosa c'entra con il rock'n roll?". Per la serie: occhi aperti ragazzi, affinché il rock e la sua trasgressività non diventino il pretesto per mascherare ogni misfatto.
L'abituale efficacia data dal mix fra musica e testi fa passare in secondo piano arrangiamenti che vanno almeno a inficiare proprio i pezzi con maggiore attitudine rock. Si tratterà pure di sfumature, ma non è un caso se, interpretandoli dal vivo, Ivan pigi molto sull'acceleratore in momenti come "Isabella sul treno" o "Angelina", quasi a voler restituire loro lo spirito che avrebbe voluto infondergli in studio. Da questo punto di vista, invece, a trarre giovamento dai nuovi trattamenti sono proprio gli episodi più poppeggianti. "Olanda" è un lento colmo di malinconia che narra di un viaggio in treno mai avvenuto e di un appuntamento disatteso da parte di una lei fatale e forse un po' crudele, mentre in "Siracusa" (mirabili i suoi due movimenti musicali che alternano tre e quattro quarti) il viaggio dalla lontana Milano per raggiungere l'amata si concretizza, ma anche qui troviamo il retrogusto amaro di una realtà che fa a pugni con le aspettative del cuore.
Le storie chiaroscurali che rimangono come sfondo di viaggi compiuti ("Siracusa"), di quelli in corso ("Isabella sul treno"), di quelli di altri ("Firenze") e di quelli mancati ("Olanda") si prendono invece l'intera scena nelle intemperie della droga e della guerra. Su un riff magari troppo somigliante a quello della bowiana "Panic In Detroit", prende le forme una delle più efficaci e drammatiche bad story del canzoniere grazianiano: disegnata con tratti essenziali ma incontrovertibili, eccoci dinnanzi a "Dada", ragazza "buona e che tira fuori da guai", la quale si innamora della giovane cugina Yvette, in "un rapporto torbido fra cugine strette". Ma ciò che sembra essere sulle prime il piatto forte (l'adolescenza vissuta nell'omosessualità) si rivela solo l'espediente per raccontare una bruttissima storia di droga in cui Dada, armata dei migliori intendimenti nel tentativo di salvare l'amata dalla dipendenza, finisce a sua volta nella morsa dell'eroina: "...e se tu le vuoi incontrare, uguali come gocce d'acqua, Dada la grande e Yvette senza tette, le due cugine strette".
Il tema della guerra è affrontato nel pop-blues di "Radio Londra": si può morire nel giorno del compleanno, proprio nel corso dell'ultimo giorno della Seconda guerra mondiale? Sì, se questo serve a denunciare l'assurdità che sta dietro a ogni conflitto. Morire inseguendo la propria cruda fame di soldato, morire inseguendo la "volpe-libertà" proprio quando in quel mentre, altrove, "in piazza la gente si abbraccia" per la fine di un guerra che "forse" - ecco ancora l'amarezza a fare capolino - "non ritornerà mai". "Radio Londra" è la rilettura del tutto personale de "La guerra di Piero" di deandreiana memoria, però riallocata in uno sguardo d'insieme, meno immediata in quanto poco indugiante sui singoli dettagli ma non per questo meno lucida o efficace.
Il 1980 è anche l'anno in cui l'etichetta Rca lancia sul mercato il "Q-Disc", dove la lettera "q" sta per quattro (le canzoni presenti), ma anche per qualità, dal momento che la maggior distanza tra i solchi del vinile data dalle poche tracce presenti consente una migliore resa sonora. La formula della casa discografica è proposta anche dal vivo, in una collana che prevede un trio di artisti di diversa provenienza interpretare ognuno una sua canzone, per poi trovarsi a suonare insieme una traccia comune. L'operazione vede interessato anche Ivan che esce col pezzo "Dada" in formato "Q-Concert" in compagnia di Ron e di Goran Kuzminac, coi quali compone e interpreta l'innocua "Canzone senza inganni".
