Siamo sinceri, partecipare a un matrimonio in piena estate, quando gli altri cercano refrigerio al mare o rintanati in una stanza climatizzata, è sempre un'esperienza un po' sofferta e drammatica. E quello cui una sadica Natasha Khan invita i suoi ascoltatori, in questo caldissimo luglio, è tinto di dramma per davvero. La storia su cui si snoda il quarto album di Bat For Lashes è infatti quella di una sposa, "The Bride" appunto, così sfortunata, durante il giorno più bello della sua vita, da non potersi nemmeno fregiare del titolo di vedova.
Lo spazio per la spensieratezza è pochissimo, poco più di due minuti puntellati dall'omnicord della Khan, con la romantica ingenuità di "I Do", che non a caso ritorna dalle parti del debutto, in cui la futura sposa immagina il fatidico momento in cui pronuncerà "lo voglio". Ma l'idillio è presto spezzato dai tormenti di "Joe's Dream", onirica e sporcata di blues, con lo sposo che confida alla fidanzata oscuri presagi. Incubi che non tarderanno a manifestarsi quando lei si ritroverà ad aspettarlo, invano, nell'ammaliante cattedrale di synth intitolata "In God's House". Parte l'abbozzato country della tetra "Honeymooning Alone" e capiamo che il povero Joe, diretto alla cerimonia, si è schiantato con la macchina, perdendo la vita.
Alla sventurata sposa non resta quindi che intraprendere la luna di miele più dura e dolorosa, e dopo esser stata sopraffatta dal dolore in una paradossalmente pimpante "Sunday Love", unico momento realmente radiofonico del disco e costruito, con successo, sulla falsariga della vecchia hit "Daniel", il viaggio si fa inevitabilmente meno descrittivo ma più introspettivo e catartico. Tra rimorsi, visioni spettrali, speranze e riappacificazioni, questa luna di miele interiore si risolve in ben sette variazioni sul concetto di ballad on the road al femminile, intervallate solo dalla febbricitante e claustrofobica litania di "Widow's Peak", unico e vago rimando al recente progetto SEXWITCH.
Una scelta artistica fin troppo coraggiosa e che richiede all'ascoltatore uno sforzo non indifferente per poterne apprezzare la caratura e coglierne le sfumature. Che si tratti della soave leggiadria di "Close Encounters", dalla melodia impeccabile, o della classe vintage di "If I Knew" o "In Your Bed", che perdono finalmente la patina zuccherosa di quella "Laura" che quattro anni fa sembrava volesse inseguire la pur brava Lana Del Rey.
La Khan è in stato di grazia quanto a profondità interpretativa e la sua penna si conferma come una delle più capaci e mature nel panorama cantautorale. La scelta di un concept così particolare e psicologicamente impegnativo l'ha per forza di cose costretta a lavorare su un materiale a volte eccessivamente omogeneo e lento ma, d'altro canto, l'ha spinta a smussare le non sempre riuscite asperità arty dell'album precedente.
Ancora una volta si resta affascinati, ma ciò non toglie che per un matrimonio del genere sarebbe stato meglio ricevere la partecipazione a settembre.
24/07/2016