Ascoltando i singoli "Unfinished Business" (ai limiti della cover più sfacciata), "To Lose My Life" e "Death" (da notare i riferimenti insistenti a un microcosmo cimiteriale imbevuto di pessimismo e nichilismo esistenziale, che nutre anche i testi) sembra di ascoltare un gruppo di onesti emulatori degli Editors (il che è tutto dire, peraltro): stessa voce sofferta e baritonale, medesimo sventagliarsi di chitarre impregnate di pece catramosa e inchiostro nerofumo, stessa retorica gotico-romantica di giovani angeli caduti tra le miserie della terra in cerca di un'impossibile ideale salvifico di purezza estetica, con l'aggiunta di sporadici arazzi orchestrali e, talvolta, di trame organistiche, a dare un tocco di ulteriore spleen e sublime contrizione.
Volendo, il gruppo sa anche avventurarsi in incursioni dal piglio più ballabile, con ritmiche più spezzate (è il caso di "E.S.T." o di "Farewell To The Fairground") e in definitiva finisce con il collocarsi a ridosso di una coda lunga di giovani band quali Departure, Cinematics, Bravery, We Are Scientists e Killers, accomunate tutte dal fatto di essere state inghiottite dall'oblio o quasi (a parte forse i Killers, che hanno saputo riciclarsi come Pet Shop Boys proiettati in un'epopea fordiana da saloon, a dimostrazione di un'astuzia mediatico-manageriale che alle altre band è mancata).
Sarebbe d'altra parte disonesto non riconoscere che il gruppo possieda una minima dose di talento nel confezionare melodie di facile presa mnemonica. In più, sebbene la loro proposta risulti nel complesso infarcita di luoghi comuni addirittura abusati, i White Lies, entro certo limiti almeno, sembrano veri in quello che cantano e non banali (di nuovo: entro certi limiti...) nel modo in cui cercano di esprimerlo. Resta da capire come la loro ricerca (se di ricerca si tratta) possa "evolversi" nei lavori futuri, visto che quello in cui si sono infilati è a tutti gli effetti, e le cronache degli ultimi anni ce lo dimostrano ampiamente, un vicolo cieco.
(16/02/2009)