Il 1981 è l'anno di Seni e coseni. Riappare nel "cover concept" Mario Convertino, mentre in cabina di regia per i contenuti fa il suo ingresso il guru Tony Mimms, già a fianco di calibri come De André, Baglioni, Mina, Celentano, Berté, Zero. Il disco è concepito su due atmosfere ben distinte: nel lato A vi è un poker di ballate in cui balza all'occhio l'assoluta assenza delle chitarre, mentre nel lato B Ivan si rifà con gli interessi con quattro corposi rock'n blues. Per quanto possa apparire singolare, è proprio la facciata A a concentrare gli istanti più validi e ispirati: il profilo di donna greca di "Cleo" (un altro amore a distanza, dopo quello di "Siracusa"), una tipica solitudine pomeridiana della "Pasqua", con l'uggia mitigata dalla speranza di un ritorno di un tenero amore dal passato appena disturbata dall'incontro di un pazzo nei vicoli deserti, la storia d'amore dell'avvenente professoressa Lulù con "Raimondo il poeta, quel ripetente di diciotto anni che sta sempre agli ultimi banchi" nella toccante rivisitazione da album dei ricordi di "Signorina".
Non che l'altro lato sia da buttare, ma se le ironiche "Oh mamma mia" e "Digos Boogie" tengono botta senza essere trascendentali, "Tigre" e "Ugo l'italiano" (dedicata all'amico bassista black Hugh Bullen), sembrano essere messe lì senza troppa convinzione giusto per completare il lotto.
Con cotanto e consolidato repertorio, il momento è buono per tirar fuori dal cassetto un desiderio a lungo cullato, in quella che è un po' la resa dei conti per ogni rocker che rispetti: il doppio trentatré giri registrato dal vivo. E il rocker abruzzese non si lascia certo sfuggire una simile occasione, mettendo in campo tutte le sue bocche di fuoco e fissando su microsolchi uno dei migliori live act della discografia italiana. La formazione che scende in campo per il tour del 1981 da cui sono estratte tutte le sessioni (ad eccezione di "Isabella sul treno", che risale all'anno precedente e che vede Fabrizio Foschini alla tastiere, e di "Parla tu" - ricordate la prima b-side dell'Anonima Sound? - che è stata rubata alle prove del Teatro Palestra di S. Leo nel gennaio dell'82) è composta da Daniele Angelini alla seconda chitarra, Fosco Foschini al basso, Maurizio "Pastrocchio" Lucantoni alle tastiere e da Gilberto "Attila" Rossi alla batteria. Al live, che vede schierato anche il miglior repertorio, non manca davvero nulla: le riletture delle varie "Lugano Addio", "Paolina" "Agnese" (tre passaggi per un medley da brividi) sono ineccepibili, così come la new entry "Lontano dalla paura", figlia di un 45 giri da poco uscito e destinato alla colonna sonora del film "Il grande ruggito" di Noel Marshall, che suona come l'anello di congiunzione fra gli Stranglers che furono e i Prefab Sprout di "Faron Young" che verranno. Così anche le potenti elaborazioni di "Isabella sul treno" dilatata a nove minuti di durata grazie ad assoli mozzafiato (con tanto di dimenticanza del testo in un passaggio, che però passa quasi inosservata nel contesto), di "Motocross" di "Mona Lisa", in cui a risplendere è - manco a dirlo - proprio la chitarra.
Ed è qui che si riesce ad avere la misura del pensiero del collega e amico Alberto Radius (ma non solo il suo) che, riguardo allo stile di Ivan Graziani, sintetizza brillantemente: "Suonando la chitarra, sia che si tratti dell'elettrica che dell'acustica, c'è chi accompagna e chi rifinisce: Ivan univa le due cose in maniera perfetta". L'animale da palco non è comunque inferiore alla performance sonora: ironico, con battute pungenti tra un brano e l'altro, ma anche gigione nel suo tipico caracollare facendo il verso dello storpio, mentre impartisce assoli col sorriso beffardo sempre stampato in viso.
Nel 1982 egli trova il modo di partecipare, in veste secondaria, a un film del repertorio trash tricolore. Si tratta di "Italian Boys" diretto dal "Gatto di Vicolo Miracoli" Umberto Smaila: non dobbiamo infatti scordare che il prendersi poco sul serio fa parte del ricco carnet che compone la personalità, artistica e non, del nostro protagonista.
