Si dice di solito che il passaggio a una major di una band con un solido retroterra indipendente presenti molteplici rischi, sia per le aspettative che in essa possono essere riposte a livello di mercato, sia per gli inevitabili timori di una banalizzazione in chiave commerciale di quanto in precedenza prodotto in ambito underground. Non sempre ciò risulta valido, ma aspettative e timori sono pur comprensibili se riguardano il debutto per una multinazionale di una band particolarissima come i Sigur Rós - assurta, volente o nolente, a vero e proprio "culto" grazie soltanto alla grande qualità e innovatività delle sue produzioni - e se hanno ad oggetto l'attesissimo seguito di un album come "( )", per il quale non è fuori luogo l'utilizzo del termine "capolavoro".
Dopo tre anni di quasi assoluto silenzio, passati in giro per il mondo a suonare e comporre i nuovi brani, provando e smussando pian piano dal vivo alcuni di essi, Jónsi Birgisson e compagni presentano finalmente il loro quarto album, comprensivo di undici tracce (per sessantacinque minuti di durata totale), questa volta tutte recanti un titolo, nonché dotate di un testo in islandese, se si eccettuano l'interludio corale "Með Blóðnasir" e il dilatato intro che dà il nome al lavoro. Per quanto si tratti di elementi meramente formali, già la presenza di titoli e testi veri e propri sembra indicare una maggiore estroversione nell'attitudine compositiva del gruppo, confermata poi dall'ascolto di "Takk..." (che in islandese significa "grazie"), dal quale emerge un mood più leggero rispetto alla struggente malinconia di "( )". Laddove quel lavoro, anche nel suo artwork essenziale dai toni grigio-bianchi, evocava cupe atmosfere invernali, "Takk..." appare il risultato dell'utilizzo, da parte della band, di una maggior varietà di colori, tratti dalla propria tavolozza musicale, attraverso i quali vengono disegnati ancora una volta ampi e apparentemente immobili paesaggi nordici, ora però illuminati da una pur flebile e incerta luce primaverile.
Così, i Sigur Rós, ancora supportati dal quartetto d'archi Amina, tornano a esprimere e comunicare grandi emozioni con dolcezza e forza, quiete e impeto, anche quando narrano soltanto piccole storie infantili, attraverso la consueta alternanza tra aperture melodiche e crescendo esplosivi. È questo il caso di "Glósóli" - primo singolo e ideale archetipo della filosofia sonora ed esistenziale della band islandese - che racconta di un bambino che, svegliandosi nell'oscurità, teme che il sole sia stato rubato, così va alla sua ricerca, fino a ritrovarlo lì dove è sempre stato. L'approccio di "Takk..." e l'impronta musicale di tutta la produzione dei Sigur Rós sono già tutti in questo brano: la sensazione di mancanza e abbandono, il conseguente momento di disperazione e smarrimento, poi la forza di volontà, la speranza e la gioiosa (ri)scoperta della realtà con gli occhi meravigliati di un bambino, il tutto in un delicatissimo caleidoscopio emotivo che va dal cantato sommesso e intimista di Birgisson della prima parte del brano all'apoteosi chitarristica (impetuosa come non la si sentiva dai tempi di "Ágætis Byrjun") della seconda, fino al breve ritorno della quiete negli ultimi secondi del brano.
Andamento analogo presenta anche "Sæglópur", con il suo inizio tutto pianoforte e campanelli e un maestoso crescendo che pare un'invocazione liberatoria, l'indicazione dell'esistenza di una speranza, concretizzata nel finale placido e romantico, in dissolvenza verso un assordante silenzio. Su una linea non dissimile si colloca anche la forse un po' prolissa "Mílanó" (oltre dieci minuti), che alterna momenti di grande romanticismo, nei quali è piacevole lasciarsi cullare dalla voce di Birgisson, a un paio di repentine impennate armoniche.
