Non sarà difficile per i 1990s diventare uno dei gruppi più apprezzati ed ascoltati di questa nuova estate musicale. La band viene da Glasgow e, nonostante il nome scelto lasci forse pensare all’ennesimo revival smorto e prevedibile di quanto il pop abbia detto e non detto nello scorso decennio, la musica tende a posizionarsi in maniera piuttosto sorprendente in un immaginario sonoro ed estetico fortemente anni Settanta, poco distante dai fasti del glam, insistentemente citato in più luoghi e canzoni di questo attesissimo primo album degli scozzesi, intitolato "Cookies".
A guardare questi 1990s, vuoi perché sono un terzetto, vuoi perché la morfologia facciale del cantante John McKeown risulta davvero bizzarra, il primo parallelo che salta subito alla mente è con i Supergrass (che pure andavano e vanno in una direzione piuttosto differente). Poi si scopre che due dei 1990s militavano anni fa, insieme ad Alex Kapranos e Paul Thompson dei Franz Ferdinand, negli Yummi Fur (forse qualcuno se li ricorderà ancora) e lo scenario inizia a farsi più chiaro.
Anni Settanta, si diceva, e già questa è una scelta piuttosto originale e in controtendenza se è in parte vero che i due maggiori filoni revivalistici dell’attuale musica anglo-americana hanno negli ultimi anni privilegiato da un lato l’esplorazione e il recupero della ramificata genealogia dei generi musicali anni Sessanta (dal folk alla psichedelia, passando attraverso il garage) e dall’altro si sono rivolti a una consistente riscoperta e rivalutazione degli anni Ottanta ( attraverso un massiccio rinascimento di floride fioriture di post-punk e synth-pop). Invece, questo disco d’esordio dei 1990s letteralmente trabocca di droghe, edonismo impazzito ed esasperante e un desiderio, a tratti sottilmente distruttivo, di divertimento totale e definitivo, che appartiene completamente agli anni Settanta e che, esattamente come allora, arriva quasi a coincidere con il completo e balbettante annullamento del pensiero ("enjoy" è del resto una delle parole chiave di questo disco, attraverso tutta un’articolata gamma di sfumature e risonanze semantiche).
Verrebbero da proporre accostamenti con Status Quo, Ram Jam, Mott The Hoople, in un certo senso anche i Queen, ma in fondo i due principali ispiratori della musica dei 1990s rimangono David Bowie e soprattutto Lou Reed (esplicitamente citato in almeno due canzoni, che non rivelerò).
Pezzi come "You Make Me Like It", "See You To The Lights" o "You’re Supposed To Be My Friend" sorridono spensierati e infilano sotto la lingua "Lalala" come francobolli colorati, affidandosi a chitarre che irrorano con i loro esuberanti fluidi ormonali melodie spesso molto efficaci e catchy, rese ancora più trascinanti e ballabili da linee di basso sculettanti e sinuose e da una macchina ritmica di una puntualità implacabile. Basta ascoltare composizioni come " Risque Pictures" o " Enjoying Myself" per rendersi conto che il gruppo preferisce quasi sempre ricorrere a un lessico molto semplice e diretto, giocato quasi totalmente sulla vivacità spumeggiante delle strutture ritmiche e su melodie asciutte e perforanti (per questo probabilmente qualcuno ha parlato di power-pop).
Non mancano, comunque, momenti più vicini alla ballata, come "Arcade Prescint" o "Weed", che avanza strascicata e barcollante mentre il baccanale di euforiche visoni del disco inizia lentamente a prosciugarsi e la mente si spalanca su note di chitarra che raffigurano scenari di irriducibile spossatezza e desolazione, forse noia. Anche se poi il pezzo più insolito e interessante finisce con l’essere "Situation", che si riconnette invece ad atmosfere CBGB’s attraverso una lunga fuga chitarristica a briglia sciolta, che ricorda quasi l’ascesi inarrestabile e totalizzante dei Television di "Marquee Moon".
Diciamo così: se i gruppi dell’attuale panorama indie somigliano a una coca cola dolciastra e svaporata, allora i 1990s sono un chinotto amarognolo e frizzantino. Non è poco.
30/05/2007