Chi ritiene che il live giunga in una fase di inventiva calante deve almeno fare i conti con altri due o tre super-classici della serie che troviamo in Ivan Graziani (1983): forse Parla tu sancisce una tregua con il rock 'n' roll più viscerale, ma non certo con le belle canzoni. Registrato negli ambiti studi del Castello di Carimate (tra De André, Pooh, Ruggeri, Dalla e Conte, davvero non si contano i big della nostra canzone approdati a incidere nell'amena località comasca), sotto la supervisione del maestro Gian Piero Reverberi (anche qui, la lista di chi è finito nelle sue mani è sterminata, e va da Mina a Patty Pravo passando per lo stesso Dalla, cui si aggiunge la pluriennale collaborazione con Lucio Battisti), il disco omonimo dell'autore teramano va nella direzione di un sound più elaborato e in linea con le grandi produzioni che allora andavano tanto per la maggiore.
Trovano qui spazio altre due bad story di rilievo: "Torna a casa Lassie" e il classicone "Il Chitarrista". Nella prima c'è l'incontro a dir poco fortuito con l'amico di infanzia Giulio, sorpreso mentre è intento a rubargli l'autoradio in un parcheggio. Ma il vero must è che i due finiscono a bere insieme al bar in nome dei bei tempi andati, che qui Giulio prende un sacco di botte dal barista e che infine, grazie a uno stratagemma da ladro di pollame, egli sparisce davvero con l'autoradio guadagnandosi la compassione dell'amico gabbato.
Nella seconda c'è lo zampino d Mogol a suggerire uno storico "te lo giuro sulla fender io non l'ho fatto apposta" in un testo anch'esso giocato da Ivan sul tema dell'inganno: il chitarrista-baro che, grazie a un mazzo di carte truccate, si garantisce come vincita una notte d'amore con la ragazza di colui che ha truffato, il tutto incorniciato in un riff di chitarra che entra dritto fra suoi i marchi di fabbrica. Completano un quadro degno di nota il capolavoro "Signora bionda dei ciliegi" - ennesimo meraviglioso tuffo fra i ricordi veri o presunti della giovinezza - la già menzionata dedica all'antico mentore di "Nino Dale And His Modernists", e l'emozionante resa dei conti amorosa di "Palla di gomma".
Anche se passano del tutto inosservati in un contesto, come si è visto, sempre d'eccellenza, non si può fare a meno di notare un minimo scollamento fra le raffinatezze della nuova proposta artistica e la maggior spontaneità dei lavori che hanno connotato il lustro precedente. Quel che è certo è che Ivan mostra una sempre maggiore insofferenza nei confronti del mondo discografico. Già nel 1981 aveva rilasciato un'intervista in cui annunciava un ritiro dalle scene (per fortuna mai verificatosi) dato dall'impossibilità di poter seguire in libertà le sue inclinazioni: da qui nasce il sospetto che la crescente presenza di produttori esterni, che connota praticamente l'intero decennio, non sia propriamente farina del suo sacco.
Da questo punto di vista, nel 1984 si assiste a una specie di resa dei conti con l'album Nove. Sul ponte di comando troviamo il maestro Celso Valli, di sicuro eccellente se messo alle prese con il repertorio elettronico dei Matia Bazar (sua è la produzione del bellissimo "Melanchólia" del 1985), con quello sofisticato di Fabio Concato ("Senza avvisare" del 1986) quando non con quello più leggero di Baglioni e Ramazzotti, ma non a suo agio con la verace spontaneità del nostro. Quel che ne esce è un lavoro rispettabile nelle intenzioni ma poco efficace nella resa, come se un vetro invisibile separasse le idee da loro effettivo sviluppo.
Della buona "Limiti" dedicata all'amico Attilio abbiamo già detto, dopodiché possiamo aggiungere la spumeggiante "Io che c'entro", la storia di un incontro surreale con una donna che plana sul davanzale del bagno (un sequel di "Isabella sul treno"?), mentre il protagonista è alle prese con la lettura del giornale (probabilmente sulla tazza del water e non nella vasca da bagno, come invece ci illustra l'altrettanto esilarante videoclip promozionale), la sognante "Geraldine" e forse il rock'n roll fifties "Minù Minù", se non fosse inficiato da ingombranti arrangiamenti filo-karaoke.
