Spigoloso, schietto, misterioso, "Nocturnal Koreans" è più affine alle stranianti torture elettroniche di "Chair Missing" e di "154" che non alle sontuose architetture pop che hanno nobilitato la loro produzione dalla resurrezione artistica di "Send" (2003).
La band mette da parte l'enorme patrimonio melodico e gioca con riff esili, mai armonicamente completi, e li getta in un'orgia di suoni in cui la densità delle chitarre e delle tastiere è pari alla forza del ritmo e al groove quasi noir del basso.
Otto brani apparentemente inconciliabili e diversi, eppure tutti proiettati verso una musicalità più emancipata: lo stridente uptempo minimalista di "Numbered" e il possente vigore dei tre accordi di "Still" sono due facce di una stessa medaglia.
Gli Wire sono ridiscesi negli inferi per rubare al diavolo le sue canzoni più belle, e lo hanno fatto senza paura di sporcarsi le mani, il pop-beat-twist in chiave elettronica della title track è una rilettura surreale delle loro ultime creazioni, un punto di approdo per i fan più giovani e una scossa emotiva per chi fu folgorato da "Pink Flag".
Il tono epico e guerriero della kratutiana "Internal Exile", l'indolente dismissione stilistica di "Forward Position" e la luccicante grazia naif di "Dead Weight" spazzano via con un sol gesto anni e anni di tentativi d'imitazione.
Appare sempre più chiaro che l'album del 2015 non era un semplice attestato di buona salute, ma una vera e propria dichiarazione di guerra alla mediocrità e alla routine, e se quanto finora esposto non vi sembra molto convincente non avete che da tuffarvi nel languore ipnotico di "Pilgrim Trade" e nella furia post-punk della viscerale "Fishes Bones". Se le vostre perplessità non verranno disfatte, non vi resterà altro che consolarvi con l'ennesima band hipster. Buona fortuna.
(23/04/2016)