Non si deve con ciò pensare che la band, sperimentato il successo della formula, si sia rifugiata in cliché autoreferenziali, perché ogni brano propone proprie peculiarità, certo tutte radicate nell'esperienza e nella sensibilità dimostrate negli album precedenti, ma riviste non senza una certa dose di coraggio nel rimettere in discussione finanche le vette artistiche raggiunte in "( )", i cui toni soffusi riaffiorano soltanto a tratti, reinterpretati con non minore intensità, ma con levità e positività estranee a quel lavoro, come avviene nella filmica "Sé Lest" (culminante in un finale vagamente folk, arricchito da un copioso contributo di fiati) e nell'eterea "Andvari", pacato e intimista affresco lirico, dominato dagli archi. A completare il trittico di episodi lenti e sfumati è la conclusiva "Heysátan", ninnananna dolce e umbratile, adeguata quiete successiva alle tante travolgenti tempeste emozionali, quali anche quelle originate dalle iniziali fascinazioni psichedeliche e dai movimenti dapprima impercettibili che animano "Svo Hljótt", guidata poi da un cantato sofferto attraverso passaggi romantici in un impetuoso crescendo emotivo di stampo soavemente shoegaze, sfociante in un incantevole finale dilatato e sospeso, che il gruppo ha anche prestato, in una forma più composita, alle evoluzioni del corpo di ballo nazionale danese.
Altrove, i Sigur Rós sembrano richiamare esplicitamente lo stile dei loro primi lavori: "Gong", (una cui ottima versione alternativa dal vivo era ascoltabile già da tempo sul sito della band) è il pezzo più ritmato dell'album e senza dubbio quello dall'impatto maggiormente diretto, caratterizzato com'è da una netta impronta ritmica wave e incentrato su un vorticoso mantra di vocalizzi - a tratti quasi urlati - che riporta alla mente la trascinante "Myrkur", compresa nell'esordio "Von". La dolcezza e il lieve cantato di "Hoppípolla", oscillante tra la semplicità di una filastrocca e ariose aperture orchestrali, così come il coro leggiadro e modulato della sua breve appendice "Með Blóðnasir", sono racchiusi in un apparato lirico simile a certi passi di "Ágætis Byrjun", l'album senza dubbio più prossimo a "Takk...", per stile e sensibilità.
In definitiva, poiché il suono dei Sigur Rós, ormai consolidato, è talmente caratteristico da ammettere rimandi e riferimenti esclusivamente ad altri loro lavori, "Takk..." si può anche considerare una sorta di summa dell'espressione musicale maturata sin qui dalla band; ma non per questo si tratta di un album prevedibile, perché la sua peculiarità principale è data soprattutto dallo spirito con cui è stato concepito. L'evoluzione rispetto a "( )" risiede infatti, ancor prima che nella musica, nell'approccio, più diretto - il che non significa né facile né commerciale - ma sempre teso alla ricerca, seppur attraverso itinerari diversi, di una forma compositiva pura, sia nei testi che nei suoni, così come affermato dallo stesso Birgisson. È vero, qualcuno potrebbe anche iniziare ad annoiarsi di paesaggi sonori nordici, costruzioni melodiche orchestrali, campanellini e gorgheggi vocali vari, ma la musica dei Sigur Rós riesce nuovamente a toccare corde profonde dell'anima e a far provare emozioni, forse già note ma pur sempre molto intense e ora filtrate attraverso uno spettro musicale inaspettatamente vivace e meno opaco che in passato. Certo, non si può imputare a "Takk..." quale maggior difetto quello di seguire un autentico capolavoro come "( )" che, obiettivamente, resta collocato su un gradino più elevato. E allora, perché il cuore, ben prima della testa, possa cogliere e apprezzare le molteplici sensazioni scaturenti dall'ascolto dell'album, bisogna soltanto abbandonarsi al trepidante flusso emozionale in esso racchiuso che, una volta infiltratosi senza sforzo negli esili meandri della psiche, renderà inevitabile dire ancora "takk", di cuore, a una band così straordinaria.
26/03/2012