Ma il passaggio che fa esacerbare ogni ulteriore incertezza è la partecipazione all'edizione del 1985 del Festival di Sanremo con "Franca ti amo", canzone leggerina e poco rappresentativa, che per giunta non riesce neppure a far breccia né fra i giudici della manifestazione né fra i pubblico. Una comparsata poco convinta, nell'ottica di un approccio piacione che non pare essere nelle corde di Graziani, che si classifica al diciassettesimo posto e che nelle interviste manifesta una certa insofferenza, quasi a voler giustificare una mossa che non ha capito in pieno nemmeno lui. All'escursione sanremese fa da corollario la raccolta I grandi successi che contiene anche l'altro e poco significativo inedito "Vento caldo", il lato B del pezzo licenziato per il Festival.
Va poco meglio con la radicale reazione elettronica di Piknic (1986) che però almeno segna la fine del sodalizio con la Rca, ma anche la sublimazione di tutti gli equivoci recenti. Ad accrescere la sensazione di distanza fra quanto vuole l'etichetta e quanto invece vorrebbe il diretto interessato c'è la circostanza per cui Ivan suona spesso dal vivo nella basica formazione del power-trio, con i soli Beppe Pippi al basso e Pasquale Venditto alla batteria ad accompagnarlo. In pratica, l'opposto di ciò che accade in studio, dove ad attenderlo trova Fabio Liberatori (ex-tastierista degli Stadio) con la sua schiera di fairlight e sequencer, e persino le synth-guitar di Luciano Ciccaglioni e Fabio Mariani, solo in parte bilanciate dalla presenza dei due compagni di palco Venditto e Pippi.
Date le premesse, forse è po' troppo aspettarsi che Ivan si metta a comporre credendo in toto al progetto. E infatti Piknic ha tutta l'aria del lavoro messo in piedi per adempiere a un obbligo contrattuale, con brani che solo in rari passaggi riescono ad assecondare il mood imposto dai suoni, finendo con l'impantanarsi fra mal riposti ammiccamenti al soul ("Shame") rock'n roll edulcorati e senza intenzione ("Ho paura dei temporali") inoffensivi divertissement ("Zio Gorilla") ma anche passaggi di musica leggera senza neppure un valido testo a supporto ("Ed è felicità", "La mia isola").
Dopo un decennio scandito al ritmo di un'uscita all'anno, è arrivato il momento di chiudersi alle spalle i battenti della casa discografica, coi suoi vincoli e le sue imposizioni, e di tornare in pianta stabile a casa, nelle campagne di Novafeltria dove nel tempo Ivan ha messo in piedi lo studio Officine Pan Idler in un contesto ideale per recuperare le proprie origini musicali e i giusti stimoli, circondato solo dalla famiglia e dagli amici più cari. Nel 1988 esce il mini romanzo "Arcipelago Chieti", frutto degli appunti raccolti nel corso dell'anno in cui ha svolto il servizio militare, e nel frattempo proseguono senza sosta le prove per il rientro discografico in un clima di spontanea convivialità, con la moglie Anna (da sempre decisiva nel processo di scrittura dei testi di tantissime canzoni) che si fa in quattro per rendere confortevole il soggiorno degli ospiti che via via si susseguono in casa Graziani. Tra gli assidui non possono che esserci i soliti Pippi e Venditto, Maurizio Montanesi che dà una mano al mixer (già con Lucio Dalla, Renato Zero, Mimmo Locasciulli, Rino Gaetano e Francesco De Gregori), Art De Rosa assurto al ruolo di consulente e co-autore dei testi, e la vecchia conoscenza Roberto "Hunka Munka" Carlotto.
Con un contratto discografico nuovo di zecca siglato con la Carosello, nel 1989 esce Ivangarage. Al di là degli esiti, l'elemento forte che si coglie è l'effetto liberatorio che trasuda da ogni nota e da ogni rigo di testo: un sound oltremodo robusto, una produzione ridotta all'essenziale, dei testi sardonicamente disinibiti. La reazione all'impalpabile umore di Piknic ("quello è un album loro, non mio", dichiara Ivan additando i vecchi discografici) è tutta nella fender che si prende il centro della scena al punto da sconfinare, in certi momenti, in paesaggi propri dell'hard-rock (nell'efficace "Un uomo"), quando non dell'heavy (nell'inno contro il clericalismo benpensante "Ora et labora", magari un po' meno a fuoco). Liberatorio al punto che l'apertura di "Ivangarage" è affidata a "Prudenza mai", un soul blues elettrico in cui vengono messi in piazza vizi e idiosincrasie personali, con tanto di dedica a un non meglio specificato addetto ai lavori: "e invece ti mando a fare in culo, a te che sei il direttore", come a inverdire le gesta di Alberto Fortis in "Milano e Vincenzo".
