Ogni nuovo album dei Wire è un piccolo evento, come una magia che quasi miracolosamente riesce a rinnovarsi. Magari non hanno più il piglio punk degli esordi, né quella mania di perfezionismo che li contraddistinse trent’anni fa, ma questi intellettualoidi eterni impertinenti continuano a catalizzare l’attenzione ad ogni uscita discografica. Il motivo più probabile è che restano fra i rarissimi superstiti di un periodo che sempre più va mitizzandosi, forse oltre ogni plausibile ragionevolezza.
Già dal titolo di questo nuovo lavoro, i Wire sembra vogliano evidenziare la longevità del proprio percorso: infatti il 47 del titolo sta a significare che questo è il 47° lavoro edito dalla band. Questa volta non c’è assolutamente nulla di rivoluzionario, né di davvero imprescindibile, ma nove tracce che si lasciano bere tutte d’un fiato, lasciando un’arsura che fa venir voglia di rimandare il lettore in eterno repeat. Non troviamo nella line-up l’impronta del chitarrista Bruce Gilbert, assenza che tuttavia non si fa sentire più di tanto, in una formazione abituata ai rimpasti.
"Object 47" si caratterizza sin dalle prime note come uno degli album più solari e melodici della lunga discografia del gruppo, decisamente distante sia dal predecessore "Send" che dagli esperimenti presentati negli Ep della serie "Read & Burn".
Da personaggi sempre troppo avanti come loro, si apprezzano soprattutto i momenti più sperimentali, quelli nei quali i nostri cercano di fare qualcosa di nuovo e di testare nuovi elementi: il caso più eclatante risiede nel trip-hop centrifugo di "Hard Currency", quasi dei Massive Attack in anfetamina.
L’iniziale "One Of Us" è un’evidente dichiarazione di intenti, dove pennellate inaspettatamente limpide vengono stese su una tela che sa tanto di reminescenze wave. E’ il brano giusto al posto giusto al momento giusto, sembra quasi volerci dire che i Wire oggi intendono riappacificarsi col mondo, smettendola di evitare in tutti i modi di vendere dischi. Di sicuro quella che sta vivendo il trio inglese è una seconda, folgorante giovinezza, dove l’immediatezza prende il sopravvento sull’avanguardismo fine a se stesso.
"Perspex Icon" è un altro momento contagioso, con la voce di Colin Newman disposta a farci intravedere miraggi del glorioso passato.
Newman come al solito si alterna al microfono con Graham Lewis, che è grande protagonista in "Four Long Years": classe da vendere.
Non mancano anche momenti funk-oriented, come nel caso delle ballabili (!) "Mekon Headman" e "Are You Ready?": quest'ultima nel 1981 avrebbe potuto affermarsi come un hit alla "Enola Gay".
Più trascurabili "Patient Flees" e la circolare "Circumspect", mentre la conclusiva "All Fours" è un riuscito esempio di rock anthemico da stadio, basato su riff semplici ma di grande efficacia.
Termina così il nuovo capitolo edito da una delle band più influenti di tutti i tempi, protagonisti assoluti di uno degli ultimi periodi realmente creativi della musica rock, quello che oggi tendiamo a identificare con l'appellativo di post-punk.
01/07/2008