"Non moriremo mai" pesca fra le nebbie dell'amata Urbino il ricordo di un amico e delle sue fragilità, e lo fa con un incedere così beatlesiano da sfociare in un esplicito medley di coda fra "She Loves You", "Hey Jude" e "Hello Goodbye" in un intreccio a più voci che la dice lunga sul livello di padronanza musicale.
Poteva mancare la vicenda dalle tinte nere? "Johnny non c'entra" è la storia di un bambino sette anni che uccide il padre con un colpo di fucile in quanto esasperato dalle sue continue violenze: musicalmente buona ma non memorabile, colpisce ancora una volta per la capacità di far emergere, attraverso quella che si presenta come una cronaca scarna, degli stati d'animo sì disperati ma totalmente scevri da pietismo. A penalizzare il risultato finale abbiamo passaggi come "Guagliò guagliò", in cui si dilapida in un refrain banale una base che avrebbe meritato maggior fortuna, "Psychedelico", che mette in campo spunti eccellenti ma senza compimento, e la didascalica "I metallari" che si muove fra le note di un pop'n roll probabilmente un po' obsoleto.
La moneta di scambio con cui viene ripagata la Carosello per la carta banca ricevuta con Ivangarage è la raccolta Segni d'amore (1989), in cui vengono reinterpretati molti successi della carriera con l'aggiunta del buon inedito "La sposa bambina". Qualcuno ne sentiva il bisogno? Di certo non Ivan, e nemmeno i suoi estimatori più vicini che preferiranno far girare sul piatto le versioni originali.
Sempre nel 1989 esce il 45 giri "Tutto il coraggio che hai", distribuito gratuitamente nelle discoteche a supporto di una campagna contro l'alcolismo giovanile, mentre l'anno seguente è la volta di "Sogno rosso", un hard rock dedicato alla Ferrari e allegato sotto forma di musicassetta alla rivista "Autosprint": due canzoni magari non indispensabili, ma utili testimonianze di una vivacità artistica che non viene mai meno.
Armato dei migliori propositi, desideroso cioè di riavvicinarsi al suo pubblico rispolverando il genere ballad che lo ha reso celebre, il cantautore abruzzese si ripresenta nel 1991 con Cicli e tricicli, in compagnia del grande direttore artistico, ex-Numero Uno, Claudio Fabi. Per motivi difficili da indagare, l'album prende una piega speculare a quella di Piknic, con brani fiacchi e iper-arrangiati in cui si salvano la deliziosa "Io mi annoio", un tributo al repertorio pop ludico dell'amato Paul Simon condito da un testo di raro acume, e la bad story "Kryptonite", un'istantanea sulle crudeltà cui viene sottoposto dai suoi coetanei un adolescente fuori dal coro, il quale alle fine decide di farla finita in modo drammatico e spettacolare.
Esattamente come è accaduto dopo l'album del 1986, un insoddisfatto Ivan trova rifugio fra le strade della sua Novafeltria, con le distrazioni date dalle session nello studio casalingo e dalle frequenti puntate a Urbino, la città che lo ha adottato e che così fortemente ha inciso sulla sua vita di uomo e di artista. Nel 1992, aiutato dagli amici Radius, Mingardi, Zero e Carlotto prova a pianificare la sua seconda apparizione sanremese con un pezzo dal titolo "Bleh! Bleh! Bleh!", che però fallisce le selezioni e rimane per sempre nel cassetto degli inediti mai pubblicati.
Ma le session del biennio '92-'93 non si esauriscono qui, e anzi costituiscono il piatto forte dell'operazione di riavvicinamento del musicista a se stesso, che si concretizza a inizio 1994 con la partecipazione al Festival di Sanremo, e con la conseguente uscita sulla lunga durata Malelingue. Come con Ivangarage, l'aria di casa si rivela ancora una volta un toccasana: mixato da Maurizio Montanesi presso gli studi Fonopoli di proprietà di Renato Zero, e coadiuvato dall'aiuto di tutta la famiglia (moglie, figli, e persino il cognato), Malelingue, rispetto a esso, tocca corde meno spigolose ma trova il giusto equilibrio fra istanze rock e facile ascolto. A cominciare dal singolo sanremese "Maledette malelingue" (alla fine buon settimo) che, con un motivo accattivante, porta avanti la campagna contro giudizio e pre-giudizio già paventati nel testo di "Pigro", e proseguendo con "Poppe, poppe, poppe", elogio divertito e beffardo a una ben intuibile virtù femminile, o con il rockettone "Il topo", un'apologia in chiave moderna della favola esopica, nella quale un pitone domestico si ritrova come pasto nella gabbia un "topaccio dei bassifondi" vivo, ma qualcosa gira storto e i ruoli finiscono con l'invertirsi.
Menzione a parte merita "La bella Gina", un'ingenua ragazza di provincia che arriva in città per fare un provino con un regista, coi tentativi di quest'ultimo di circuirla e di portarsela a letto che si spengono nel sonoro ceffone da lei rifilatogli, che però diventa anche il gesto finale delle sue velleità artistiche: risentirla dopo qualche lustro, alla luce dei noti "bunga bunga", ne moltiplica certo il tragicomico impatto.
Con il numero di catalogo CLN-25167 Malelingue è anche l'ultimo 33 giri su vinile licenziato dalla storica etichetta Carosello.
Dal lavoro svolto negli studi Fonopoli prende forma un sodalizio artistico rimasto fino ad allora latente nella lunga storia di amicizia personale con Renato Zero. Con il supporto di quest'ultimo, nel 1995 è la volta di Fragili Fiori... livan, un doppio cd ibrido, costituito da cinque tracce registrate nello studio romano e da un corposo live-act. Se la parte inedita fluttua nell'anonimato creativo (citeremmo solo "Lanutella di tua sorella" ma solo per il colore dato dai contributi vocali del re dei sorcini), il piatto forte è naturalmente ad appannaggio della scaletta dal vivo, in cui ancora una volta Ivan mostra il suo lato istrionicamente migliore.
Fra riletture vecchie e nuove, spicca la versione de "Il chitarrista" che, col suo spiazzante medley centrale costituito da "Would I Lie To You" dei Charles & Eddie, "All That She Wants" degli Ace Of Base, "The Rhythm of the Night" dei Corona e con una coda da guitar hero di razza che parte - manco a dirlo - sulle note di "Smoke On The Water" dei Deep Purple per agganciare la zeppeliniana "Whole Lotta Love", dà la cifra esatta di quanto il Nostro suonasse per puro divertimento, senza tralasciare capacità tecniche e rielaborative fuori del comune.
La giostra sembra ripartire, come sempre. Nel 1996 il nostro rocker azzera la storica sezione ritmica Pippi-Venditto, individua i sostituti nel figlio Tommaso e in Domenico Loparco, un giovane bassista scovato da quest'ultimo in un locale, aggiunge Giancarlo Del Vecchio alle tastiere e si mette a girare in lungo e in largo la penisola, tra arene e feste paesane, a dispensare pugni nello stomaco con la sua fender e carezze sotto forma di ballad, col suo sorriso sornione, l'occhiale, il gilet portachitarra e la gamba trascinata a mo' di zoppo. Già, come sempre. Nell'autunno rientra nella sua sala d'incisione, perché nel frattempo vengono fuori nuove idee, nuove canzoni da preparare, e ancora qualche concerto, le battute col pubblico, le divagazioni, le smargiassate giocose e tutto il resto. Ma da qualche tempo qualcosa non funziona più come prima, non la chitarra, sciorinata con la consueta maestria, non lo spirito, che impone di tirare dritto come se niente fosse, quanto piuttosto il fisico che spedisce segnali terribili e sinistri, di quelli che non si sarebbero mai voluti ricevere e contro i quali l'immensa forza d'animo non può nulla. E così, il primo gennaio 1997 un cancro maledetto si porta via Ivan Graziani. "Un vero chitarrista muore, deve morire sul palco", amava ripetere, e ci è mancato pochissimo perché ciò accadesse, dal momento che fino all'ultimo l'ha suonata per davvero quella chitarra: a non aver avuto "un occhio di riguardo" è stato proprio quel Signore invocato ne "Il chitarrista", sfilandogliela prematuramente di mano.
Grazie all'interessamento e alla produzione di Renato Zero che recupera una parte dei provini per voce e chitarra conservati da Anna - moglie di Ivan - e con il coinvolgimento di altri amici fra cui Venditti, nel 1999 esce postumo Per sempre Ivan, che però non va al di là dall'essere un sincero e affettuoso gesto di ricordo da parte di chi lo ha amato, e anche l'ultima occasione per sentire la voce tanto cara in nuove incisioni. Alle registrazioni prendono parte anche i figli Tommaso e Filippo, che in seguito chiuderà la sua esperienza di rapper per imbracciare anch'egli la chitarra, portando anni dopo in giro per l'Italia - sempre col fratello batterista - un apprezzato tour rievocativo dal titolo "Viaggi e Intemperie" da cui nel 2011 è tratto il cd "Filippo canta Ivan Graziani".
Ivan Graziani fa un grande lascito alla musica d'autore italiana segnando la strada di un modo inedito d'approcciarsi al rock, non già vissuto come complesso di inferiorità ed emulazione nei confronti dell'estetica anglosassone, ma come fiera affermazione della tradizione italiana. E lo fa non solo attraverso i suoi testi inimitabili, spesso incentrati sulla provincia motore trainante della nostra cultura e giocati sul filo di un'ironia screziata dalla malinconia del ricordo, ma anche con uno stile musicale figlio di una visione artistica trasversale, che rifiuta a priori steccati ed etichette, anzi semplicemente non se ne cura. "Amico ciao, il tuo giaccone di pelle una bandiera sarà, alta fino alle stelle, io per conto mio rimarrò sulla porta, certo non scapperò più: guardami, la mia anima non è morta" (Ivan Graziani, "Non moriremo mai").
Desperation (Freedom Records, 1973) | 6 | |
La città che io vorrei (Freedom Records, 1973) | 7 | |
Tato Tomaso's Guitars (Dig-It, 1974) | 5 | |
Ballata per quattro stagioni (Numero Uno, 1976) | 6,5 | |
I lupi (Numero Uno, 1977) | 7 | |
Pigro (Numero Uno, 1978) | 7,5 | |
Agnese dolce Agnese (Numero Uno, 1979) | 8 | |
Viaggi e intemperie (Numero Uno, 1980) | 7,5 | |
Q Concert (live, con Ron e Goran Kuzminac, Rca, 1980) | 5 | |
Seni e coseni (Numero Uno, 1981) | 6 | |
Parla tu (live, Numero Uno, 1982) | 8 | |
Ivan Graziani (Numero Uno, 1983) | 7 | |
Nove (Numero Uno, 1984) | 5 | |
I grandi successi (antologia, Numero Uno, 1985) | ||
Piknic (Numero Uno, 1986) | 4 | |
Ivangarage (Carosello, 1989) | 6,5 | |
Segni d'amore (antologia, Carosello, 1989) | ||
Cicli e tricicli (Carosello, 1991) | 5 | |
Malelingue (Carosello, 1994) | 6,5 | |
All The Best (antologia, Rca Italiana, 1994) | ||
Fragili fiori... Livan (studio/live, doppio cd, Cgd, 1995) | 5 | |
Antologia (antologia, Carosello, 1997) | ||
Gli anni Settanta (antologia, doppio cd, Numero Uno, 1998) | ||
Per sempre Ivan (Sony Music, 1999) | 4 | |
Firenze-Lugano no stop (doppio cd, antologia, Bmg, 2004) | ||
Le più belle di... Ivan Graziani (antologia, Rca, 2007) | ||
W Ivan (cd e dvd, antologia, Numero Uno/Rai Trade, 2007) | ||
Ritratto (triplo cd, antologia, Carosello, 2010) |
Ivan Graziani Forever | |
VIDEO | |
E sei così bella (live, da Ballata per quattro stagioni, 1976) | |
Lugano addio (live, da I lupi, 1977) | |
Monna Lisa(live, da Pigro, 1978) | |
Agnese (live, da Agnese dolce Agnese, 1979) | |
Il chitarrista (live, da Ivan Graziani, 1983) | |
Maledette malelingue (live a Sanremo, da Malelingue, 1994) |